sabato 28 febbraio 2015

Sassolini
Lettera agli amici che non  hanno ancora capito  nulla di me…
di Dalmazio Frau

Carissimi,

Qualcuno ha mai letto la poesia di William Butler Yeats 
"Ad un Aviatore Irlandese che prevede il giorno della sua morte"? 
No? Fatelo. Ve la riporto più sotto. 
Perché, appunto, in quei versi c'è la mia personale spiegazione al perché si "devono" fare le cose, ovvero "non fu la politica, ne l'applauso della folla a spingermi a questo tumulto fra le nubi" ma un "impulso di gioia, un impulso solitario". 
Ecco perché faccio ciò che faccio. Libero. Come Cyrano. 
Senza appartenere a nulla né a nessuno. 
I caudatari, lecchini, pertatori d'acqua e vessilliferi li lascio volentieri alle loro incombenze, perennemente tesi al conseguimento rancoroso del loro "spazio vitale", sempre pronti - e proni - a mutar padrone e "maestro" non sapendo essere padroni di loro stessi. 
Non m'interessano le consorterie d'ogni ordine - e disordine - e grado, i sedicenti iniziati, i mistici vaneggianti e vagheggianti; a loro tutti vorrei dire di leggere, con attenzione, Rabelais. 
Non voglio politici, sbruffoni, millantatori né intorno a me, o filosofi rampanti - di grazia - né incapaci presuntosi il cui unico talento è il pettegolezzo e la maldicenza invidiosa. 
Non amo le persone che, prive d'una idea loro propria, autonoma, individuale, debbono per forza usare quelle altri, in aggiunta peggiorandole, convinte invece di produrre qualcosa di originale. 
Non mi interessa il denaro, anche se purtroppo è necessario per poter far bene le cose, ma lo sono ancor di più le capacità, la competenza, il coraggio di uscire e rischiare, in proprio, e non dietro lo scudo degli altri. 
No, non amo i codardi, quelli che si nascondono, che stanno sempre nella penombra seduti dietro, nelle ultime file travestiti da umili, invece sono corrosi dalla bramosia di stare sotto le luci della ribalta. I signorsì, i fomentatori di accuse dietro le spalle, i giudici senza Giustizia, i venesi privi di talento e di cultura.
Mi piacciono le persone che sbagliano e hanno il coraggio di ammettere i loro errori. Mi piacciono i Guerrieri che escono all'alba, da soli, con soltanto una spada in pugno sapendo che andranno a morire davanti a un esercito di nemici e lo fanno con uno sberleffo sulle labbra. 
Viviamo circondati da persone che vivono una vita inutile, occupando un tempo sprecato tra una nascita e una morte, senza aver mai cercato  - o peggio, illudendosi di averlo fatto - "virtute e canoscenza". 
Mediocri convinti di essere dei grandi, falliti che si credono vincenti, piccoli, meschini ammantati della peggiore "superbia dell'umile" come diceva Seneca, questi sono i patetici burattini che abbiamo intorno, in ogni luogo, argomento, attività... e, scriveva il grande Baudelaire: "Tu, ipocrita lettore... mio fratello!" 

Buona Fine di Settimana. 

Dalmazio 

                                       ***

Un Aviatore Irlandese Prevede La Sua Morte

Lo lo so che sarà là, da qualche parte tra le nuvole,
sarà là che incontrerò alla fine il mio destino;
io non odio questa gente che ora devo combattere,
e non amo questa gente che io devo difendere;
il mio paese è Kiltartan Cross,
la mia gente i suoi contadini,
nulla di tutto ciò può renderli più o meno felici.
Né la legge né il diritto mi spinsero a combattere,
non fu la politica, né l'applauso della folla.
Un impulso di gioia fu, un impulso solitario
che mi spinse un giorno a questo tumulto fra le nuvole; 
nella mia mente ho tutto calcolato, tutto considerato,
e gli anni a venire mi sono sembrati uno spreco di fiato,
uno spreco di fiato gli anni che ho passato
in paragone a questa vita, a questa morte

                                                         William Butler Yeats 


Dalmazio Frau è illustratore, pittore, creativo, storico dell'arte. Anacronistico e  apolide, perennemente asincrono rispetto all'idiozia del mondo. Ride  senza mai prendersi sul serio in un paese poco serio, ama l'Arte e i  gatti, oltre naturalmente a sua moglie.

venerdì 27 febbraio 2015

Medio Oriente
A brigante brigante e mezzo. E subito



Perché l’Occidente non vuole  dichiarare  guerra all’Isis?  Per rispondere a una domanda del genere, che rinvia alle radici storiche del moscio pacifismo attuale,  non basterebbero neppure centinaia di  libri… Perciò,  tanto vale,  rischiare,  provando  a rispondere in duemila battute.
Le tesi principali sono due (e in fondo collegate): consenso e burro  
I seguaci della prima tesi ritengono che  le democrazie, fondate sul consenso, non possono auto-affondarsi puntando su uno strumento impopolare come la guerra. Di qui, il trattativismo ad oltranza (tradotto: ciurlare nel manico).
I fautori della seconda tesi sostengono invece che le guerre costano, e le democrazie di cui sopra, se vogliono durare  ai cannoni devono sempre  preferiscono il burro. Di qui, il  trattativismo  ad oltranza.
I nemici  ne sono a conoscenza?  Ma  bien sûr…  Che fare allora ? 
Uno. Rendere popolare la guerra? A prescindere dagli effetti della propaganda, più meno a lungo termine,  la transizione a una società  "ribellicizzata",  avendo i suoi costi,  influirebbe prima o poi sul tenore di vita.  Ciao consenso.  
Due. Farla combattere agli alleati (o quasi) dell’Occidente?  In pratica è quel che ora accade. Però la scelta ha comunque un costo e le guerre in appalto a terzi, vanno per le lunghe. Sicché,  prima o poi,  ciao consenso.
Tre. Continuare a trattare   sperando  in una conversione al buonismo democratico del’avversario: il che  potrebbe funzionare con l’avversario  pragmatico, non con il  nemico fanatizzato che tende ad elevare il livello di scontro, portandolo nel cuore dell’Occidente, come sta accadendo. Sicché, anche in questo caso,  si rischia, prima o poi,  il ciao-ciao di un cittadino, sempre più insicuro e impaurito ( il vecchio scambio protezione-obbedienza, Hobbes docet).
Morale:  non si può continuare a far finta di nulla, per prendere tempo.  Il consenso, così sacro per le democrazie,  rischia di  incrinarsi comunque.   Perciò, sarebbe meglio  giocare d’anticipo… Altrimenti detto: a brigante  brigante e mezzo.  E subito.


