sabato 31 maggio 2025

Il Sud e il paradosso della modernizzazione criminale

 


Il problema del Sud nel mondo è questione legata allo sviluppo della modernità. Con lo sviluppo della moderna economia industriale c’è chi è rimasto indietro, per scelta, necessità, caso.

Si pensi ai “sudisti” negli Stati Uniti legati a un’ arcaica economica schiavistica da latifondo romano. Ma si pensi anche a intere aree, come l’Europa mediterranea rispetto al Nord Europa. La stessa Russia zarista aveva il suo Sud più a Nord, Nord Est, nella Siberia, sconfinante nella Russia asiatica.

Diciamo pure che non è esclusivamente questione di posizione geografica (Nord, Sud) ma di posizione rispetto allo sviluppo della modernità economica (capitalismo e scambi globali), culturale (relativismo e tolleranza), politica (stato di diritto ed istituzioni parlamentari).

Insomma di apertura o chiusura verso le forme di società moderna appena ricordate. Ad esempio la chiusissima Corea del Nord non si può definire più moderna della Corea del Sud, che pur con alcuni limiti politici, è un buon esempio di società aperta rispetto alla società totalitaria rappresentata dalla Corea del Nord.

Pertanto quando si scrive del Sud possiamo rilevare due atteggiamenti: o un invito a modernizzarsi o un invito, in senso contrario, a demodernizzarsi. Ovviamente esistono anche posizioni intermedie, che per semplificare, ignoriamo.

Per venire all’Italia qualche anno fa ebbero una certa fortuna i libri di Franco Cassano sulla necessità per il Sud di riscoprire certa lentezza antropologico-culturale che ne innervava la storia. Cassano non era un controrivoluzionario eppure le sue idee racchiudono tuttora critiche non proprio tenere verso la modernità. Certo, nulla a che vedere ovviamente con i toni elegiaci di un Marcello Veneziani (da ultimo, si veda il caramelloso C’era una volta il Sud).

Comunque sia, Cassano resta lontano anni luce dai difensori della modernizzazione del Sud. Sul piano storico novecentesco, pensiamo a Nitti (economica e fiscale), Salvemini ( in primis, culturale), Gramsci (socialista e rivoluzionaria).

Paradossalmente, come provano, su versanti culturalmente opposti, anche stilisticamente parlando, i libri di Sciascia e di Saviano, le uniche reti sociali, preesistenti alla modernizzazione, che hanno saputo andare al passo con i tempi sono le organizzazioni mafiose e camorristiche (d'ora in avanti  useremo solo il termine mafia, per ragioni brevità). 

Per capire, al volo, quindi al di là della pagina scritta, come queste reti abbiano accettato e vinto la sfida della modernità, basta la visione – nell’ordine – di film come “In nome della legge” di Germi (1949), “Le mani sulla città” di Rosi (1963), “Gomorra” di Garrone (2008), “Suburra” di Sollima (2015).

Nel film di Germi è la mafia stessa a consegnare un colpevole alla Giustizia, in quello di Sollima sono alcuni avidi uomini di legge a fiancheggiarla.

Va detto che la letteratura sulla mafia si è trasformata in una specie di “romanzo criminale”, anche a sfondo ideologico, soprattutto nell’immaginario di sinistra, che ha fatto fare soldi a palate a editori e produttori. Però questo fatto qui non interessa. Ci preme solo evidenziare la capacità di adattamento alla modernità, come fenomeno economico (capitalismo e scambi globali), mostrata da un organismo in apparenza arcaico (la mafia).

Ovviamente per la mafia si può parlare di una integrazione economica nella modernità, che esclude l’integrazione politica (stato di diritto) e l’integrazione culturale (relativismo e tolleranza). Mentre il resto della società meridionale, a parte una minoranza illuminata, sociale e intellettuale, si è integrata politicamente e culturalmente ma senza convinzione, in modo passivo.

In sintesi: da una parte c’è una mafia attivamente integrata sul piano economico, dall’altra una società che non ha mai completato il processo di adattamento alla modernità economica, politica e culturale che vivacchia in termini di integrazione passiva.

Perché un’ associazione criminale è stata più abile della società non criminale nell’intercettare la modernità?

Probabilmente perché la sua élite dirigente si è mostrata superiore all’élite dirigente della società civile. Il che spiega, storicamente parlando, il divario mai colmato tra Nord e Sud. Una questione di qualità della rispettive classi dirigenti.

Del resto la selezione è inevitabile, perché la società è sempre governata da pochi. Siamo davanti a una regolarità metapolitica. Diciamo però che al Sud la selezione delle élite dirigenti ha premiato i “cattivi”. Il che spiega per ricaduta anche le connivenze tra mafia e politica e la guerra allo stato. In un’alleanza è sempre l’alleato più forte a indicare il nemico. E quale nemico poteva indicare la mafia alla politica? Lo stato.

In definitiva, il problema del Sud non è solo questione di sottosviluppo, né si riduce a una cartolina pittoresca da riscoprire con nostalgia. È, piuttosto, il risultato di un processo di modernizzazione zoppo, dove i meccanismi naturali di selezione delle élite, ai quali, si badi, non si comanda, hanno premiato l’adattabilità del crimine all’economia di mercato, mentre hanno penalizzato la società civile, che a dire il vero, neppure si è posta il problema di costruire classi dirigenti autenticamente moderne. Del resto non si tratta di cosa facile, perché una società tende a premiare il successo, spesso a spese dei valori morali: i più abili, senza tanti addentellati morali.

Non si tratta di cedere al determinismo geografico, culturale o sociologico. Si tratta, più semplicemente, di riconoscere una regolarità metapolitica: le società cambiano quando cambiano le loro élite. E le élite cambiano solo se intravedono, con lucidità, un possibile successo all’orizzonte. Il resto è letteratura.

Il Sud ne verrà fuori? Forse. A una condizione: che emergano élite capaci di rompere il patto tacito con l’illegalità e di parlare un linguaggio della modernità non subìta, ma costruita.

Il che, ripetiamo, non è facile perché questione di secoli, forse di generazioni. Ad esempio un grande patrimonio, non solo economico, si accumula e disperde almeno in quattro generazioni. Per capirsi: i fondatori, i figli dei fondatori, che apprendono dai padri, i nipoti, che non hanno respirato la stessa atmosfera del fondatore, i figli dei nipoti, che ignorano ogni cosa. E che perciò potrebbe prendere altre strade, addirittura opposte.

Perciò come ogni questione secolare, richiede pazienza. Ma soprattutto una corretta selezione sociale delle élite. Che però spesso è affidata al caso e come detto non risponde a imperativi morali categorici.

Un bel rebus. Metapolitico.

Carlo Gambescia

venerdì 30 maggio 2025

Il capotribù Trump e la US Court of International Trade

 


Ieri la Court of International Trade degli Stati Uniti ha bloccato temporaneamente le tariffe introdotte da Trump definendole illegali. La Court è intervenuta a seguito dei ricorsi presentati da imprese americane e governi statali contrari alla legittimità delle tariffe.

Si tratta di un organo giurisdizionale, sorto alla fine dell’Ottocento, ma rivitalizzato nel 1980, con apposita legge: si occupa di dogane e dazi, per porre, diciamo così, su un piede di parità imprese straniere, americane, governi. Celebre il caso della Nippon Steel Corporation (2003), una storica azienda giapponese, accusata dal Dipartimento del Commercio americano di vendere acciaio negli Stati Uniti a prezzi inferiori a quelli praticati nel proprio mercato interno, portato davanti alla Court. Alla fine i giapponesi ebbero riconosciute almeno in parte le loro ragioni (*).

In sintesi gli scopi principali della Court sono i seguenti: 1) Rafforzare l’imparzialità e la competenza tecnica nelle dispute commerciali internazionali; 2) Gestire l’aumento dei casi complessi legati a accordi multilaterali, dazi, dumping e commercio globale (**).

Ovviamente, come nel caso dei giapponesi, è possibile appellarsi alle sue decisioni, ricorrendo a un’apposita Corte di appello sempre in materia. Che ieri sera – colpo di scena – ha sospeso la sentenza accogliendo il ricorso di Trump. Ora, probabilmente, l’ultima parola spetterà alla Corte Suprema.

Siamo davanti a un piccolo gioiello di ciò che si può chiamare il diritto liberale dei mercati. Una specie di miracolo istituzionale che rinvia ai concetti, apparentemente opposti di equity e common law: di giustizia sostanziale, che prende atto della differenze caso per caso, e di decisioni giudiziarie valevoli per tutti, privati, istituzioni, governi. Un miracolo americano, capace di coniugare libertà di commercio, diritti individuali e bene comune. Magnifico.

