mercoledì 30 maggio 2012

Anche dai terremoti si può imparare...



Due brevi notazioni.
Prima riflessione. Il sisma in Emilia, il secondo in pochi giorni, ha provocato il crollo di  numerosi  capannoni e campanili. Sotto le macerie sono  morti alcuni generosi operai e dirigenti  tornati al lavoro.  Ma è anche scomparso un parroco, altrettanto coraggioso,   mentre tentava di  recuperare una Madonnina. Quale simbolo migliore  di quella Bassa, operosa, religiosa e solidale,  immortalata dal grande Giovanni Guareschi,  il padre  di Don Camillo e del sindaco comunista Peppone?  Una bella Italia che non si piange addosso e che onora la Repubblica.
Seconda riflessione. Si parla di  sospendere la parata militare del  2 Giugno per destinare i fondi ai terremotati... Che bella trovata!   Che c’entra la parata militare con il terremoto?  Mica siamo repubblicani per caso? Se esiste  una tradizione,  quella della sfilata del 2 Giugno, con  le  Tre Armi  a simbolizzare la  Resistenza  armata (non "infiorata")  e l’Unità Repubblicana,  va rispettata a prescindere dalle questioni economiche o contigenti (anche tristemente contingenti...).  Altrimenti che tradizione  è? A intermittenza ideologica?  Anche questo   è un simbolo, però negativo, della disunione italiana.  Immortalato  da Ernesto Galli della Loggia in un notevole saggio storico: La Morte della patria . Un brutta Italia piagnona che, per dirla fuori dai denti,  disonora la Repubblica.
Concludendo, anche dai terremoti si può imparare...

Copyright © 2012 by Carlo Gambescia 

martedì 29 maggio 2012


 Oggi pubblichiamo la  "provocazione"  di Carlo Pompei (*), augurandogli però di non subire la stessa  sorte di Orfeo:  ucciso in modo orribile dalle Baccanti, offese dal suo rifiuto. E per una semplice ragione: la frenesia, non sempre estatica, delle Menadi moderne,  spesso poco sex ma molto  city,  criticate da Pompei,  può non conoscere limiti.  Di qui,  il rischio che possano piovere femminili cazzotti. Comunque sia,   buona lettura. Ovviamente, dopo aver indossato  il regolamentare caschetto protettivo, usato dai pugili non professionisti,  perché l'antifemminismo e il femminismo (due  forme di eccesso uguali e contrarie), sono "professioni" (di fede) pericolose. Considerato anche  quel che accadde al povero Orfeo che di donna ne  volle amare, e ostinatamente,  una sola. (C.G.)



Come vivere, o forse sopravvivere,  nella sempiterna guerra dei sessi
Siamo tutti eroi
di Carlo Pompei



L’ultimo secolo ha visto lo svolgersi di rivoluzioni industriali, civili e politiche. Tutte hanno avuto un denominatore comune: lo status sociale e per questo motivo sono strettamente interconnesse. Qui, però, non vogliamo parlare di “massimi sistemi”, ma di “micro-sistemi”, come ad esempio la Famiglia, mattone fondamentale per la costituzione della società volta a riprodursi, prima ancora che a produrre. Analizzando i comportamenti delle persone travolte dalle rivoluzioni predette, azzardiamo un’ipotesi che, purtroppo, trova riscontro nel modo di vivere (o di sopravvivere) oggi.
Per un uomo  è assolutamente normale uscire di casa per recarsi al lavoro; per una donna la stessa cosa diviene un atto “eroico”, oggi tristemente necessario per aiutare nel bilancio familiare.
Per una femmina è (era?) normale accudire la casa e la famiglia; per un maschio era (ed è) “eroico” cucinare e lavare i piatti una volta all’anno.
Tutto questo ha portato a sovvertire equilibri che duravano da secoli e ha svilito la figura dell’uomo classicamente intesa; inoltre ha fatto divenire la donna una specie di virago con inclinazione a comportamenti da mantide religiosa. Anche per questo motivo, probabilmente, i suicidi sono molto più diffusi tra gli uomini. Sembra un ragionamento sessista volto a recludere la donna tra le mura domestiche, ma non è così: la donna vuole trovare una situazione di tranquillità casalinga, dove diventare madre e nonna, ma al tempo stesso, stando a quanto recita una sorta di detto popolare, “Una moglie cercherà fuori quel che non trova in casa”. Sintetizzando: un uomo pensa che “si fa quel che si può” fare e ciò è limitante, ma prudente; una donna pensa che “si fa quel che si deve” fare in funzione di convincimenti non sempre condivisibili. Infatti non entriamo in quelle che si definiscono priorità dell’uno o dell’altra, poiché ci perderemmo nelle istanze variegate di uomini e donne di tutti i tempi e di tutte le latitudini.
In alcune zone geografiche alle donne non importa che l’uomo abbia relazioni extraconiugali, l’importante è, invece, che torni a casa per portare sostentamento alla famiglia (moglie e figli), mentre il tradimento femminile rappresenta ancora un’onta da lavare e un disonore. Questi sono casi da non prendere a modello, ma forse dovremmo trovare un sano compromesso.
In un film inglese di recente uscita - “Histeria” - folle e al tempo stesso gustosissimo, si affronta il tema dell’isteria femminile, un tempo categorizzata come vera e propria malattia da curare. La “cura” fu individuata nell’invenzione del primo “sex-toys”: uno stimolatore vibrante, volgarmente definito “vibratore”. Prima che vi fosse una diffusione commerciale dell’oggetto, questa pratica veniva svolta all’interno di “studi medici” dedicati e non si trattava di auto-erotismo (ci siamo capiti, no?). È divertente citare una celebre battuta al proposito: «Sono sempre stato ritardato, quando da piccolo si giocava al “dottore”, io facevo l’oculista».
Tornando seri, possiamo affermare che un equilibrio familiare è sicuramente raggiungibile soltanto tra persone responsabili che sappiano gestire la propria relazione e la propria situazione economica, ma per farlo hanno bisogno di una società che permetta loro di godere dei benefici minimi: un lavoro correttamente retribuito e con un orario che consenta la presenza in una casa di proprietà dignitosa (esente da tasse) e un potere di acquisto adeguato sui beni di prima necessità. Non sembra affatto la realtà odierna italiana.
La parità dei sessi è, quindi, una stupidaggine grossolana, se siamo diversi c’è un motivo.
Siamo al paradosso: giunti all’apice della civilizzazione, dovremmo re-imparare dagli animali.