Carlo Gambescia                       

giovedì 26 febbraio 2015

Il libro della settimana: Pablo Sánchez Garrido (Dir.), Consuelo Martínez-Sicluna (Ed.), Miradas liberales. Análisis polìtico en la Europa del siglo XX,  Biblioteca Nueva – Grupo Editorial Siglo Veintiuno,  Madrid 2014, pp. 232.   

http://www.bibliotecanueva.es/



Ortega di lassù sorride. E per una semplice motivo: il lavoro  curato a quattro  mani da   Pablo Sánchez Garrido  e  Consuelo Martínez-Sicluna  (Miradas liberales. Análisis polìtico en la Europa del siglo XX,  Biblioteca Nueva – Grupo Editorial Siglo Veintiuno ) si muove nell’alveo della classica  distinzione orteghiana,  tra  idee e credenze, riveduta e corretta, per ammissione degli stessi curatori, alla luce delle intuizioni teoriche della Scuola di Cambridge (Quentin Skinner e dintorni), nonché  del “realismo histórico-político” di matrice ispanica  (Díez del Corral, Maravall, García-Pelayo, Conde e altri): il tutto, declinato nei termini  di una storia dell’analisi politica (historia del análisis político)  del pensiero liberale novecentesco nelle sue voci più intriganti e (perché no?)  dissonanti. 
Ci spieghiamo, usando una terminologia meno criptica.  Per Ortega, le idee vanno e vengono, le credenze  restano, perché hanno un fondamento storico profondo (la famosa “circostanza”). Infatti,  “ esse [le credenze] non sono le idee che siamo ma le idee che abbiamo” (Un capitulo sobre come muore una creencia,  “Obras Completas”,  IX, 707-725).  Quindi applicare la  distinzione orteghiana alla storia dell’analisi politica, significa studiare, collegandole, due cose:  sia come un pensatore espone le sue idee sulla realtà in cui si trova immerso, sia come analizza le credenze dominanti, sottoponendole alla sua visione critica, ossia alle sue idee.  Perciò, in questo caso, si tratta di  “sguardi” liberali” (miradas liberales)  -  le  idee -   che vanno a illuminare  una certa  realtà storica -  le credenze -   ma anche  sguardi  di altro tipo -  quelle idee  che  interagiscono, talvolta contrastandolo,  con il liberalismo (quando diventa a sua volta una credenza?) . Tutti spunti, ben messi a fuoco,  nella densa introduzione di  Pablo Sánchez Garrido. Ma procediamo per gradi.

Nel primo capitolo (Contextualización generale y metodológica ), Anna Jellamo,  ricostruisce la filosofia politica del  XX secolo intorno ai concetti di limite ( rappresentato dal riconoscimento dell’Altro, su un piede di parità) e dominazione ( costituita dalla subordinazione dell’Altro, come diverso, in senso peggiorativo, e  inferiore): conflitto  sempre pronto a riesplodere, da un lato i liberali dall’altro i nemici della libertà.  Non c’è ponte. Questa la dialettica.  
Invece, Dalmacio Negro Pavón delinea intorno all’eterno conflitto tra metafora organicista e meccanicista,   il moderno  svilupparsi di una pericolosa  tendenza al costruttivismo sociale, sorta di  teologia laica che  trasforma  lo  stato  in  pericoloso  dio mortale e l'individuo in  superstizioso credente nei miracoli sociali. Un bel saggio:  il   monito  Negro  è quello di  un  liberale, erudito, pacato e riflessivo,  monito che andrebbe attentamente ascoltato.  
Nel secondo capitolo, (Algunas  variantes de análisis político europeo en el siglo XX)  Paola B. Helzel, affronta la  famosa  analisi  di Hannah Arendt  della personalità,  anti-filosofica, di Eichmann, l'aguzzino nazista, quale vivente summa  burocratica  di un pensiero, quello totalitario, grigiamente  incapace di pensare se stesso: quella banalità del male, come ogni liberale dovrebbe sapere, sempre in agguato, soprattutto quando l’uomo qualunque  smette di pensare, trovando  appagamento nell’esecuzione di ordini e regolamenti solo perché tali.     
Montserrat Herrero offre una  finissima  ricostruzione del liberalismo di Isaiah Berlin, sionista per caso,  romantico, pluralista, ma non  per questo nemico dell’ agonalità, anche più dura. L’uomo sceglie, la Forza dispone. E non sempre si tratta della forza della ragione, come accade  nella parabola  militare  del sionismo,  intuita da Berlin.  Un liberalismo, il suo,  da riscoprire e valorizzare perché segnato da un profondo senso della realtà. E ovviamente, anche da alcune contraddizioni, in particolare una,  ben illuminata dalla Herrero: come conciliare il liberalismo, quale  posizione politica tra le altre, con il liberalismo,  come metro politico-morale di giudizio e sistema istituzionale? Questione ancora  in attesa di risposte esaustive, ammesso che  esistano... 
Jerónimo Molina Cano, con erudizione non comune,  si occupa di Gaston Bouthoul,  padre delle moderna polemologia:  altro liberale  capace di guardare in viso la  guerra come forma ineliminabile di conflitto.  Grande maestro di realismo prima che politico, esistenziale e  vitale nel senso più materiale possibile,  dal momento che Bouthoul, come spiega  Molina,  scorge nella guerra il manifestarsi di  un implacabile meccanismo di riequilibrio demografico: dura lex (sociologica) sed lex (sociologica).  
Juan C. Valderrama Abenza  si confronta con l’opera di Julien Freund, anch’egli liberale realista ( triste o archico, per un usare termini a noi cari),  perché consapevole  che la politica passa, il politico resta,  e solo ubbidendo al politico (come terreno teatro di  conflitti e del ripetersi di altre “essenziali” regolarità politiche, Miglio docet)  si può comandare alla politica. Eccellente lezione, che molti  sognatori della politica, soprattutto quella politicante o avvelenata dall’ ideologia  continuano a ignorare. Purtroppo.
José Ortega y Gasset (1883-1955) 
Nel terzo capitolo (Análisis político europeo en el contexto ibérico),  Mª Ángeles Varela Olea  si occupa di  Benito Pérez Galdòs,  evidenziandone  il lato volontaristico, tipico di  un liberalismo  riformatore e concreto, non immune però, curiosamente, da certo dottrinarismo. Jose Peña Gonzáles  ricostruisce abilmente il  liberalismo di Ortega, come  scelta morale, storicamente (e stoicamente) data,  capace di attraversare  il divario tra storia e politica, anche grazie ( tra le tante preziose intuizioni sociologiche) alla ricordata distinzione  tra idee e  credenze. Consuelo Martínez-Sicluna si occupa di Miguel de Unamuno analizzando la  tensione tra  “Historia”, come incarnazione del transeunte,  e “Intrahistoria”, quale dominio della spiritualità umana: di quel che non muta nell’uomo, da sempre immerso nel fiume della storia, le cui acque però, eraclitianamente, non sono mai le stesse. Questo il problema.
Infine, Pablo Sánchez Garrido indaga le contraddizioni politiche di  pensieri ricchi, suggestivi e complessi come quelli di  Ramiro  de Maetzu e António Sardinha ambedue  capaci  di confrontarsi, e creativamente,  con il tradizionalismo, il  liberalismo e  il nazionalismo.  E (perché no?) con l'antica ma non superata  grandezza della cultura  politica ispanica (il  primo) e lusitana (il secondo).  Di qui, una loro unità di intenti ma non di risultati concreti, complici i tempi e la brevità delle vite.   
Concludendo un eccellente volume, organico, ben costruito, in linea  con  le necessità teoriche della ricerca più avanzata,  degno di figurare nella biblioteca di studiosi e lettori  curiosi di capire  il ruolo del liberalismo novecentesco come forma di analisi politica, non  priva di contrasti e contraddizioni , ma  sempre dalla parte della libertà. Dell'individuo. 