Naturalmente, una formula del genere non può non risultare indigesta a chiunque condivida una visione pre-liberale o anti-liberale della politica. Il che spiega la reazione sdegnata di Trump, noto per il suo spirito diplomatico, che ha subito gridato al colpo di stato dei giudici. Tuttavia le parole più gravi sono state pronunciate dai suoi consiglieri. Si legga quanto segue.

‘Non spetta ai non eletti decidere come affrontare adeguatamente un’emergenza nazionale’. [Così] Kevin Hasset e Peter Navarro, due dei più importanti consiglieri del presidente, [che] hanno cercato di minimizzare la portata della decisione e assicurato che Trump ha varie opzioni a disposizione” (***).

Affermare – perché questa è la terribile sostanza della dottrina Hasset-Navarro – che l’ultima parola spetti sempre agli eletti dal popolo, quindi al potere politico, significa consegnare il potere a qualsiasi potere, anche il più tirannico, purché eletto dal popolo.

Il che implica, come accade nello stato totalitario, l’azzeramento del principio della separazione dei poteri, principio liberale per eccellenza. Dal momento che il potere giudiziario è ricondotto nello stretto alveo del potere esecutivo.

Pertanto qui non sono in gioco solo i dazi, ma qualcosa di molto più importante. La libertà di rivolgersi al giudice per ottenere giustizia.

Che poi i magistrati, in quando esseri umani, siano imperfetti, come del resto ogni altra istituzione umana, non significa che debba essere negata la libertà dei singoli di adire a tribunali indipendenti. Trump invece ragiona come un capo tribù, tutto è dentro la tribù, nulla è fuori della tribù. E i suoi consiglieri non sono da meno.

Sono meccanismi politici pre-liberali, che in ultima istanza rinviano a un arcaico principio che dalla tribù è stato trasposto allo stato. Cioè che lo stato è tutto, l’individuo nulla. Un assioma politico che di liberale non ha proprio nulla. Anzi, ne è l’esatto contrario. E di conseguenza viene sempre invocato dai nemici dello stato di diritto liberale. Come Trump.

Resta vero, come talvolta si nota, che per un attimo vi si scorge una scintilla di modernità. In particolare quando si fa appello alla  sovranità  dell’elettore. Ma solo per un attimo, perché una volta eletto sarà il capo a decidere tutto.

O se si preferisce il capotribù. Nel nostro caso Trump.

Carlo Gambescia

 (*) Qui tutti i particolari: https://caselaw.findlaw.com/court/us-federal-circuit/1293305.html .

(**) Qui: https://www.cit.uscourts.gov/ .

(***) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2025/05/29/battaglia-sui-dazi-di-trump-una-corte-annulla-lo-stop_ade7dca0-3c48-46a0-8446-7188e2bbbd3a.html .

giovedì 29 maggio 2025

Viva i ponti!

 


Prima il fatto.

Saranno ben 14,9 milioni gli italiani che si metteranno in viaggio per il Ponte del 2 giugno, la maggior parte dei quali (92,4%) collocherà in cima alla lista delle destinazioni preferite proprio il Belpaese. Secondo l’indagine realizzata da Tecne’ per la Federalberghi, la spesa media per ciascun viaggiatore in movimento per la Festa della Repubblica sarà di 470 euro, con un giro di affari di 7 miliardi di euro. Il picco delle partenze è previsto per il venerdì 30 maggio, con 8,7 milioni di italiani pronti a dare inizio alla vacanza programmata. Fatto salvo il 7,6% degli italiani che opterà per mete estere, coloro che resteranno in Italia prediligeranno il mare. Seguiranno le città d’arte, la montagna, i laghi e le località termali” (*).

Gli italiani sono circa 59 milioni quindi un italiano su quattro si fa il suo bel ponte. Da venerdì a martedì.

Ci si potrebbe banalmente interrogare su quali partiti votino i pontieri. Nel senso che sotto l'aspetto della coerenza politica  il significato vacanziero del ponte sarebbe più giustificato dall’immagine “rose e fiori” del Belpaese promossa dalla destra che governa. Invece lo sarebbe meno se i pontieri fossero di sinistra, quindi stregati dall’immagine “Italia alla canna del gas”. Ovviamente, se i ruoli si invertissero sarebbe la sinistra a magnificare e la destra a denigrare. Così va il mondo.

In realtà riteniamo che il “ponte” sia politicamente traversale, inclusivo dell’area del non voto, quindi al cuor vacanziero non si comanda.

Tra l’altro, da come si legge, il ponte fa anche bene all’economia, perché gli italiani spendono. E a spendere, e da anni, come vedremo,  è sempre il ceto medio. 

E qui l’analisi si fa interessante. Perché non si tratta di minoranze esclusive, ricche e felici: in Italia 457 mila individui con un patrimonio finanziario superiore al milione di dollari meno dell’1% della popolazione nazionale, tra questi, circa 2.300 persone che detengono patrimoni superiori ai 100 milioni di dollari ( Boston Consulting Group, 2024, e Rapporto Cida-Censis 2024).

Il ponte non è roba da ultraricchi. E allora di che si tratta? I 15 milioni di vacanzieri  rimandano al cuore vivo e pulsante del  ceto medio. Si noti che il 60 per cento degli italiani si definisce tale (Rapporto Cida-Censis, 2024).Il che, più concretamente, cioè al di là del dato soggettivo (come ci si autorappresenta),  rinvia a sua volta alle fasce che dichiarano tra i 20 mila e i 75 mila euro (il 40 per cento circa su 41 milioni di contribuenti): il ceto medio vero e proprio. E i  dati  60 e  40 per cento si prestano alla sovrapposizione, ovviamente non in modo perfetto, ma secondo modalità abbastanza vicine  alla "realtà" ceto  medio.

Qual è il succo del nostro ragionamento? Che il ceto medio, invece di spappolarsi, come annuncia da decenni la sinistra con la destra che segue a ruota, è vivo e vegeto. Non sarà composto di calvinisti  nati, dediti alla religione del lavoro,  però anche per sola ricaduta  sono persone che  muovono l'economia.

Un giudizio giustificato dal fatto che si tratta di un fenomeno costante, che escluso il periodo del Covid, vede a ogni ponte, di media su quattro giorni, muoversi, almeno negli ultimi venticinque anni, 14-15 milioni di persone (FederAlberghi, varie annate, e Cida-Censis 2024). Di qui la continuità di spesa.

Ovviamente la nostra analisi andrebbe approfondita. Per evitare, lo ammettiamo, certo impressionismo sociologico. E soprattutto per unificare e verificare le varie fonti statistiche. Il nostro resta comunque un articolo di “assaggio”. Con tutte le imperfezioni del caso.

Però crediamo che la linea di tendenza sia giusta. Ripetiamo: i ponti ci dicono che il ceto medio è coeso e vitale.

Perciò viva i ponti!

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.agi.it/economia/news/2025-05-28/ponte-2-giugno-italiani-in-viaggio-31595731/ .

mercoledì 28 maggio 2025

Goliarda Sapienza: la ribelle che non cercava l’egemonia

 


Viviamo tempi in cui ogni forma di dissidenza culturale viene immediatamente assorbita dal circuito istituzionale della ribellione codificata: festival, premi, case editrici, influencer con il master in postmarxismo applicato. Senza dimenticarsi dell’altro circuito: quello dell’ordine codificato, per il quale ribellarsi significa esclusivamente sputare veleno sulla sinistra e professare una specie di subdolo postfascismo, altrettanto applicato.

Paradossalmente, ribellarsi è d’obbligo, però a comando: purché lo si faccia dentro i binari tracciati dal vecchio e nuovo conformismo. Ecco perché la figura di Goliarda Sapienza rimane scomoda. Anzi, diremmo imbarazzante.

Scomoda non perché urlasse. Ma perché pensava in proprio, senza cercare alcun ruolo nella rappresentazione ufficiale della trasgressione. In ciò, paradossalmente, Sapienza è più libera oggi di quanto non lo siano certi tribuni del decostruzionismo da salotto. Non scriveva per cambiare il mondo, come imponeva l’egemonia gramsciana, ma per affermare una verità individuale, una libertà profonda, carnale e spirituale. In questo senso – e con le dovute proporzioni – si colloca, per usare un registro alto, nella linea di un Montaigne, di una Madame de Staël, o di certi moralisti francesi, capaci di sviscerare l’animo umano con chirurgica pietas.

Chi oggi la legge (finalmente) riscopre in lei un’idea di libertà interiore, affrancata sia dalla morale piccolo-borghese che dalle ideologie.