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

lunedì 28 maggio 2012

La carte rubate al Papa 

Se duemila anni vi sembran pochi…




Qualche sera fa abbiamo sentito l’ineffabile Vito Mancuso,  teologo molto di moda,uscirsene, davanti a un compiaciuto Corrado Augias (praticamente, come un gattone, si leccava i baffi…), più o meno così:  «Duemila anni di vita della Chiesa Cattolica! Ma che vuole che sia  davanti alla comparsa dell’ homo sapiens cinquecentomila anni fa!».
Ora, a parte che gli studiosi della preistoria  parlano di duecentomila anni, va ricordato che duemila anni, rispetto ai cinque-seimila di sviluppo delle civiltà  storiche  non sono pochi.  Anche se - precisiamo - non si tratta di questione di sole cifre, ma di “qualità”, spesso tragica,  dell’esperienza storica. Facciamo solo un esempio.
In questi giorni si legge di una  Chiesa “messa nell’angolo”  a causa  degli scandali, delle lotte di potere, delle spie,  eccetera.  Sembra quasi si  voglia  dare,  e  a tutti i costi,   l’idea,  in particolare sulla stampa laicista, di una Chiesa sull’orlo dell’abisso.  Per dirla più volgarmente: quasi  "cotta", sul  punto di chiudere i battenti.
E qui viene fuori tutta l’importanza dei duemila anni di storia.  E delle crisi tremende - altro che i furti di documenti… - che la Chiesa ha dovuto affrontare. Un piccolo esempio? Subito.  
29 agosto 1799. Il papa Pio VI, deposto dalle truppe francesi entrate in Roma nel febbraio dell’anno precedente,  muore  in esilio  a Valenza, dopo quaranta giorni di agonia.  Dove, ultima tappa di un  drammatico cammino (Parma, Torino, Briançon), si trovava, trasferito, su ordine del Direttorio.
Più crisi di così... Perciò, molti, e non solo tra gli illuministi, ebbero l’impressione, come scrive lo storico Raffaele Belvederi, « che Pio VI fosse l’ultimo Papa della Chiesa Cattolica (…). Si pensi - prosegue lo studioso -  che due cardinali (Antici e Altieri) gettarono via la porpora cardinalizia, persuasi che non c’era più nulla da fare». Pietro Verri, cervello per altri aspetti acuto, scrisse addirittura che « la decadenza rovinosa del papato sarà un’epoca nella storia del nostro secolo. Il destino di ogni cosa è d’avere il suo periodo, e conseguentemente doveva pure questa potenza annientarsi come il califfato, o come lo stesso impero romano» (R. Belvederi. I papi nella storia, a cura di P. Paschini e V. Monachino, Coletti Editore 1961, vol. II, p. 818).
Concludendo, la Chiesa in duemila anni di storia - che quindi non sono pochi - ha passato momenti decisamente peggiori,  altro che due carte rubate… Superandoli. E bene.
  Carlo Gambescia 