Carlo Gambescia
                           
     

mercoledì 25 febbraio 2015

Guido Vitiello e la storia "controfattuale"
 E se Evola fosse morto nel 1919?

Julius Evola, “Mazzo di fiori” -  ca. 1918
(Fonte: http://www.fondazionejuliusevola.it/Quadri/MazzodiFiori.htm  )
Ieri  sul Foglio Guido Vitiello, fantasista delle idee,  si è prodotto  più per i grandi che per i piccoli,  in un divertente  esperimento di prestidigistoria della filosofia, per la precisione  di storia  “contro fattuale”, tipo,   se  il  tale  pensatore  fosse morto ancora giovane, allora eccetera, eccetera.  
Scrive il buon Vitiello: “ Per esempio: il viaggiatore   nel tempo  con la sua ventiquattrore si presenta a Basilea  intorno al 1870 e bussa alla porta  del giovane filologo  Friedrich Nietzsche. In una mano tiene una capsula di cianuro, nell’altra una foto di Massimo Fini in Ray-Ban. Scrivi  pure “la nascita della tragedia”, gli dice, guarda che  tragedie ne nasceranno: ecce homo. Siamo certi che il filosofo dell’amor fati ripeterebbe il suo grande sì ?”:  
Estendiamo l'esperimento  alla cultura della destra post-fascista.
Intanto, quanto a Nietzsche, non ci saremmo cuccati   neppure l’iperattivo  Buttafuoco, ora spin doctor di  Salvini ( ognuno, ovviamente,  ha il superuomo che si merita).  Mentre  se Evola fosse morto sotto il famoso bombardamento alleato viennese, 12 maggio 1945, passeggiando per la Schwarzenbergplatz  non ci saremmo risparmiati Marcello Veneziani, tronfio consigliere amministrazione Rai con Rivolta contro il  mondo moderno sottobraccio, scritto dal Barone, purtroppo, nel 1934.   Quando far morire Evola, allora?  Diciamo, nel suo  periodo pittorico?   Durante la grande  Esposizione futurista di Palazzo Cova, Milano 1919? “Lei è giovane ma così bravo. Prego, venga a prendere un caffè da noi”.   Lunga vita invece a Carl Schmitt: Gennaro Malgieri non ha mai capito un cazzo del suo pensiero.   
Tutto qui?   Ci sarebbe Cardini.  Non che  abbia figliato  chissà quali allievi:  se la canta e se la suona in compagnia di se stesso.  Ma se l’Arno nel 1966,  straripando - molto prima del suo ego -  lo avesse sorpreso, mentre si attardava  sotto la pioggia, tutto bagnato, con due borse gonfie di vecchi libri ( "i suoi tesori"),  sul Lungarno degli Acciaiuoli…  

                                                                                                                                Carlo Gambescia       

martedì 24 febbraio 2015

L’accordo tra Italia e Svizzera
Viva il segreto bancario!


Si vuole scoprire perché l’Italia non avrà mai una destra politica capace di stare dalla parte dell’individuo? Dei diritti dell’individuo? Facile.  Basta limitarsi a dare uno sguardo alla prima pagina di oggi dei tre principali quotidiani di destra (Tempo, Giornale, Libero ma anche il Sole 24 Ore, che, istituzionalmente, dovrebbe difendere i “padroni”), "ufficialmente",  sempre in prima linea contro la sinistra (quanto al Foglio,  quotidiano d’élite,  il discorso è più complesso, ce ne occuperemo in altra occasione).  
Invece di insorgere contro la caduta del  segreto bancario,  che  poi sia svizzero  o meno non importa, la stampa di destra si accoda minimizzando o ironizzando sulla sinistra al caviale… Le solite stupidaggini del pro o contro…   
Una destra che si rispetti deve tutelare la libertà dell’individuo, inclusa quella economica,  che è importantissima. Perché la dipendenza materiale, da qualsiasi potere, anche quello che apparentemente tende la mano per aiutare, rischia sempre di  trasformare l’individuo, senza che se ne accorga, dolcemente, in schiavo. Quindi, la vigilanza, in particolare della stampa  cosiddetta  di destra, dovrebbe essere assoluta.  E invece in Italia la destra dice le stesse cose della sinistra...
In realtà, la privacy, di cui tanto si parla,  deve valere per ogni sfera dell’agire umano, a tutela la libertà individuale.   Si dirà,  del segreto bancario approfittano i ricchi...  E allora?  Sono rischi (se tali sono) che vanno accettati come prezzo da pagare per difendere  la  libertà di tutti.  Qualcuno potrà aggiungere: ma ci sono delle regole in Italia che vietano…  Sono leggi liberticide, che risalgono al fascismo, alla democrazia cristiana,  al tasse-consociativismo tra cattolici di sinistra, socialisti e comunisti: tutti  solidaristi, ma con i soldi degli altri.
Pertanto, una destra che si rispetti, dovrebbe sempre insorgere contro accordi  che limitino  la libertà dell’individuo di fare dei propri bene ciò che vuole.  Accordi, altra cosa importantissima, capaci di rafforzare  lo sviluppo  di un  occhiuto stato fiscale, italiano ed  europeo e, se non si porrà un freno,  un brutto dì, mondiale…  Quindi,  viva il segreto bancario!  E abbasso la destra, quella destra che non sa difendere l'individuo!