Figlia di socialisti, cresciuta nel fuoco di un’educazione libertaria, Goliarda porta in sé il germe del dissenso che non cerca l’applauso. Scrive L’arte della gioia – romanzo-mondo, romanzo-monade – come sfida intellettuale ed etica, non come programma politico.

E qui sta la differenza sostanziale. Perché Modesta, la protagonista, non è un’icona femminista prêt-à-porter. È piuttosto l’archetipo di una soggettività in lotta contro ogni forma di costrizione, incluse quelle travestite da liberazione. Si muove tra conventi, salotti aristocratici, manicomi e prigioni con una lucidità che ricorda certe eroine dostoevskiane e raindiane. Non cerca il riscatto sociale, ma la propria verità esistenziale, e in questo senso ontologica, fondante, come la Sonja di Delitto e castigo e la Kira di Noi vivi.

C’è del metodo nietzscheano nella “ follia” libertaria di Goliarda Sapienza: concretezza contro astrattezza.

Come Goliarda, Modesta, la protagonista, è individualismo vissuto, incarnato. È libertà senza slogan. È, nell’ordine e tutti insieme, Dostoevskij, Nietzsche e Ayn Rand. Talvolta di più, talaltra di meno. Ma il senso generale è profondamente libertario.

Rifiutò di “militare” culturalmente. Non era pasoliniana, non era femminista nel senso militante, eccetera, eccetera. Né tantomeno fascista o postfascista. Era sola, nel senso più tragico e alto. E il mondo editoriale dell’epoca, ovviamente, la ignorò. Solo dopo la morte, come capita ai non allineati, venne “riscoperta”, non senza quel sottile tentativo di addomesticamento postumo: farne addirittura una scrittrice queer, femminista, disobbediente ma secondo il manuale. A tale proposito, come amanti traditi, attaccati per tutta la vita al primo magnifico incontro (“Morte di un matematico napoletano”) sospendiamo il giudizio sul film di Martone che “ferzanozpetekinizza” la scrittrice. Per inciso,  a quando la sua “aldamerinizzazione”?

Ecco perché, nel contesto di una cultura che confonde la libertà con il capriccio e l’autenticità con la posa, Goliarda Sapienza ci appare oggi come un richiamo silenzioso ma potente. Alla responsabilità di vivere, prima ancora che di scrivere. Alla gioia – sì, proprio alla gioia – come arte tragica e sovversiva.

In fondo, come diceva Camus, “il vero scandalo è essere felici”. E Goliarda Sapienza, da vera anarchica dell’anima, lo fu, fino in fondo.

Carlo Gambescia

martedì 27 maggio 2025

Jafar Panahi e la libertà che non vogliamo più

 


Quando si dice il caso. Proprio qualche settimana fa abbiamo rivisto un film di Jafar Panahi, regista iraniano, incarcerato e perseguitato: “Taxi Teheran” (2015) (*). Ora apprendiamo della Palma d’Oro vinta con “Un semplice incidente”, ultima sua fatica. Perfetto. La verità, anche artistica, si vendica quasi sempre.

Un artista imbavagliato. Uomo timido e mite. Che dire? Il solito regime teocratico che punisce la creatività come se fosse blasfemia. L’occhio indagatore  del regista deve subire la sorte di quello di Polifemo.

Un regista però pluripremiato in Europa (e a ragione, perché bravo: un sopraffino impasto di Buñuel e De Sica). Qualche anno fa vinse l’Orso d’Oro a Berlino proprio con “Taxi Teheran”.

“Taxi Teheran” è un film geniale, girato di nascosto, nella capitale iraniana, dove Panahi tuttofare, anche in veste di attore, si mette alla guida di un taxi. E, con una telecamera interna, ci mostra l’Iran di oggi, attraverso clienti forse attori veri, forse no, che salgono e scendono dal suo taxi: un ladro fanatico della pena di morte, una maestrina da libro cuore che invece è contraria, un simpatico nanetto venditore di dvd pirata di film occidentali, due logorroiche donne molto superstiziose, una quasi vedova non proprio allegra, una fiera avvocatessa delle donne a suo rischio e pericolo, e così via.

Una specie di film in scatola(-taxi), che ci restituisce quel clima da banalità del male che segna l’Iran di oggi che insiste e resiste. Vi si sopravvive, e ovviamente male, ma si sopravvive sotto il cielo plumbeo di un regime retrogrado che vuole imporre la sua verità unica.

Coloro che si scagliano contro Israele, dovrebbero vedere questo film. E per una semplice ragione, i Netanyahu passano, gli Ajatollah no. Israele è una democrazia, non è un blocco unico reazionario. Che cosa sono 15 secoli (arrotondiamo) di bombardamento teologico contro due decenni, a rate tra l’altro (quelli di Netanyahu), di incursioni aeree e militari? Piaccia o meno, ma le bombe teologiche causano gli stessi danni delle bombe atomiche…

Ovviamente Panahi non è così diretto, e probabilmente se lo si interpellasse in argomento, spezzerebbe una lancia in favore della popolazione palestinese. Anche giustamente, visto come stanno andando le cose.

Però, lo spettatore occidentale di “Taxi Teheran”, quello in buona fede (non il simpatizzante di Trump e Putin), non potrà non apprezzare quel passaggio del film, quando l’arguta nipotina del tassista-Panahi svela, in modo implicito, cioè raccontando con grande naturalezza la sua giornata a scuola, quanto capillare sia il controllo delle menti, soprattutto nei bimbi: si parla loro di pubblica decenza, di rispetto delle tradizioni e dei ruoli sociali, quindi anche del ruolo subordinato della donna, di legge islamica, della saggezza infinita di coloro che governano, di evitare, quando si scrive e si parla qualsiasi forma di “torbido realismo sociale”, e così via. E quando la nipotina chiede allo zio, cosa significhi quest’ultimo termine, il volto di Panahi assume la stessa espressione di Umberto D quando gli si annuncia, per l’ennesima volta, il prossimo aumento della pensione…

Un mantra fondamentalista che in Occidente, guadagnando voti, le destre, peggio ancora se estreme, ripetono, mai sazie. Che cos’ è in fondo il Dio, patria e famiglia? La versione occidentale, cristianizzata, del fondamentalismo islamico. Ovviamente i due fondamentalismi si guardano in cagnesco. Il che non significa che i fondamentalisti dell’occidente siano migliori dei fondamentalisti iraniani. Pari sono. E come per Netanyahu : il woke passa, il fondamentalismo religioso resta. Per dirla alla buona: le mode passano, le religioni del libro restano.

Per contro Jafar Panahi guarda all’Occidente, pre Trump, pre Meloni, eccetera: all’Occidente liberale. La Russia di Putin neppure è presa in considerazione. In questo senso un film come “Taxi Teheran”, come del resto la sua intera produzione, parla dell’Iran, ma parla anche all’Occidente, che sembra aver dimenticato la grande lezione liberale.

Il messaggio di Panahi è rivolto non solo i cittadini iraniani, ma anche l’Occidente delle piazze settarie, dei talk show, dei social saturi di indignazione selettiva, dove si difende ogni libertà tranne quella che davvero costa qualcosa: la libertà di pensiero, di parola, di dissenso autentico.

Sarebbe fin troppo facile limitarsi a denunciare le dittature religiose. Ma quale immunità morale può vantare un Occidente che elegge leader ossessionati dal nemico interno ed esterno? Che alimentano paure tribali, che confondono l’ ordine con l’obbedienza, il governare con il comandare, l’identità con la chiusura?

Donald Trump in America, Giorgia Meloni in Italia: due nomi diversi, un’unica retorica dell’assedio. “Prima noi”. “Difendiamo i valori”. “Basta intellettuali”.

In tal senso, Panahi non è solo un regista iraniano. È un filosofo politico della cinepresa. E come ogni vero filosofo invita le persone, tutte le persone, a guardarsi allo specchio.

Per contro l’Occidente che vede in Panahi una specie di eroe esotico da festival non ha capito nulla. Perché Panahi ci riguarda. Ci interpella. E ci giudica. Non perché siamo meno liberi. Ma perché non vogliamo più esserlo davvero.

La democrazia corre il rischio non tanto di perdere la libertà, quanto di dimenticarne il prezzo. Panahi, con ogni sua inquadratura, ci ricorda quel prezzo. E il fatto che non vogliamo pagarlo più.

Di qui la grandezza politica del cineasta iraniano.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.raiplay.it/programmi/taxiteheran  .Sottotitoli in lingua italiana.

lunedì 26 maggio 2025

Trump e Putin: leader o pazienti? Quando la psicologia sbaglia bersaglio

 


L’analisi psicologica della leadership è probabilmente uno degli argomenti più complicati dal punto di vista della metapolitica. Dal momento che ci si trova davanti a un problema avvertito dai biografi. Quale? Che, nonostante lo studio di carte e documenti, il biografo ha quasi sempre enormi difficoltà nel ricostruire il profilo psicologico di un personaggio storico. Il che vale per Cesare come per Hitler, per Mussolini come per Cavour, e così via.

