Liberilibri pubblica La politica come destino di Valitutti
Liberali con l’elmetto?
Ottima l’idea, dopo la
pubblicazione de La
Libertà della
scuola, (Liberilibri, Macerata 2009 *), di riproporre, benché a una certa
distanza, il Salvatore Valitutti attentissimo filosofo
liberale della politica. Tra l’altro, la scelta di
rieditare La politica
come destino (Liberilibri, Macerata 2018 **), preceduta, da un’ introduzione
di Teodoro Klitsche de la
Grange , giunge
puntualissima in un momento in cui il liberalismo italiano sembra non sapersi
decidere tra il populismo e l’antipopulismo, e proprio dinanzi a un governo giallo-verde
che in realtà è tutto, eccetto che liberale.
Non ci si accusi però di inquinare la
nostra recensione, scivolando nella triviale attualità politica. I lettori sono avvisati: piaccia o meno, i nodi, che a nostro modesto avviso, Salvatore Valitutti scioglie, diremmo limpidamente, sono proprio quelli del romanticismo politico e
dell’occasionalismo, criticati da Carl Schmitt, il cui pensiero è al centro di
questo studio, ma purtroppo da lui praticati, come perpiscacemente mostra Valitutti. Schmitt, al riguardo, se ci si perdona la battuta, predicava bene e razzolava male.
In sintesi: il nodo attualissimo che Valitutti dipana è quello di un liberalismo, che, addirittura tra i liberali, si vorrebbe romanticamente vedere per questa primavera-estate, con indosso l'ornamento di un elmetto. Populista o chissà anche di altro tipo... Corsi e ricorsi, roba da liceo. Però...
In sintesi: il nodo attualissimo che Valitutti dipana è quello di un liberalismo, che, addirittura tra i liberali, si vorrebbe romanticamente vedere per questa primavera-estate, con indosso l'ornamento di un elmetto. Populista o chissà anche di altro tipo... Corsi e ricorsi, roba da liceo. Però...
Va ricordato che il saggio di Valitutti, in prima
battuta uscì per Bulzoni nel 1976, abbinato a un interessantissimo e tagliente studio di Karl Löwith sempre su Schmitt, uscito nel 1935. Operazione,
che forse Liberilibri, avrebbe potuto ripetere e completare. Ma non è
questo il vero punto. Löwith può anche attendere tempi, economicamente, migliori.
Grazie alla rigorosa e
chirurgica dissezione del pensiero schmttiano, che ruota intorno, come
ben si sa, al concetto di amico-nemico, Valitutti prova una cosa fondamentale: che
quest’ultima dicotomia, in sé, se non interpretata, oggi diremmo, come
regolarità o costante, quindi come categoria euristica della scienza
politica, rischia inevitabilmente di trasformarsi in una scatola vuota che, di volta in volta, si può
riempire con qualsiasi contenuto. Di qui, l’occasionalismo romantico, che scorge nel politico vincente di turno il protagonista della
lotta dicotomica.
Che cosa vogliamo dire? Se, come nel caso di Schmitt,
una grande scoperta (la dicotomia amico-nemico come caratterizzazione del
politico), manca di una adeguata accettazione del pluralismo sociale e di una
separazione tra morale e politica le cose rischiano sempre di mettersi male. E non solo sul piano scientifico, euristico, se si vuole.
Innanzitutto, come mostra Valitutti, con
grande finezza, l’antropologia negativa ( o pessimistica che è alla
base della dicotomia amico-nemico) è di tipo morale. Sicché, Schimtt reintroduce, se ci si passa la caduta di stile, dalla finestra ciò
che precedentemente scaccia dalla porta: c’è un nemico perché l’uomo è
cattivo. Ma "cattivo" resta categoria "morale", non "politica". E
allora dov’è l’autonomia del politico? Insomma, la grande intuizione
schmittiana - ecco la superba lezione di Valitutti
- pur essendo feconda, resta tale, probabilmente insoluta, perché ignora sia l’autonomia
del politico, sia, come ora vedremo, l’importanza del pluralismo sociale.