Carlo Gambescia    

lunedì 23 febbraio 2015

Un anno di Renzi
"Matteo il magnifico"...



Al Senato, il 24 febbraio 2014,  nel suo discorso di insediamento,  Renzi promise una svolta.  Un anno dopo, a parte il job act,  tutto è ancora in alto mare. Per ora,  nonostante i proclami (ieri ha nuovamente tuonato sulla riforma della scuola), l’ex Sindaco di  Firenze  rischia di essere ricordato solo  per i famigerati  80 euro:  misura che non ha prodotto alcun effetto sulla domanda. Un fallimento...  Anche se  - va riconosciuto -   gli annunci sono consustanziali alla politica,  di sinistra come di destra.  È la retorica democratica, bellezza.
Invece, dal punto di vista  politico la situazione è diversa.  Qui,  rispetto alle elezioni  2013, qualcosa è cambiato e d’importante: l'orografia  del potere nel Pd e in Parlamento.  Renzi, da consumato maestro  del divide et impera (a Firenze ne sanno qualcosa), ha provocato un terremoto: il Pdl è a pezzi, Sel pure,  i pentastellati hanno ceduto 36 ostaggi, pardon deputati,  Scelta civica ha subito la sorte del Costa Concordia,  la minoranza del Pd assomiglia sempre più a un pullman  di  stralunati  pensionati  costretti  a subire una promozione di pentole e piatti.
A voler utilizzare il metro dello storico attento ai processi politici di conquista, gestione e perdita del potere,  si potrebbe ritenere  che Renzi,  se le sue riforme andranno in porto (in particolare quella  istituzionale), stia ponendo le basi per costruirsi, alle prossime elezioni, una solida maggioranza parlamentare, composta di fedelissimi,  per  governare l’Italia a suo piacimento,  almeno per un una legislatura,  con un’opzione per la successiva:  il potere è un potente moltiplicatore di se stesso, soprattutto quando al comando  ci sono uomini ancora giovani, vigorosi, decisi ( se serve spregiudicati), bravi  accentratori e comunicatori.  Tutte doti che  non difettano a Renzi.  Riformerà la sinistra?  Terrà a bada i sindacati?  Riuscirà a non scontentare  Confindustria e banche?  Farà ripartire l'Italia? Si farà rispettare in Europa?  È presto per dirlo. Per ora, ripetiamo, "Matteo il  Magnifico", come talvolta si legge, sta prendendo le misure, fa esperienza, si rafforza, imponendo, come provano alcuni retroscenisti, uomini di sua fiducia  (o comunque manovrabili)  nelle istituzioni.  Siamo ancora nella fase  magmatica (un insieme di ambizioni, idee brillanti e apparentemente folli)  dell’ascesa del giovane Luigi XIV... L'état c'est moi... Altro che Lorenzo il Magnifico, quello Del doman non c'è certezza...
Insomma,  è presto per dare giudizi definitivi. Crocianamente, la storia è un cosa, la cronaca un'altra. E la parola storia  non è  fuori posto, perché per un verso è un invito a guardare le cose dall'alto, con  obiettività, per l'altro, si parla  di un (appena) quarantenne, molto ambizioso che potrebbe arrivare lontano. Perché finire intrappolati - giorni addietro è capitato anche a noi - nel  pro  o contro del discorso pubblico, fazioso e contingente? Perché finire prigionieri di un discorso politico occasionalista, per dirla con Schmitt?   Certo, se la si mette sull'empatico...  Renzi, a  un uomo di destra può risultare simpatico solo quando prende a calci nelle gengive i sindacati.   E a sinistra?  Qui  i giudizi si dividono: per gli avversari Renzi  è l'ennesimo furbo pulcinella ingarofanato, per i seguaci, un serio riformatore assediato da nemici provenienti dal paleolitico socialcomunista. Tuttavia, se ci limitiamo ai duri fatti, in un anno il governo ha prodotto poco.  E gli elettori?  Finora, nonostante la mancata incoronazione politica, lo hanno premiato alle europee e alle amministrative. Popolo bue? Dipende. Da come finirà.
In realtà,  "Matteo il Magnifico", furbo lo è senz’altro, quanto ai nemici,  crediamo che nell’Italia delle procure l’unico  vero ostacolo  alla sua  ascesa  sia rappresentato, nell'immediato, dai giudici.  Di conseguenza,  gli  atteggiamenti che  Renzi assumerà verso la riforma della magistratura, più volte annunciata, e verso la scelta di collaboratori, come egli ama sottolineare, al di sopra di qualsiasi sospetto morale, potrebbero trasformarsi in punti di forza o di debolezza.  Giudiziari.  

  Carlo Gambescia                                

sabato 21 febbraio 2015

Un articolo di Alberto Bagnai
Problemi di metodo



Di Alberto Bagnai ci siamo già occupati (*),  evidenziando i limiti di un approccio, per dirla con i professori di una  volta,  precipuamente economico.  Allora, qualcuno penserà,  perché accanirsi, visto che Bagnai è un economista, e in quanto tale…   Giusto, però quel che stupisce  è che il Nostro si lasci tentare,  ormai sempre più spesso,  da  analisi storiche e sociologiche alla Toynbee sul destino del capitalismo. Il che comprova, dispiace dirlo, un uso improprio della scienza economica…  E di questo desideriamo parlare. Perciò, a proposito di un suo recente articolo (**),   avanzeremo solo alcune  osservazioni di metodo (e  non di merito).
Un passo indietro: compito dell’economista, come scienziato,  è  quello di risparmiarsi  voli pindarici (cosa che invece  si rimprovera  a storici e sociologi),  dal momento che più i tempi previsionali si allungano, più si rischia di entrare nell’ambito della meteorologia economica.  Sicché,  punto uno, mai  violare  la  regola  del ceteris paribus  ( date certe condizioni e non altre…) ; punto due, mai commettere l'errore  pars pro toto, usando dati statistici limitati, imprecisi e non confrontabili per trarre conclusioni generali; punto tre,  mai confondere  piano cognitivo interno (le cose come sono per l’osservato) e piano cognitivo esterno (le cose come sono per l’osservatore), ignorando il  necessario fundamentum divisionis  di qualsiasi  corretta analisi conoscitiva.    
Ora, nell'articolo citato:  la parità di condizioni cognitive non è osservata, perché si confrontano due “tipi” differenti di capitalismo, produttivista e finanziario (punto uno);  i dati  statistici usati, per costruire gli effetti di ricaduta delle due tipologie, riguardano, rispetto all’intera storia del capitalismo, un ridotto arco  temporale, poco per giungere a conclusioni generali (punto due); non si evade dal  piano cognitivo interno, perché  l’analisi sposa una  “derivazione”  welfarista del capitalismo,  tesa a  razionalizzare, ad usum delphini,  il  produttivismo rispetto alla finanziarizzazione  (punto tre).
Concludendo, troviamo lecito  che uno scienziato come Bagnai  debba avere le sue opinioni sul destino del capitalismo,  quel che contestiamo è il tentativo di presentarle come scientifiche.