Si pensi, alla pur riuscita biografia mussoliniana di Renzo De Felice, acutissima per certi aspetti storico-politici, debole per quelli personali del dittatore. Cosa vuol dire che Mussolini nei tardi anni Trenta si era incupito, fino a precipitare in una specie di pessimismo cosmico? Che però non gli impedì di allearsi con Hitler? Invece Franco, addirittura tetro dalla nascita, si guardò bene dall’allearsi con Hitler.

Cosa vogliamo dire? Che il collegamento tra le presunte debolezze caratteriali di un dittatore e le sue scelte politiche reali non aiuta a capire l’essenza delle cose né sul piano biografico, né su quello dell’analisi metapolitica.

A questo proposito, riteniamo sia un errore, come ci è capitato di leggere, definire fragili, perché vittime di chissà quali paure nascoste, due leader in apparenza  - si dice -  volitivi come Trump e Putin.

In questo modo si fa cattiva psicologia e cattiva scienza politica. Dal momento che se informatissimi biografi, specializzati, spesso prendono lucciole per lanterne, figurarsi un professore generalista, anche di scienza politica.

Resta perciò buona regola attenersi ai fatti. E i fatti ci dicono che Trump e Putin sono come li  vediamo: sanno benissimo quello che vogliono. Si chieda agli ex alleati europei e agli ucraini. Infine, se proprio si vuole fare della psicologia, nei loro occhi si legge una determinazione spaventosa. Vi si scorge, quel vuoto di sentimenti (dalla compassione a tutto il resto), tipico della volontà di potenza, che quasi sempre prelude a decisioni e azioni drastiche.

Va poi ricordato un altro grossolano errore interpretativo: quello incarnato dalla fantasiosa ideologia fallica del potere, che punta, a livello di spiegazione, su una presunta invidia del pene tra leader politici, pronta a trasformarsi in fonte di angoscia e paura.

In realtà per lo scienziato metapolitico resta più importante l’interpretazione della paura politica fornita da Guglielmo Ferrero che quella elaborata dai lacaniani di sinistra, ad esempio Žižek.

Allo scienziato a guardia dei fatti interessa la paura in quanto tale, solida, concreta, empirica, che di regola alimenta l’ angoscioso immaginario dei dittatori, e li spinge a circondarsi di guardie armate e di polizia segreta, prontissima a eliminare fisicamente possibili concorrenti.

Gli oppositori sono a loro volta contagiati dalla paura, secondo un processo che dal despota, scende verso il basso per poi risalire, dal popolo, verso l’alto, Un saliscendi che finisce per impregnare l’ intero ambiente politico. Di qui l’apparente caos calmo, di rimescolamento forte delle carte politiche, ma anche pacato, perchè si smonta programmaticamente,  pezzo dopo pezzo, la vecchia macchina, con ovvie ricadute magmatiche, quindi caotiche, sul terreno comunicativo. 

Ne ha scritto Ferrero, e bene. Ma si ricordi in particolare la classica analisi di Montesquieu sulla paura come principio del dispotismo.

Non vorremmo semplificare troppo. Ma, per capirsi, secondo la versione fallico-lacaniana, Trump e Putin, sarebbero angosciati da una questione di “misure”. Di qui la fallicità di comportamento. Cioè, ” Ora ti faccio vedere io quanto è grosso il mio…”.

Cioè che accade? Che la tragedia metapolitica di Macbeth, di una paura politica, che si autoalimenta, contagiando tutti, sudditi, avversari nemici, si tramuta in una questione di angoscia da “pisello” (pardon). Da adolescenziale specchio dans la salle de bain.

Si dirà, che sul piano delle radici psichiche, i famosi residui profondi del comportamento sociale, studiati da Pareto, le cose potrebbe anche stare così.

Certo, ma molto, molto, molto alla lontana. Sono cose buone per oziose discussioni accademiche o per film tipo “Terapia e pallottole” (del boss mafioso che si rivolge al terapeuta, però senza alcuna intenzione di cambiare “business”).

In realtà lo scienziato sociale, o meglio ancora lo studioso di metapolitica, deve studiare i fatti. E i fatti dicono che Trump e Putin sanno perfettamente ciò che vogliono. E sono determinati nel perseguirlo. In definitiva, non sono pazienti, piagnucolosi e bisognosi di cure, ma attori storici, reali,  sicuri di sè,  armati fino ai denti.

Concludendo, non si confonda la tattica comunicativa, da caos calmo, con la strategia politica che guarda al sodo. O peggio ancora non si giustifichi la tattica comunicativa con le pseudoteorie falliche.

Carlo Gambescia

domenica 25 maggio 2025

Trump, i dazi e il “metodo Soprano”: governare per estorsione

 


Sembra che per gli interlocutori di Trump, soprattutto europei, la cosa più difficile da metabolizzare sia il suo cambiare continuamente idea. Come ad esempio sui dazi.

In realtà con Trump la politica internazionale sta facendo più di un passo indietro. Si torna a un mondo in cui uomini prepotenti, animati da idee di potenza, decidono sulla testa dei popoli.

Che le élite abbiano sempre giocato un ruolo centrale nella vita politica è un fatto difficilmente contestabile. Però, dal punto di vista del proscenio politico, una cosa è il moderno stato di diritto, un’altra l’organizzazione mafiosa di stampo politico. Alla “Soprano”. Su questo punto torneremo più avanti.

Dicevamo dei dazi. Ad esempio, pur mantenendo la sua idea fissa sulla bontà del protezionismo, Trump prima ha parlato di 25, poi di un pausa di 90 giorni circa l’applicazione, ora invece dichiara, è di ieri, del 50 per cento, e per giunta a breve.

E così sulla Nato ( ora parla di contributo al 5 per cento), sulla pace in Ucraina( che al momento sembra non interessare più).

La cultura europea della mediazione si basa invece sull’ onestà delle proposte e sulla buona fede presuntiva dell’interlocutore. Insomma, nonostante tutto, si continua a vedere in Trump un onesto alleato privo di riserve mentali. E lo si vuole trattare come tale. Onestamente.

Per contro il magnate americano tratta l’Europa come nemica e introduce una tecnica di trattative da immobiliarista legato alla mafia pronto a ricattare, dividere e intimidire i suoi concorrenti. E non ne fa un segreto. Anche la sfrontatezza è un aspetto nuovo.

Su questo punto specifico sembra infatti ci si trovi davanti a una serie di richieste unilaterali, ad esclusivo vantaggio di Washington. I dazi sono un puro strumento di pressione per asservire l’economia europea. La classica carica esplosiva, nascosta, con le altre armi e munizioni, fino a un’ora prima,  in un angolino  sotto le salsicce del Satriale Pork Store, che di notte viene utilizzata per distruggere un cantiere aperto senza il permesso del racket.

Di più. Anche perché altrimenti sarebbe un gangster puro e semplice. Al fondo del comportamento alla Tony Soprano di Trump, diciamo pure del “metodo Soprano”, c’è un’idea politica: l’Europa, come cinquantunesimo stato Usa. La pretesa che le imprese europee producano negli Stati Uniti, alle condizioni di Washington, va in questa direzione, come del resto quella dell' Europa  obbligata ad acquistare solo energia americana.

Paradossi storici: Trump propugna la stessa idea che i Padri fondatori giustamente contrastarono, sbattendo la porta in faccia a Giorgio III.

Quale idea? Quella del monopolo del commercio da parte della madre patria, allora il Regno di Gran Bretagna, nei riguardi delle Tredici Colonie americane. E oggi, del monopolio del commercio da parte degli Stati Uniti nei riguardi dell’Europa. In pratica, Trump, come Giorgio III, monarca, tra l’altro, non sano di mente, vuole imporre alle 27 colonie europee una condizione di inferiorità economica. Ne seguirà, come allora, una guerra d’indipendenza europea?
 

Intanto i libertarian europei simpatizzanti di Trump, già pro Tea Party, sono avvisati… Si trovino un altro mito.

Quanto al resto, esageriamo? Forse. Comunque il casus belli potrebbe essere rappresentato dall’invasione americana della Groenlandia.

Non si dimentichi infatti che le dittature, e quella di Trump si va qualificando come tale, usano trasporre all’esterno le pressioni interne.