Salvatore Valitutti |
Quest’ultimo punto, rappresenta un altro
nodo cruciale del pensiero schmittiano, che mal si concilia con il pensiero
liberale, nonché con la scienza politica. Per Schmitt il politico, implica
l’unità interna, per poter meglio agire verso il nemico esterno. Il che è
vero sul piano militare (quando tuona il cannone, ci si stringe, eccetera,
eccetera), ma non su quello della vita civile (dove le divisioni sono feconde,
eccetera, eccetera). E, come mostra Valitutti, probabilmente
riprendendo alcune osservazioni di Löwith, non si può ridurre
l’agire politico all’agire militare: c’è la milizia, quando occorre (quindi l'eccezione), c’è il
civile, borghese o meno, che costituisce la norma (dunque la regola). Ora,
fare della milizia, la regola o comunque un dispositivo (quello del
conflitto amico-nemico), in grado di coonestare un approccio bellico alla vita
civile è completamente fuori luogo. Di più: portò Schmitt, per primo, nelle braccia di Hitler, o comunque - certo, indirettamente, per contiguità, diciamo atmosferica, antiliberale - ne favorì l’ascesa.
Ed è questo, crediamo, sia l’errore commesso anche da Teodoro Klitsche de la
Grange , che nella sua
dotta introduzione, evoca, distinguendoli, un liberalismo “esangue” che rifiuta Schmitt,
e un “liberalismo “forte” che invece ne accetta i principi dicotomici. Ora, una cosa è accettare una teoria del politico, che ha tra le sue regolarità e
costanti ( Freund e Miglio) anche quella del conflitto
amico-nemico, un’altra quella di ridurre la politica a pura e semplice milizia innervata come un tumore sulla onnipotente dialettica amico-nemico. Dialettica - ecco il vero punto - “nemica” a sua volta di
quel pluralismo, che stando, non proprio all'ultimo arrivato, Tocqueville, rappresenta il sale stesso della democrazia
liberale. Una lezione, poi ribadita anche da Max Weber (tra l'altro, sul punto, citatissimo da Valitutti).
A tale proposito, non è fuori luogo segnalare un altro ottimo volume di Valitutti, I
partiti politici e la libertà (Armando
Armando Editore, Roma 1966) - per inciso, crediamo sia, davvero, il
suo magnum opus, che meriterebbe di tornare in libreria. Perché ricordarlo? In quel libro, Valitutti, fornisce, tra le altre tantissime intuizioni, una preziosa separazione concettuale tra partito
burocratico e partito militarizzato. Un'indicazione che sembra delineare la sua critica, in
nome del pluralismo liberale, alla dicotomia schmittiana. Nel partito burocratico c’è una distinzione tra organismi burocratici (come puri congegni) e
associati, invece nel partito militarizzato - ecco l’ infeconda unità schmittiana - una totalitaria
identità tra disciplina militare di partito e associati.
In fondo, la “politica come destino”, paventata da Valitutti, è ben rappresentata proprio da questo rapporto
identitario, assoluto, quindi oggettivamente l' opposto, ripetiamo, di qualsiasi pluralismo
liberale. Si torna, insomma, al nodo del romanticismo politico e dell'occasionalismo. Ai vagheggiamenti di un qualche ordine salvifico che unisca contro un capro espiatorio. Con l'elmetto, ovviamente.
Su queste basi, Schmitt, come detto, abbracciò
Hitler, Klitsche de la
Grange -
l’amico non ce ne voglia, la nostra stima è immutata - rischia di abbracciare Salvini e Di Maio, quali improbabili portatori,
soprattutto il primo, di un “liberalismo forte”. Che ci dovrebbe eroicamente difendere dalle insidie di una potenza aeronavale come Malta.
Insomma, da Cavour a Salvini,
passando per Schmitt. Che dire?Evoluzione al contrario: dall'uomo alla scimmia. Purtroppo, al peggio non c’è mai fine. Povero
liberalismo italiano…
Carlo Gambescia
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