Carlo Gambescia

  

venerdì 20 febbraio 2015

Europa League: Roma-Feyenoord, guerriglia e scontri a piazza di Spagna
Povera Roma!



L’immagine della Barcaccia deturpata ha fatto il giro del mondo. I romani chi devono ringraziare? I tifosi olandesi del Feyenoord,  potenzialmente capaci, visto quel che hanno combinato,  di mettere in pratica le minacce dell’Isis? Le autorità di polizia, come sempre, prese alla sprovvista?  Il sindaco Marino, capace solo di annunci e di praticare la poco nobile arte dello scaribarile?
Roma ormai  è  una città irriconoscibile: troppi politici, troppi affaristi, troppi vip, troppi turisti… Cara, sporca e indifferente.  I “RomanideRoma”, ormai quattro gatti, soffrono in silenzio, tutti gli altri, i “Burini”  guardano altrove e vivono alla giornata: usano Roma.   
A proposito di gatti, sono spariti anche quelli.  
Povera Roma!  Che malinconia.


Carlo Gambescia     

giovedì 19 febbraio 2015

Le lacrime di coccodrillo di Veneziani
Finis destra 

"Festeggiamenti"  in onore  di Gianni Alemanno eletto Sindaco di Roma (2008).

Quando Veneziani  scrive, piangendosi addosso,  dello sciagurato destino non solo  culturale    della "destra"  post-missina commette tre  errori. 
Il primo, di continuare a omologare  destra e fascismo, confondendo un pensiero  illiberale e antidemocratico, con il pensiero conservatore, liberale e democratico;  semplificando: di confondere Giolitti  con  Mussolini,  Pareto con Gentile,  Mosca con Costamagna.
Il secondo,  di sopravvalutare l’effetto di ricaduta  delle idee politiche,  e in particolare  quelle  della cosiddetta cultura della tentazione fascista (Kunnas).  In altri termini,  di ritenere possibile di modellare la società secondo precisi  schemi ideologici. Si tratta dell’errore costruttivista (Hayek, Boudon, Ricossa). 
Il terzo,  rappresentato dalla somma degli errori precedenti,  di  dare per certo, e non importa se implicitamente o meno, che il fascismo possa tuttora insegnare qualcosa e che questo qualcosa, se lo si volesse, potrebbe essere  implementato.
Ora, se si scompone il fascismo nelle sue due principali componenti ideologiche, si scopre che  quel che ci può essere, non diciamo di buono,  ma comunque  di  “riutilizzabile”  all’interno della società liberal-democratica,  rinvia ad altre tradizioni politiche: per i principi sociali ed economici  alla socialdemocrazia (Sternhell; sottratto, naturalmente, l’asfissiante stato corporativo…); per quelli di autorità e legalità  allo stato di diritto liberale (Fassò; al netto, ovviamente, dell'involuzione autoritaria e poi totalitaria, post-1925 e 1936). Per contro, quel che c’è  di assolutamente  specifico nel fascismo, resta francamente improponibile: il disprezzo per la libertà politica ed economica, la statolatria,  il bellicismo, il razzismo (Emilio Gentile).
Esistono poi  alcuni fattori,  come dire,   di sensibilità, ambientali, ( anticapitalismo, anticomunismo, antiparlamentarismo, antisemitismo, antiamericanismo,  antimodernismo ),  che  hanno rappresentato la serra calda  in cui si è sviluppato il fascismo (Kunnas, De Felice, Gentile). Fattori che tuttavia hanno in qualche misura distinto e continuano a  distinguere  quella temperie reazionaria, in chiave epocale, contigua,  almeno a far tempo dalla Rivoluzione Francese,  al pensiero conservatore come a quello progressista (Voegelin, Del Noce).  Contiguità che  rinvia, tuttora,  piuttosto che al concetto di  fusione, a quello di una confusione inglobante i reazionari di destra e di sinistra,  irriducibili nemici  della modernità capitalista e della società aperta (Popper, Pellicani, Boudon).
Ora,  è evidente,  che, a prescindere dalla scarsa qualità politica e culturale  dei suoi membri,  la destra  neo-fascista (e post-fascista)  non avrebbe comunque potuto portare alcun contributo positivo all’ opera  di  ricomposizione infrasistemica  delle diverse destre italiane, abbozzata da Berlusconi: né sul piano dei resipiscenti contenuti programmatici di stampo socialdemocratico,  né su quello di una sensibilità culturale,  reazionaria e ostile alla società aperta. Il che spiega, piaccia o meno a Veneziani, che  ne  è il simbolo intellettualmente più ridicolo,  il definitivo e giusto sprofondamento nell’insignificanza  di un mondo, già a suo tempo popolato di sopravvissuti  della politica e della cultura.  In poche parole,  un mondo ripiegato su se stesso e perfettamente inutile.

Carlo Gambescia

mercoledì 18 febbraio 2015

Il libro della settimana:  John Médaille, Distributismo, Edizioni Lindau, Torino 2013,  pp, 352,  euro 27,00 (recensione a cura di Giuliano Borghi).