Pressioni che al momento non sembrano preoccupare Trump, ma che in futuro potrebbero infittirsi. Di qui la tentazione della guerra di conquista (che cos’è, ad esempio, l’Ucraina per Putin?): armi “vere” usate come distrazione di massa. Insomma le solite pericolose pagliacciate nazionaliste e imperialiste.

A quel punto l’Unione Europea sarebbe comunque costretta a prendere posizione, anche in vista di una deflagrazione della Nato, di cui la Danimarca, minacciata dal lato della Groenlandia, fa parte.

Gli antiamericani storici diranno che la nostra è la scoperta dell’acqua calda, perché è dal 1945 che gli Stati Uniti trattano l’Europa come una colonia, eccetera, eccetera. E che Trump al massimo ufficializzerebbe una condizione di fatto.

A parte la questione che nel 1945 la libertà sconfisse la dittatura, e proprio grazie agli Stati Uniti, modello di paese liberale, Trump è antropologicamente differente da tutti gli altri presidenti americani, almeno a far tempo da quella data.

Trump appartiene alla categoria dei gangster politici, come Hitler, Mussolini, Stalin, e così via fino a Putin. E comunque sia, si badi bene, una cosa è il soft power (basato su attrazione e persuasione), un’ altra l’hard power (fondato sul potere coercitivo).

E se viene meno il soft power, come sta accadendo con Trump, non ci resta, piaccia o meno, che l’hard power.

Cosa vogliamo dire? Come faceva la famosa canzone di Battiato, “Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare/Rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare”.

Ecco, la nostra maglia di lana sono le armi. Quindi l’Europa davanti a sé ha una sola strada. Riarmarsi, riarmarsi, riarmarsi.

Carlo Gambescia

sabato 24 maggio 2025

Israele. Churchill, Netanyahu e il concetto di autorità

 


Di Churchill molti storici sottolineano il tratto caratteriale deciso, fin troppo: l’andare subito alle conclusioni, da uomo che conosce profondamente il mondo e che non ama troppo nutrire i dubbi amletici degli intellettuali. Si può parlare di una sana ostinazione.

Si pensi a uomini politici che hanno grande fiducia in se stessi e che riescono a infonderla, senza che esecutori e interlocutori debbano farsi troppe domande sul perché obbediscono. Dietro però non c’è la paura, come nel caso dei grandi dittatori, c’è l’autorità: si obbedisce perché si ritiene che il leader ne abbia a volontà.

Autorità in che senso? Non si pensi all ’autorità costituita, quella che appartiene a chiunque eserciti un potere riconosciuto e sanzionato dalla legge. Ma al potere morale che deriva dalla stima, credito di cui un uomo politico gode (per età, virtù, scienza, ingegno o per altre competenze).

Insomma Auctoritas, nel senso latino del “far crescere” (augere), il cui significato deriva da Auctor, colui che crea: il maestro che rende credibile ciò che dice perché ha già dimostrato, con successo, il valore, la veridicità delle proprie affermazioni e iniziative. Diciamo che si tratta di un potere che resta legato a un fattore psicologico-morale. Inoltre autorità non è sinonimo di governabilità. La governabilità è attributo sia dei dittatori, sia dei leader democratici. Invece l’autorità è qualcosa che viene prima della governabilità.

Churchill e Hitler governavano, praticavano la "governabilità", però Churchill deteneva l’ Auctoritas, ed era obbedito per la sua credibilità. A Hitler invece si obbediva perché si aveva paura di lui.

Qui la differenza tra un leader politico con o senza autorità.

Benjamin Netanyahu ha l’autorità psicologico-morale per governare Israele? Gode di credibilità? Churchill vinse la guerra, ma perse le successive elezioni nel luglio del 1945. I britannici ai conservatori preferirono i laburisti guidati da Attlee. E Churchill, diligentemente, si dimise.

Non crediamo che Netanyahu tornato a governare dal 2009, con maggioranze politiche sempre più a destra e divise, goda di autorità. Né che si possa paragonare a Churchill. Non che sia un'intelligenza politica di secondo piano, ma  un vero statista deve sapere quando fermarsi. Abbiamo a lungo riflettuto su questo aspetto, su ciò che sembre essere il lato debole di Netanyahu. Forse lo abbiamo sopravvalutato.  Seguono le nostre conclusioni.

Attualmente Netanyahu è ancora Primo Ministro, ma lo stato di Israele è attraversato da crisi istituzionali (per le riforme giudiziarie ad esempio) e da forti tensioni interne e regionali, soprattutto dopo il conflitto generato dall’incursione terroristica di Hamas nell’ottobre 2023.

Conflitto gestito in modo durissimo da Netanyahu. Una conduzione, per così dire, che divide gli elettori israeliani e l’opinione pubblica mondiale. Qui la differenza: Churchill era sostenuto anche dalle opposizioni, Netanyahu no. Per essere più precisi: l'opposizione israeliana ha in parte sostenuto la repressione a Gaza, soprattutto nei mesi iniziali del conflitto, per ragioni di sicurezza nazionale e unità. Tuttavia, col progredire della guerra, sono aumentate le critiche sia sulla conduzione militare sia sulla mancanza di visione politica, portando a un graduale allontanamento dalle posizioni del governo.

Il che spiega perché la macchina repressiva israeliana sembra aver assunto forza propria. Una trottola impazzita. Qualcosa di inarrestabile. Quando manca l’ autorità non resta che il perseguimento del successo a ogni costo, proprio perché la credibilità è fine e non mezzo. E come noto, a ogni azione politica  segue una reazione. Di questo passo,  secondo un classico meccanismo a spirale,  si rischia il peggio sul piano politico-militare.

Del resto le opposizioni israeliane sono molto divise. La crisi e la sparizione del partito laburista negli ultimi venticinque anni sono due eventi che hanno favorito l' ascesa di Netanyahu. Quindi uomo politico anche fortunato.

A nostro avviso Netanyahu dovrebbe farsi da parte. Ma, a parte l’ostinazione dell’uomo (che associata alla autorità può essere cosa buona, come in Churchill), chi potrebbe sostituirlo? Perché l’opposizione, molto frammentata, non ha l’autorità che aveva il partito laburista israeliano, come quello britannico che vinse le prime elezioni politiche dopo la guerra.

Concludendo, la crisi israeliana è, innanzitutto, una crisi d’autorità. 

Tutto il resto è secondario.

Carlo Gambescia

venerdì 23 maggio 2025

Il Fascismo 2.0 passa da Roma

 


Titolo provocatorio? Fino a un certo punto. Prima però va fatto un passo indietro.

La destra in genere, quella fascista in particolare, ha sempre attaccato i diritti dell’uomo. Per le origini di questo atteggiamento in contrasto con l’umanesimo liberale, si può facilmente risalire al pensiero controrivoluzionario.

De Maistre, il padre della controrivoluzione, tra l’altro un diplomatico, diceva di vedere intorno a sé un francese, un inglese, un russo, non l’uomo, in quanto tale. A onor del vero va ricordato che il nuovo nazionalismo armato, quello di origine girondina, rivoluzionario sconfinante sul piano interno nelle “colonne infernali” giacobine contro la Vandea, non fu meno tenero verso i diritti dell’uomo. Infatti Napoleone, che tutto doveva alla Rivoluzione, porterà in giro per l’Europa i diritti dell’uomo ma sulla punta delle spade e delle baionette francesi.

La reazione romantica, anticipata da Joseph de Maistre e da altri pensatori controrivoluzionari, imperniata sul culto delle radici, dell’identità, della comunità, della tradizione, dopo un secolo di vizi e stravizi contro la ragione, si tradusse inevitabilmente nei fascismi, soprattutto una volta separato il Risorgimento nazionale dalle sue radici liberali.

Si rifletta. Uno dei due sottotitoli del “Popolo d’Italia”, fondato da Mussolini, riportava una frase ripresa dal lessico napoleonico: “La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette”. L’altro rinviava al rivoluzionario Auguste Blanqui, di tendenze comuniste e tra i primi a usare il termine dittatura del proletariato: “Chi ha del ferro, ha del pane”. Quindi destra (Napoleone) e sinistra (Auguste Blanqui), per andare oltre , a parole ovviamente, contro la destra e sinistra. Et voilà il fascismo.

Proprio a questo pensavamo ieri, a proposito dalla Lettera congiunta di Italia e Danimarca, indirizzata all’ Ue, per aprire un dibattito a livello europeo sul futuro delle convenzioni internazionali in materia di migrazione. Annunciata durante l’incontro romano tra Giorgia Meloni e Mette Frederiksen. E sottoscritta da paesi più o meno di orientamento sovranista: Austria, Repubblica Ceca, , Lituania, Estonia, Lettonia, Polonia, Belgio e, oltre che Italia e Danimarca.