http://www.lindau.it/schedaLibro.asp?idLibro=1471


Ho ritrovato incidentalmente, mentre leggevo Sottomissione di Michel Houellebecq, una conoscenza perduta:  Distributismo. Si tratta di quella teoria filosofica ed economica, alternativa al capitalismo e al socialismo, sapidamente definita da G.B. Shaw ChesterBelloc pensiero, messa a punto da H. Belloc nel 1912 nel suo Stato servile e nel 1925 da G.K. Chesterton nel suo Il profilo della ragionevolezza (*), dove appare evidente la lezione bene appresa dalla Rerum Novarum di Leone III
Ad esso è dedicato lo studio di John Médaille (**) , autorevole docente di Teologia ed Economia presso l’università di Dallas, Distributismo, disponibile in Italia dal 2013 per le edizioni Lindau,Torino,   nel quale con meritevole chiarezza l’autore riflette criticamente, lungo una prospettiva interdisciplinare, sugli attuali sistemi economici e mette a fuoco uno sguardo diverso sulla teoria economica finora dominante.
Mèdaille sa bene che al momento attuale manca una elaborazione della teoria economica del distributismo, capace di fissare una pratica economica alternativa, ma si impegna brillantemente a tracciare la strada, nel capitolo18, che il distributismo suggerisce. Scrive, infatti: da qualche parte il Saggio ha affermato”la filosofia è facile, è l’impianto idraulico che è difficile. Il saggio ha ragione: dobbiamo diffidare dei sistemi che esistono solo nella mente, ma che non si sperimentano mai sul campo. E’ solo nel mondo reale che possono esse testati e solo sulla base di questi risultati dovremo prendere una posizione... quindi solo la pratica rappresenta l’unico criterio di giudizio dei sistemi sociali.
In coerenza con questo, nel suo libro, Médaille mette in luce, in un complesso di analisi critiche dei problemi fondamentali che intristiscono l’attuale situazione politica, economica e culturale, quattro principi che sono sicuramente suscettibili di una pratica, purché lo si voglia.
 -  Capitale e lavoro devono essere riuniti, determinando le condizioni che consentano a chi lavora di farsi padrone dei mezzi di produzione. Tale riunione può propiziare una più alta qualità del lavoro, una partecipazione più sentita e più efficace all' impresa lavorativa, una distribuzione più equa delle risorse e delle ricchezze, così da mettere in un più stabile equilibrio il gioco della domanda e della offerta. La pietra angolare del distributismo è che un sempre più grande numero di piccole imprese di proprietà privata giovi alla società, per quello che consente una maggiore libertà economica, e quindi politica, per il cittadino. Non è più accettabile che il momento della produzione della ricchezza sia separato da quello della sua distribuzione. In altre parole, efficienza e giustizia distributiva devono procedere assieme, scrive Médaille con decisione nel cap.6, facendo rievocare nel lettore  la suggestiva metafora dei due cavalli tratteggiata da Platone nel Fedro.
- Ri-formazione del sistema bancario, sovranità monetaria a titolarità esclusiva dei cittadini, rigetto dell’usura, rifiuto dei monopoli, della spesa anticoncorrenziale e delle transazioni nelle quali solo una parte è tutelata.
 - Potere decisionale delle singole categorie del lavoro in materia della tassazione, del sistema previdenziale e pensionistico e della formazione. Partecipazione diretta delle persone alle decisioni pubbliche vitali per la loro esistenza.
 - Tutela dell’autonomia politica ed economica delle famiglie mediante l’istituzione del reddito di cittadinanza.
Quello che tiene tutto assieme è il principio di sussidiarietà, sottolinea Médaille nel cap.13, per il quale l’organizzazione del livello più alto può giustificare la sua esistenza solo in funzione del sostegno necessario che essa dà a quella di livello più basso. E più avanti … un punto importante che deve essere chiarito circa la sussidiarietà è che non solo il controllo dovrebbe essere il più locale possibile,ma pure i finanziamenti. Complementare alla sussidiarietà va compresa la solidarietà. La sussidiarietà dà la dimensione verticale della vita, mentre la solidarietà fornisce la dimensione orizzontale, che ci collega con il bene comune e ci spinge ad agire per il bene di tutti.
Appare evidente, allora, la necessità di una filosofia pratica che combini sia la giustizia che la libertà... riformulando l’economia come  la scienza della economia politica…e la reintroduzione della questione della giustizia in questa scienza.
Tanto basta, queste note avendo la mera funzione di trailer alla visione e alla lettura di un libro che obbliga a pensare e nel quale ci sono ben più cose di quante ne contenga la rapsodica presentazione.
Efficienti almeno, si spera, a stimolare la consapevolezza che le questioni economiche coinvolgono tutti, o come attori, o come succubi delle azioni altrui.
E ad aprire, di conseguenza un più ampio dibattito.
Buona Lettura!

Giuliano Borghi


(**) Si veda l’interessante intervista al professor  Médaille:   http://lavocedilazzaro.blogspot.it/2012/09/uneconomia-diversa-e-possibile.html .


Giuliano Borghi, docente di filosofia politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su Evola, Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi.  Si occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico dal punto di vista dell'antropologia filosofica.




I caccia egiziani, per ora, ci “tolgono le castagne dal fuoco”
E intanto fanno il bagno a Cesenatico…



Oggi nelle aperture dei giornali c’è molto Tsipras, mentre la Libia è  relegata nei tagli centrali.  Chissà per quale ragione? Forse perché i  jihadisti sono stati respinti?  E come? A chiacchiere o  manu militari?  Sulla questione, non secondaria,  larga parte dei giornali invece glissa...  Evidentemente, il fatto che l’avanzata del nemico sia stata fermata dal bombardamento aereo egiziano (ossia militarmente) non è sintonia con i belati del presepe pacifista e trattativista (quelli del  “capire le ragioni profonde” eccetera).  L’Egitto - e qui  non importa la motivazione immediata (l’eccidio dei copti cristiani; la storia spesso è più forte degli uomini) - ha fatto quello che avremmo dovuto fare noi: Italia, Europa, Usa.  
Oggi,  nei giornali, al silenzio sull’importanza dell’operazione militare egiziana, si affianca il pre-primaverile risveglio  dei  piazzisti dei buoni sentimenti, quelli con la mano sul cuore e la boccuccia a culo di gallina...  I quali  fanno finta di non sapere che se la situazione non è subito precipitata,  il merito non è dei buoni propositi dei pacifisti o dei virtuosismi diplomatici della Comunità di Sant’Egidio,  ma delle bombe egiziane (*). Sicché,  in Libia c’è la  guerra e in Italia, per dirla con la vecchia canzonetta,  si fa il bagno nella  Cesenatico delle chiacchiere buoniste…
Quel che i pacifisti - ammesso e non concesso che siano in buona fede -    non capiscono  è che  la trattativa è un mezzo non un fine.  Un mezzo, proprio come quello militare.  E solo con l’uso  prudente  dei due strumenti, soprattutto nelle situazioni di crisi, è possibile limitare i danni (sempre in senso relativo).  Ora,  quando  un conflitto  è in corso, come nel caso,  la logica delle "trattative subito!" non può essere  efficace  per un semplice fatto:  un contendente  in  vantaggio (sul campo) difficilmente si fermerà per trattare. Di qui, l’importanza,  anche  per trattare  su un piede di maggior parità, da parte dell'altro contendente, di ripristinare l’equilibrio militare, anche attraverso l’uso della forza.  Quindi, di per sé, la trattativa,  non è mai risolutiva, o viene prima o viene  dopo una guerra,  mai durante, se non, ovviamente,  nelle situazioni di stallo,  come dire,  di equilibrio militare forzoso realizzato però sempre sul campo.  Figurarsi poi in presenza di contendenti fanatici che credono in modo assoluto nella vittoria finale.
La logica del “prima di tutto mettiamoci intorno a un tavolo per ragionare" non funziona sempre  nei parlamenti,  figurarsi sui campi di battaglia.  Naturalmente, per fare uso sapiente degli  strumenti militari e diplomatici servono chiari obiettivi politici, classi dirigenti all'altezza, popoli coesi e solide alleanze.  Sicché,  spesso,  il pacifismo trattativista è la foglia di fico per coprire la propria debolezza (Machiavelli docet).
Concludendo,  innanzitutto si sconfigge il nemico o comunque lo si mette in condizioni di non nuocere, dopo di che,  in relazione al suo  tasso di  pericolosità e/o utilità, si decide il suo destino.  Allora sì,  “al tavolo della pace”…