In realtà è un vero e proprio attacco alla Corte Europea dei diritti dell’uomo ( CEDU) e ai diritti dell’uomo. Che poi l’appello sia portato avanti da una donna di sinistra, la socialdemocratica Frederikesen, e da una di destra, con radici fasciste, la Meloni, è una chiara prova della classica saldatura destra-sinistra che ci riporta proprio agli anni dell’ascesa dei fascismi. Mai dimenticare, che Bombacci, fucilato a Salò, amico di Mussolini, fu tra i fondatori del partito comunista nel 1921. Lo stesso duce, cosa notissima, aveva un passato socialista e di direttore dell’ “Avanti!”. Ma non furono i soli: nel primo dopoguerra vi fu un vero e proprio travaso dal socialismo al fascismo. Tutti nemici giurati dell’Italia liberale.

Cosa vogliano dire? Che Mette Frederiksen è la classica socialista che dice cose di destra (*). Rossobruna? Forse al momento no. Però, come altrove in Europa, a cominciare dalla tedesca Sahra Wagenknecht, ex Die Linke, ci si muove verso questa orribile direzione.

La Frederiksen potrebbe tramutarsi nel Bombacci della situazione. Musica per le orecchie di Giorgia Meloni, che non ha mai dimenticato la lezione mussoliniana: necessità pratica di una foglia di fico socialista, da vendere però, soprattutto ai militanti, in chiave ideale, dell’ “andare oltre la destra e la sinistra”, dicendo cose di destra e di sinistra, astutamente mescolate insieme.

 



 

Del resto nella Lettera l’ attacco ai diritti dell’uomo, tipicamente fascista, oltre che nel senso di una componente acquisita di sinistra, è più che evidente. Basta leggere.

“[Riteniamo che] la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia sviluppato la sua interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È [perciò] importante valutare se, in alcuni casi, la Corte abbia esteso eccessivamente la portata della Convenzione rispetto alle intenzioni originarie, alterando così l’equilibrio tra gli interessi da tutelare. Riteniamo che l’evoluzione dell’interpretazione della Corte abbia, in alcuni casi, limitato la nostra capacità di prendere decisioni politiche nelle nostre democrazie. E, di conseguenza, abbia influenzato il modo in cui noi, in qualità di leader, possiamo proteggere le nostre società democratiche e le nostre popolazioni dalle sfide che ci troviamo ad affrontare nel mondo di oggi. Abbiamo assistito, ad esempio, a casi riguardanti l’espulsione di cittadini stranieri criminali in cui l’interpretazione della Convenzione ha portato alla protezione delle persone sbagliate e ha posto troppe limitazioni alla capacità degli Stati di decidere chi espellere dai loro territori. A nostro avviso, la sicurezza delle vittime e della stragrande maggioranza dei cittadini rispettosi della legge è un diritto cruciale e decisivo. E, come regola generale, dovrebbe avere la precedenza su altre considerazioni” (**).

Si oppongono ai diritti dell’uomo i diritti dello stato; alla decisione del magistrato la decisione politica; alle convenzioni internazionali la sovranità nazionale; al migrante, come essere umano, la “stragrande maggioranza dei cittadini”. Succo finale: lo stato è tutto, la nazione pure, l’individuo nulla.

Se non è fascismo questo, poco ci manca. Il che significa che allo stato delle cose, piaccia o meno, il Fascismo 2.0 passa da Roma.

Una notazione conclusiva, di costume e di politica. Già immaginiamo la signora Frederiksen, con il cellulare che squilla a vuoto tra le mani, nel tentativo — dopo l’invasione militare americana della Groenlandia — di contattare l’“amica” Giorgia Meloni. Invano, s’intende.

Carlo Gambescia

(*) Per un suo profilo si veda qui: https://www.theguardian.com/world/2019/may/11/denmark-election-matte-frederiksen-leftwing-immigration .

(**) Qui: https://www.agi.it/politica/news/2025-05-22/migranti-lettera-italia-e-8-paesi-aprire-dibattito-su-cedu-31534513/ ; https://www.governo.it/it/articolo/incontro-con-il-primo-ministro-del-regno-di-danimarca/28780 .

giovedì 22 maggio 2025

Da Breivik a Hitler, passando per Trump e Musk, il passo è breve

 


A nostro avviso è solo questione di tempo. Prima o poi  il Mein Kampf verrà sdoganato da questa gente. Quale gente? Trump, Musk e corifei europei, incistati nelle varie destre razziste, populiste, nazionaliste, fasciste, oggi in non pochi paesi europei al governo o lì per esserlo. 

Colletti bianchi, diciamo così, che rilanciano tesi deliranti che, come vedremo, ritroviamo addirittura nel Manifesto del terrorista norvegese Anders Breivik (*).  Miasmi, i più venefici dal 1945.

Esageriamo? Il titolo è forzato? Prima di giudicare, il lettore segua il nostro ragionamento.

Ieri la Casa Bianca – e sfidiamo chiunque ad asserire il contrario – ha offerto uno spettacolo, un bruttissimo spettacolo. Che probabilmente non ha precedenti se non nell'acceso dibattito pro o contro la schiavitù che portò alla guerra civile americana.

Durante l’ incontro con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, Trump ha presentato video e articoli, pescati su qualche sito razzista, indicato dal sudafricano Musk, in cui si sostiene l’esistenza di un fantomatico “genocidio” contro gli agricoltori bianchi, gli afrikaner.

Sono i discendenti dei coloni olandesi, francesi ugonotti, e tedeschi che si stabilirono in Sudafrica a partire dal XVII secolo: i padri della segregazione razziale. E parlano l’afrikaner.

Ramaphosa ha respinto fermamente queste accuse, affermando che la violenza colpisce tutte le razze e non è sostenuta da alcuna politica governativa.

I fatti: il Sudafrica affronta da anni un grave problema di criminalità diffusa, con un alto tasso di omicidi che colpisce tutte le comunità, indipendentemente dall’etnia. Secondo i dati della polizia sudafricana, tra il 2020 e il 2024 si sono verificati 225 omicidi in aree rurali, di cui solo 53 hanno coinvolto agricoltori bianchi, mentre la maggior parte delle vittime erano lavoratori agricoli neri (**). Questo indica che la violenza nelle zone rurali non è motivata da ragioni razziali, ma piuttosto da fattori criminali generali.

Qualche dato. Il 7, 3 % della popolazione totale del Sudafrica ( circa 60 milioni) è bianca. Gli afrikaner sono poco più della metà della popolazione bianca. Di conseguenza l’ONG Africa Check ha sottolineato che i bianchi in Sudafrica hanno meno probabilità di essere uccisi rispetto ad altri gruppi razziali, dal momento che la percentuale di omicidi commessi è maggiore tra i neri che tra i bianchi. Quindi dal punto di vista del trend statistico, il genocidio dei bianchi è tecnicamente impossibile (***). Il ragionamento può sembrare paradossale, ma le cose stanno così.

Pertanto la tesi del genocidio bianco esiste solo nella testa dell’estrema destra mondiale, razzista e complottista. E qui viene il bello (si fa per dire): una delirante summa in argomento la ritroviamo in 2083: una dichiarazione di indipendenza europea. Di cosa parliamo? Del manifesto del terrorista norvegese di estrema destra Anders Breivik , che ha sulla coscienza (se ne ha una) 69 giovani tra i 14 e i 20 anni, uccisi freddamente come conigli nell’isola di Utøya, perché giudicati colpevoli di essere membri dell’organizzazione giovanile del partito laburista norvegese… Era il 2011.

Trump, aggredendo il presidente Ramaphosa, ha accreditato e ufficializzato le tesi di Anders Breivik, sposate da Musk, cioè del peggior suprematismo bianco.

E ha rilanciato le fandonie di un criminale che ha ucciso 69 persone. E da dove? Somma ingiuria. Dalle stesse stanze della Casa Bianca che videro nel 1863 la proclamazione da parte di Abraham Lincoln della liberazione degli schiavi neri. Lincoln, tra le altre cose è il fondatore del partito repubblicano, oggi nelle grinfie di Trump.

Il che significa che ci si deve preparare al peggio: da Breivik a Hitler, passando per Trump e Musk, il passo è breve.

Carlo Gambescia

 (*) Nonostante la nostra grande incertezza sulla necessità o meno di indicare il link al “Manifesto” di Breivik, abbiamo infine deciso per  il  sì: https://www.rai.it/dl/docs/13115255886322083-A-European-Declaration-of-Independence.pdf . Sono 1500 pagine non numerate. Per il punto in questione si veda qui: “3.100 Solutions for South Africa, Israel and the US” (grosso modo, a due terzi del libro). Un testo delirante.

(**) Qui: https://www.ilpost.it/2025/05/21/teoria-genocidio-afrikaner-sudafrica/ ; qui: https://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/il-mito-razzista-del-genocidio-dei-bianchi-in-sudafrica/ .

(***) Qui: https://africacheck.org/fact-checks/blog/analysis-genocide-watch-thin-transparency-and-methodology.

mercoledì 21 maggio 2025

Intanto, “nell’elegante quartiere del Torrino”…

 


Titolo criptico. Il lettore abbia pazienza, poi capirà…

Probabilmente è nella natura intrusiva di Giorgia Meloni. Detto altrimenti, nella sua capacità di infiltrarsi, espandersi, propagarsi, egemonizzare. Un fattore personalissimo che fino a oggi ha funzionato: colonizzare ogni spazio politico che si presenta, approfittando delle debolezze e degli errori di alleati, avversari, nemici. Un rullo compressore.

In questo modo Giorgia Meloni ha trasformato i resti di Alleanza nazionale in un robusto partito di governo. Fratelli d’Italia, da partitino neofascista ha occupato, passo dopo passo, gli spazi lasciati liberi da una classe dirigente rasa al suolo da Gianfranco Fini.

In questo modo Giorgia Meloni, una volta assunto il pieno controllo del partito, ha fagocitato la Lega e Forza Italia, occupando gli spazi elettorali imprudentemente lasciati vuoti dagli errori politici di Matteo Salvini, dalla morte del Cavaliere e dalle titubanze di Tajani. Dal due per cento di dieci anni fa, oggi è oltre il trenta per cento. E chissà dove arriverà.

In questo modo Giorgia Meloni ora si sta inserendo nei negoziati per la pace Kiev-Mosca, occupando gli spazi lasciati vuoti dagli errori di Trump e dalle incertezze degli alleati europei. I quali, tutti insieme, stupidamente, sembrano addirittura lieti di lasciare la patata bollente delle trattative nelle mani di Giorgia Meloni. Che ne ha subito approfittato, scegliendosi un alleato formidabile: il Papa. Mossa, all’altezza, quantomeno sul piano simbolico, del Concordato mussoliniano. Mussolini e Meloni, le due Emme: grandi giocatori d’azzardo. La Meloni forse meno… Più sgobbona, più sistematica del duce.  Ma è da vedere.

Primo risultato: riflettori mondiali accesi su di lei e ovviamente sul nostro paese. L’Italia non era al centro di una trattativa politico-diplomatica così importante dal Trattato di Versailles.

Secondo risultato: come per Mussolini, Monaco 1938, si dimenticano le colpe per celebrare i meriti di Giorgia Meloni. Che importa se imprigiona i migranti? Se fa picchiare i manifestanti? Fa spiare gli avversari politici? Cancella i diritti civili? Sottomette la magistratura? Nullifica le opposizioni? Che importa? Soprattutto se, anche questa volta, si dovesse giungere alla pace. Pace, ovviamente provvisoria, come quella con Hitler, a danno però dell’Ucraina, perché il Papa non ha divisioni, per farsi valere, ma ne ha sufficienza, per favorire almeno la beatificazione di Giorgia Meloni a leader mondiale.

L’abilità politica di questa donna è straordinaria. Male hanno fatto gli avversari politici a sottovalutarla. Per fare un esempio macrostorico: Mussolini fu altrettanto abile, in politica interna, nell’approfittare degli errori politici di liberali, cattolici, socialisti. Come pure, almeno fino al 1938, fu capace di sfruttare egoismi e rivalità tra britannici, francesi e americani. Occupava, qualsiasi spazio politico gli si aprisse. E quasi sempre con successo. Eccetto nel 1939-1940, quando all’abilità politica avrebbe dovuto affiancare la forza militare. Che l’Italia non aveva. Quindi l’abilità diplomatica non bastava. E al tavolo del poker perse tutto.

Ed è questo lo stesso problema dell’Italia di Giorgia Meloni, che sapendo di non brillare di forza propria, ha scelto il Papa, che ha un prestigio morale, che in un primo momento può competere con la forza armata. Però se il Papa si defilasse, oppure i russi si incaponissero, l’Italia non avrebbe altre carte da giocare.

Però intanto Giorgia Meloni, dopo l’Italia, dopo l’Euro-America, sta scalando la politica mondiale.

A volte il diavolo fascista è nel dettaglio. Si legga qui. Dal “Messaggero” di ieri, ai suoi tempi passato alla storia per le cronache sulla luce accesa a notte fonda nello studio di Mussolini a Palazzo Venezia. Corsi e ricorsi di Via del Tritone.

Giornata intensa, in barba alla febbre. Girandola di chiamate per Giorgia Meloni, che tesse la tela dei negoziati per la pace Kiev-Mosca, giocando di sponda con il Vaticano. La premier sente Papa Prevost – collegata da casa nell’elegante quartiere del Torrino, costretta allo stop appunto dalle condizioni fisiche – ed è la seconda telefonata con il pontefice dal giorno in cui i 133 cardinali raccolti (…)”.

Per inciso, il Torrino, a sud dell’Eur, non era per niente elegante. Ora che invece vi risiede Giorgia Meloni, promosso sul campo… Servi.

Capito ora il perché del titolo?

Purtroppo al serpente andava subito schiacciata la testa. Si doveva impedire che deponesse le uova.

Fratelli d’Italia andava trattato fin dall’inizio come un partito fascista e messo fuori legge. Si vadano a rileggere le dichiarazioni di Giorgia Meloni degli anni Dieci. Da manuale del neofascismo.

E invece i comici ridevano, i commentatori sorridevano, e così via...

Carlo Gambescia

martedì 20 maggio 2025

“Libero” compie 25 anni. Che difensore della libertà…

 


“Libero” festeggia i venticinque anni di vita  con un’ intervista a Vittorio Feltri, fondatore.

In realtà la creatura di Feltri, oggi di Angelucci, imprenditore e proprietario di numerose testate di destra, di liberale non ha mai avuto nulla. Forse le pagine economiche, “Libero mercato”, una seconda testata economica, affidata, se ricordiamo bene, nel 2007 a Oscar Giannino. L’esperienza si chiuse nel 2009 quando Giannino venne licenziato per aver denunciato interferenze editoriali.

Per il resto, nonostante Feltri sostenga il contrario, o comunque inventi giustificazioni, “Libero”, che dalle punte di centomila, e sceso alle diciottomila copie di oggi (dati diffusione 2024), è sempre stato al centro di durissime e quasi sempre scorrette campagne contro i diritti civili, i gay, i migranti, l’Islam, le questioni ambientali e soprattutto la sinistra.

Insomma il giornalismo degli insulti e con la bava alla bocca: ecco il segreto di “Libero”. Un giornalismo portato avanti dai diversi direttori che si sono succeduti: Feltri, Sallusti, Belpietro, Senaldi, da ultimo Sechi, già capo ufficio stampa del governo Meloni, coadiuvato da Capezzone e Senaldi. Il gioco dei quattro cantoni, Più o meno sempre gli stessi, tutti però  con la stessa idea fissa in testa: distruggere la sinistra. Classico rispetto liberale per gli avversari…

A questo proposito, vorremmo ricordare Il “falso dossier” di Renato Farina. Una brutta pagina del giornalismo italiano, risalente al 2006. All’epoca, Farina era vicedirettore e collaborava segretamente con il Sismi (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare) sotto lo pseudonimo di “agente Betulla”.

Alla vigilia delle elezioni politiche del 2006, “Libero” pubblicò un articolo firmato da Farina che accusava Romano Prodi, allora leader del centrosinistra e candidato premier, di aver autorizzato, durante il suo mandato come Presidente della Commissione Europea, le “extraordinary rendition” della Cia in Europa. In pratica rapimenti extragiudiziali collegati alle misure antiterrorismo varate da Washington dopo il 2001. In particolare, il dossier sosteneva che Prodi avesse avallato operazioni segrete come il rapimento dell’imam Abu Omar a Milano nel 2003, un caso noto per il coinvolgimento dei servizi segreti americani e italiani .

Le accuse si rivelarono infondate e parte di una campagna di disinformazione orchestrata con la complicità del Sismi. Farina fu indagato e successivamente condannato per favoreggiamento nell’ambito del caso Abu Omar. Nel 2007 patteggiò una pena di sei mesi di reclusione, convertita in una multa di seimila ottocento euro. Farina ammetteva di aver collaborato con i servizi segreti, giustificando le sue azioni come un dovere patriottico secondo l’articolo 52 della Costituzione italiana. Che recita che la difesa della patria è sacro dovere del cittadino.