Carlo Gambescia  


(*) Su tali  questioni  e sulla Comunità di  Sant'Egidio - la cui attività  è  degna del massimo rispetto  -  si legga l'interessante contributo  uscito ieri sul "Foglio: "http://www.ilfoglio.it/articoli/v/125693/rubriche/libia/libia-perch-litalia-e-forse-rester-un-paese-inadatto-a-guidare-una-guerra-indagine.htm               

martedì 17 febbraio 2015

 L’Isis, la Libia e noi
Un popolo di vigliacchi



E' presto per dire come finirà. Tuttavia, anche questa volta, l'Italia sta tentando  di uscire dalla porta sul retro.  Perché?  In realtà, il Paese  non si è mai ripreso dal 1945. In qualche misura ancora paghiamo,  per contrappasso storico, i disastri del fascismo:   quell’overdose di bellicismo straccione che   spinse l' Italia nelle braccia di Hitler e si tradusse in rovine morali,  a quanto pare  irreparabili. Più  passano gli anni,  più consideriamo Francisco Franco, un grandissimo politico: salvò la Spagna dal  comunismo, prudentemente si tenne fuori dalla Seconda Guerra mondiale, pose le condizioni, piaccia o meno,  perché la Spagna, amatissima,  potesse tornare alla democrazia dopo la sua morte. E ciò accadde grazie anche alla magnifica  opera politica di Adolfo Suárez (già falangista).  Oggi la “transizione” spagnola  viene studiata come “caso (politico) di successo”.
E noi? Abbiamo messo  fuori legge la guerra, sfidando il senso del ridicolo. Pur di sopravvivere ci siamo piegati a qualsiasi forma di compromesso,  annegando il  nostro (provvisorio) oblio della guerra (complice la demolizione cattolica e comunista di qualsiasi idea di patria)  nei fumi  alcolici  di un irenismo culturale  vissuto alla giornata, nel quale, in fondo,  cinicamente,  non abbiamo mai creduto: tutti,  non solo i politici.  Sicché, giorno dopo giorno,  la nostra società  ha perduto quella  forza morale, coesiva, che, tutto sommato, ci fece uscire vittoriosi dalla Prima Guerra Mondiale. Ovviamente,  guai a dirlo…
E ora? Siamo, prima che politicamente e militarmente,  culturalmente incapaci di difenderci. Un popolo di vigliacchi. Questa è la pura e semplice verità.    

Carlo Gambescia          

P.S.
Per dirla, secondo la moda del cultural studies: se la cultura è sempre una costruzione sociale e se, di conseguenza, esiste una cultura, "inventata" per il genere, ne  deve esistere  una  anche per il "genere" italiano: diciamo perciò che la nostra è una neocultura infiocchettata di idee pacifiste... Come dire, una vigliaccheria in carta regalo...  

sabato 14 febbraio 2015

Il comunista di nicchia




Secondo Guareschi,  ogni  comunista aveva tre narici, due come tutti gli altri uomini, la terza, per far scivolare via il cervello e così  far posto,  quando occorreva,  alle rigide, e non importa se contrastanti,  direttive del Komintern…
Oggi i  comunisti, di narici ne hanno solo due, la terza, moscovita,  si è dissolta con l’Unione Sovietica.  Naturalmente,  hanno perso il pelo  ma non il vizio,  perché, anche a testa in giù (come lo scultoreo Lenin della foto) e con due narici, si possono fare miracoli… Diciamo che sono tornati alle origini: ci sono tanti cervelli, tanti comunisti. C’è il comunista, giovane e bello,  da salotto televisivo; c’è il comunista operaista, in un mondo in cui gli operai votano  a destra; c’è il comunista  che odia le femministe, forse perché innanzitutto odia la parte di femminile di  se stesso, eccetera…  Quel che però è rimasto  di comune è la disonestà intellettuale che nasce dall’arroganza di possedere risposte assolute, anzi la risposta assoluta. Anche se poi,  quando si chiede loro:  ma se il sole del socialismo, frutto di leggi storiche,  sorgerà inevitabilmente, a cosa   serve fondare un movimento politico?  Basta sedersi e aspettare, no?  Non rispondono, glissano. E, ovviamente, continuano a sputare, nel piatto dove mangiano… Perché, si sa il capitalismo e i capitalisti, hanno sempre torto.   
Li definiremmo  intellettuali comunisti  di nicchia:  ben incistati  perché,  individualmente, il pane non manca e quindi si ha  tempo  per pensare (si fa per dire).   Dannosi?  No.  In fondo occupano un microsegmento del mercato delle idee,  per pochi consumatori,  altrettanto  frustrati e bisognosi di "servizi" molto particolari.   E dove  l’unica concorrenza che si  deve  affrontare  è quella dei fratelli-coltelli fascisti e nazisti, altro esempio di nicchia…  Poca roba…   Del resto, per utilizzare un esempio di mercato di nicchia,  a chi può dar fastidio  un’impresa che si occupi  di "come  e dove pescare nel basso Trentino"? Quanti concorrenti potrà  mai  avere?   Anche se, a onor del vero,  nei regimi comunisti i mercati di nicchia erano e sono severamente vietati…  Invece,  nel cattivo capitalismo  possono tranquillamente nascere e svilupparsi.   Ma  va bene così...
Carlo Gambescia           


giovedì 12 febbraio 2015

Il libro della settimana: George Macaulay Trevelyan, Scene della guerra d’Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014, pp. 178,  Euro 24,00 ( recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange).  


http://storiaeletteratura.it/scene-della-guerra-ditalia/


La mancanza di consapevolezza storica e la critica ad un’Italietta considerata di “classe”, fanno sì che oggigiorno non sia neanche sospettato che l’esito favorevole all’Intesa della I guerra mondiale fosse ritenuto, da tanti contemporanei, determinato dall’intervento italiano.
A ciò ha contribuito anche la propaganda e la storiografia francese e inglese (nonché americana) portata a ritenere decisivo il fronte occidentale e l’intervento            U.S.A. (il cui effetto fu sul piano politico importante, ma su quello militare di scarso rilievo). Diversamente pensavano Pareto, buona parte del Quartier generale tedesco e altri: tra questi Trevelyan, che durante la guerra comandò un reparto inglese di autoambulanze operante sull’Isonzo.
Scrive Trevelyan che già la proclamazione della neutralità italiana nel 1914 “salvò la Francia sulla Marna, permettendole di sguarnire la frontiera alpina”.
L’intervento a fianco dell’Intesa secondo lo storico inglese fu la logica conclusione del Risorgimento: gli idealisti (cioè gli interventisti) “videro nella guerra contro le Potenze Centrali l’unica via per salvare l’indipendenza, le tradizioni, l’anima della Patria”. Essi erano “il partito dell’idealismo, del governo democratico e libero, e dell’unità nazionale – tre principi che in Italia sono legati l’uno all’altro, perché erano stati i tre principi del Risorgimento che aveva creato lo Stato”.
Nelle giornate di maggio la decisione d’intervenire fu presa per le manifestazioni popolari “Il popolo d’Italia, quando si desta, è assai più formidabile del Parlamento. In tempi ordinari, il Parlamento amministra il paese; ma i suoi atti non suscitano quell’interesse costante e appassionato che gli affari parlamentari destano in Inghilterra. L’Italia non è una grande nazione parlamentare, ma una grande nazione democratica”. Quanto a Caporetto scrive Trevelyan “Il cataclisma scoppiò come un fulmine a ciel sereno. Rovinò quasi l’Italia e per poco non compromise la causa degli Alleati, ma finì per dare alla prima rinnovati propositi e una nuova disciplina nazionale, ai secondi una più stretta unità”; e addebita la disfatta di Caporetto (in un certo modo, come Cadorna) agli “elementi inesperti e non lodevoli mandati in quell’autunno, per trascuratezza, a Caporetto… È noto che questi erano composti, in buona parte, da parecchie migliaia di operai dei proiettifici, che avevano preso parte alla sommossa di Torino, di poco precedente. Radunare questi uomini a Caporetto, per punizione, non fu certo un’idea molto felice”. Tuttavia la durezza della guerra era tale che “non il fatto che la ritirata avvenne richiede per me una spiegazione, quanto il fatto che non avvenne prima, e che l’esercito e il popolo d’Italia si ripresero e ricostruirono il proprio «morale» imponendo a se stessi una disciplina nuova e migliore”.
A ciò contribuì la nuova direzione politica (Vittorio Emanuele Orlando) e militare (Diaz): un grande successo fu la battaglia del Solstizio in cui fu respinta l’ultima offensiva austriaca. E che fu il prologo di Vittorio Veneto.
Al di là di come oggigiorno possono valutarsi quegli avvenimenti e le conseguenze che ne sono derivate (l’inizio della decadenza dell’Europa, la disastrosa pace di Versailles, il “secolo breve”) queste pagine di Trevelyan servono a ricostruire una verità dimenticata, anche per l’orgoglio francese ed inglese: che il fronte italiano non fu teatro di una guerra secondaria, che non fu una guerra “da poco” e, soprattutto l’intervento italiano fu decisivo per la vittoria degli alleati.


Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/  ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009), Funzionarismo (2014).

mercoledì 11 febbraio 2015

Corte dei conti: l’intervento del Presidente Squitieri
Esondazione istituzionale, 
vizietto italiano



Siamo sempre più convinti che il principale vizietto italiano sia costituito dall’esondazione istituzionale, nel senso di straripare, andare oltre i propri argini costituzionali: i presidenti della repubblica che si tramutano in dirompenti  leader politici,  i magistrati in accesi moralisti, gli onorevoli  in furbi procacciatori di affari. Insomma, nessuno fa quello che Costituzione imporrebbe: rappresentare l’unità nazionale, amministrare la giustizia, fare buone leggi.
Altro esempio,  come dire,  fresco di giornata:  la Corte dei conti.   Ieri il dottor Raffaele Squitieri, suo Presidente,  oltre alle consuete amenità virtuiste da inaugurazione dell’anno giudiziario,  ha lanciato una specie di Opa  della Corte dei Conti  sul  “ The Wall Street Journal”. Detto altrimenti:  ha esondato, reinventandosi come analista economico, a dire il vero,  mediocre.
Leggiamo la cronaca Ansa:         

Squitieri è intervenuto anche sulla situazione economica, affermando che il Paese sta attraversando un "quadro di estrema fragilità e di perdurante sfiducia degli operatori". Tuttavia, ha aggiunto, "si sono venuti ad innestare negli ultimi tempi elementi di novità di grande rilievo". Squitieri ha citato in particolare "quattro fattori che operano in direzione di una consistente modifica dello scenario di riferimento": la caduta del prezzo del petrolio, il deprezzamento dell'euro, la maggiore flessibilità annunciata dalla Commissione europea sui conti pubblici e il quantitative easing della Bce. L'impatto sull'economia di questi nuovi elementi, ha sottolineato il presidente della Corte dei Conti, dovrebbe essere positivo. Anche se, ha precisato, "il quadro che si prospetta è assai composito e difficile da decifrare o da leggere in modo unidirezionale". Ad esempio, ha concluso Squitieri, per quanto riguarda il ribasso del petrolio, "anche se è più probabile che prevalgano effetti propulsivi sul Pil, non si può escludere che l'ulteriore spinta alla discesa dei prezzi possa invece accentuare il deterioramento delle aspettative e portare a nuovi rinvii delle decisioni di spesa e di investimento".


Ora, la Costituzione italiana  all’articolo 100, comma 2,  recita:

La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito.

Chiaro, no?  Che c’entra  il prezzo del petrolio con il controllo di legittimità?  E che dire delle banalità sullo “scenario di riferimento”? I “quattro fattori”… Gli “effetti propulsivi”…   La Corte dei conti  ha un mandato costituzionale specifico:  a quello deve attenersi. E non, per bocca del suo Presidente, prodursi  in  editoriali economici, per giunta di una banalità sconcertante…  
A proposito, il nuovo Capo dello Stato  Mattarella,  ieri presente,  che ne pensa?  


Carlo Gambescia