Certo, e di attaccare Prodi, candidato, quando si dice il caso, del Centrosinistra. Molto patriottico. E’ proprio vero, come disse Samuel Johnson, che il patriottismo è l’ultima arma dei vigliacchi.

Capito? “Libero”, venticinque anni di libertà…

Carlo Gambescia

lunedì 19 maggio 2025

“Trilaterale” di Palazzo Chigi. Tu chiamala se vuoi… autopromozione

 


Al di là dei salamelecchi diplomatici, quanto può contare l’Italia nello scacchiere internazionale? Attenzione, in termini concreti di scambio, minaccia, decisione.

Si prenda la foto che ritrae Vance, Meloni, Von der Leyen, ieri a Roma, per l’intronizzazione del Papa, ritratti a colloquio intorno a un tavolo, tra i più brutti di Palazzo Chigi (un fungone marmoreo  Casamonica Style), rilanciata oggi dalla stampa organica alla destra, come prova del grande successo internazionale di Giorgia Meloni.

In realtà il microvertice, ribattezzato pomposamente “Trilaterale”, non è andato al di là di un breve scambio di opinioni, durato circa un’ora sullo stato delle cose tra Europa e Stati Uniti. Una fotografia concettuale dei problemi. Pure brutta.

Al suo termine è stata rilasciata una dichiarazione. Tuttavia, non si è trattato di un documento formale firmato da tutte le parti, ma piuttosto di comunicazioni coordinate: una fotocopia dei fatti. Come dicevamo, dello stato delle cose (*).

Commercio e dazi: le parti hanno espresso l’intenzione di avviare negoziati per un accordo commerciale equo e reciprocamente vantaggioso tra Stati Uniti e Unione Europea. Attualmente, gli Stati Uniti applicano tariffe del 25% su acciaio, alluminio e automobili europee, con la possibilità di ulteriori aumenti se i negoziati non porteranno a un accordo entro 90 giorni. Sai che scoperta…

Ucraina: I leader hanno sottolineato l’importanza di una pace giusta e duratura in Ucraina, riaffermando l’impegno congiunto per porre fine al conflitto. Mannò…

Energia e difesa: Von der Leyen ha annunciato la creazione di una commissione per gestire investimenti in difesa per 800 miliardi di euro in quattro anni, sottolineando che questo rafforzamento contribuirà anche alla NATO. Sai che notizia. La Grande Armée di Napoleone, quasi 700.000 soldati, che attraversa il fiume Niemen…

Inoltre, è stato discusso il rafforzamento della sicurezza energetica attraverso l’aumento delle esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti verso l’Italia. Libbra di carne per Trump.

Infine è stata accontentata la scalpitante Giorgia Meloni riconosciuta come mediatrice efficace tra Stati Uniti e Unione Europea. Anche la Meloni come Salvini ha il suo “ponte”…

In sintesi, l’incontro non ha segnato alcun passo avanti nelle relazioni transatlantiche, ma ha solo permesso l’autopromozione meloniana.

E qui torniamo alla domanda iniziale. In termini concreti di scambio, minaccia, decisione, l’Italia non è altro che una media potenza, priva di qualsiasi deterrente militare, che vive di moda e di turismo, senza una vera industria (auto e acciai speciali sono andati da un pezzo…), con un sistema di imprese medio-piccole che esportano armi, pezzi di ricambio, piastrelle, parmigiano, tappi, lacci per scarpe.

Chi possiamo minacciare? A chi possiamo promettere qualcosa in cambio di qualcos’altro? A chi può importare delle nostre decisioni? A nessuno.

La preminenza di Giorgia Meloni, nella strategia trumpiana, è dovuta alla diabolica idea del magnate di usare l’Italia come Cavallo di Troia per dividere l’Europa. Tutto qui. Quanto alla Von der Leyen, sopporta, perché portando la Meloni dalla sua parte (così spera), contrasterebbe il progetto divisivo trumpiano. Tutto qui.

Quel che deve essere chiaro è che non è l’Italia a menar la danza, ma Stati Uniti e Unione Europea. Si usa l’Italia, non ci si fa usare dall’Italia.

E Giorgia Meloni, che non è stupida, cioè sa di essere usata, sta al gioco. Per poter così utilizzare i suoi presunti “successi”, come quello di ieri, in chiave propagandistica, per rafforzarsi all’interno e primeggiare contro la sinistra al Muppet Show della politica italiana. Tutto qui.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.dire.it/18-05-2025/1150798-video-meloni-ponte-tra-europa-e-usa-a-roma-il-trilaterale-con-vance-e-von-der-leyen/. E qui: https://www.governo.it/it/articolo/incontro-trilaterale-meloni-von-der-leyen-vance-palazzo-chigi-il-commento-alla-stampa-del .

domenica 18 maggio 2025

Da Garibaldi a Gualtieri. Roma e il turismo religioso

 


Garibaldi era un personaggio pittoresco. Eletto a furor di popolo, si presentò alla Camera in poncho. E forse con due pistole americane sotto. 

Non voleva più vedere un  solo prete a Roma. Voleva cacciare via il Papa. Era anticlericale. Come quei romani  del  dopo Porta Pia che a Carnevale organizzavano pseudo processioni con finti cardinali rubizzi, donnine scollacciate, fratacchioni inclini al bere, eccetera, eccetera. Pio IX da morto, rischiò di finire nel Tevere, bara compresa.

A Roma senza il Papa è dedicato un bel romanzo del suicida Morselli (che il Papa porti sfiga?).

Garibaldi non aveva del tutto torto. La Bastiglia venne demolita perché simbolo dell’Antico regime. Certo il Colonnato e annessa Basilica di San Pietro (per non parlare delle trecento chiese consacrate di Roma entro le mura, altrimenti sarebbero novecento) erano e sono altra cosa, anche per il valore artistico.

Del resto non ci si poteva e può comportare come gli anarchici spagnoli nel 1936, che senza saperlo videro le cose, più o meno, come Garibaldi. Diciamo che passarono all’atto. E non fu una bella pagina.

La Roma del Generale, quella repubblicana, laica, incendiaria, di sinistra, con ancora nel cuore le gloriose giornate del 1849, voleva giustizia. Invece i  notabili liberali oscillavano tra l’anticlericalismo (Crispi) e l’indifferenza (Giolitti). In seguito con il fascismo, che confidava nella Chiesa come strumento di controllo sociale, e con la Repubblica democristiana, che ambiva più o meno alla stessa cosa, i preti tornarono a galla.

A Roma, in comune, dagli anni Settanta con i comunisti (altra Chiesa), prima vicini poi al potere, la Repubblica romana II, divenne conciliare.

Con la sinistra post comunista, annacquata, le cose sono andate addirittura peggio.

Oggi Gualtieri è un cardinale aggregato di Santa Madre Chiesa. Gestisce le cose per il Papa. Una specie di Camerlengo. Che, colmo dei colmi, ha fatto restaurare il monumento al Gianicolo di Garibaldi.

Che faccia tosta! Se la statua equestre del Generale, come una specie di Golem garibaldino, si fosse improvvisamente animata, avrebbe inseguito il Sindaco giù per le scarpate del Gianicolo.

Da fuori non ci si può rendere conto di quel che è diventata Roma, aggredita da milioni di pellegrini. Una Lourdes moltiplicata per 3 milioni di abitanti. Si parla per l’intero Giubileo di 35 milioni di pellegrini. Ma la cifra potrebbe essere superata. 

Neppure la periferia si salva. Con alberghi e parrocchie trasformate in pensioni. Non si circola più né sopra né sotto. Prezzi alle stelle. Con Gualtieri benedicente più del Papa. E nel frattempo è morto  un Papa e se n'è fatto un altro. Cose che capitano.

Passerà? Non sappiamo. È da Papa Giovanni Paolo II che la città piano piano si è trasformata in una gigantesca cuccagna turistico-religiosa. I cattolici nel mondo sono 1 miliardo e quattocentomila. Prima del Covid approdavano a Roma 10 milioni di turisti all’anno, 5-6 milioni di tipo religioso (*).

Ci si chiederà: ma come Gambescia, che è un fanatico della società aperta, ora che fa? Se la prende con i turisti? E poi la voce turismo è troppo economicamente importante per l’Italia e per Roma. Giustissimo.

Però se si fosse ascoltato Garibaldi, evitando magari gli eccessi degli anarchici spagnoli, oggi avremmo lo stesso il turismo, da società aperta, senza il massacro sociologico del turismo religioso.

Un giusto compromesso diciamo. E invece… 

Carlo Gambescia

(*) Qui per un informazione generale,attendibile e aggiornata: https://www.bancaditalia.it/statistiche/tematiche/rapporti-estero/turismo-internazionale/tavole/index.html?dotcache=refresh .