venerdì 25 maggio 2012

Mafia-romanzo e mafia-crimine




Oggi desideriamo suggerire una chiave interpretativa diversa. Niente di definitivo, solo un piccolo spunto - tra i tanti - per fornire  una  “lettura”, probabilmente non proprio ortodossa di   un fenomeno del resto complesso come la mafia.
Ci spieghiamo subito. La mafia, non è soltanto un fenomeno criminale  è “anche”  metafora di un certo modo, diciamo letterario, di  interpretare  la realtà.  Esiste la mafia, per l' appunto,  come  organizzazione criminale che viene combattuta  con l’armamentario legale e sociologico dello stato e della società civile (leggi penali, polizia, magistratura, campagne mediatiche,  manifestazioni, associazioni). Esiste però anche  la mafia - per sintetizzare -  come romanzo, in genere  frutto di teorie cospirative (le più diverse), intorno al fenomeno organizzativo reale  (articoli, inchieste giornalistiche,  libri, film, eccetera).
Ora, quando si parla di mafia, come accade in questi giorni tristemente commemorativi, i due approcci si mescolano e il romanzo intorno alla mafia, spesso con finalità legate alla lotta politica, finisce per aver la meglio.
E cosa succede? Che la mafia-romanzo si sostituisce alla mafia- organizzazione criminale o più brevemente alla mafia-crimine.  E così,  come in ogni buona teoria cospirativa,  la fantasia    finisce per divorare la realtà. E in che modo?  Scorgendo ovunque tracce di “mafiosità”. Tuttavia  - per semplificare -   se tutti sono mafiosi, perfino il droghiere che rubacchia sul peso, nessuno è mafioso.   Si precipita insomma nell’indeterminato… Nella spirale del  né vero né falso… L’enunciato mafia  rischia l' inverificabilità.
Certo, è doveroso combattere il delittuoso  silenzio dei "conniventi",  ma non  crediamo giusto   contrastarlo, commettendo l'errore opposto: quello di sostituire al silenzio   il frastuono mediatico sulla "fanta-mafia", se ci si passa l'espressione.   Magari facendo la fortuna, per fare solo un piccolo esempio,  di giornalisti, registi e sceneggiatori. Ma anche  di coloro -   i veri mafiosi -    che nelle torbide acque  della  mafia-romanzo possono nascondersi e sguazzare meglio. E qui si pensi all'ambiguo ruolo giocato dai pentiti  non solo nelle sedi  giudiziarie, ma soprattutto  in "letteratura"... 
Il che non può  giovare alla lotta contro la  mafia-crimine.  
Carlo Gambescia 

giovedì 24 maggio 2012

Oggi lasciamo la  parola a Saro Freni (*).  Sarà lui ad occuparsi, e molto bene, del libro della settimana. Diciamo subito  che   si tratta del “ripescaggio” di un notevole saggio,  che risale al 2004,  scritto dal sociologo francese Raymond Boudon.
Piccola chiosa sociologica: gli anni Sessanta, periodo in cui la sociologia, come spiega Boudon, cede il passo alle mode ideologiche e alla faciloneria metodologica, sono gli stessi anni,  purtroppo, in cui la sociologia conquista  le facoltà universitarie italiane: viene “istituzionalizzata”, per dirla tecnicamente, producendo,   anche da noi,  «risultati indigesti e insalubri»… Colpa della sociologia? No. Ma di certi sociologi, per citare ancora Freni (e Boudon), «indifferenti alla realtà fattuale ed empirica, e ipersensibili alle sirene dei rivoluzionarismi e delle avanguardie». Naturalmente, anche lo scientismo sociologico va  guardato con sospetto. Si veda in argomento il classico  libro di Pitirim A. Sorokin, Fads and Foibles in Modern  Sociology and Related Sciences  (1956).  Insomma, ogni buon sociologo, soprattutto se  liberale,  deve cercare sempre di collocarsi “metodologicamente” al centro, evitando le opzioni estreme: scientismo e rivoluzionarismo. Buona lettura. (C.G.)




Il libro della settimana: Raymond Boudon, Perché gli intellettuali non amano il liberalismo, Rubbettino, pp. 136, euro 14,00.  

Raymond Boudon riesce a riassumere in sé alcune qualità che lo rendono encomiabile agli occhi di chi scrive. E' un liberale a cui la sorte ha riservato un destino curioso: lo ha fatto nascere in Francia, nazione in cui il liberalismo è considerato una brutta malattia, e gli ha assegnato il mestiere – difficile da esercitare per un liberale – di sociologo, rendendolo straniero in patria e, si suppone, soprattutto in dipartimento.
In un libro notevole, ancorché piccino e divulgativo, il nostro si pone la domanda delle cento pistole, che fornisce anche il titolo al testo: Perché gli intellettuali non amano il liberalismo?
Già, perché?
Perché, in altri termini, una dottrina tanto illustre e benemerita, in fin dei conti vittoriosa sul terreno della prassi, riceve un'accoglienza così fredda presso le élites culturali? Perché le scienze sociali, da alcuni decenni, sembrano essere diventate terreno di caccia per i peggiori ideologismi, le fesserie più alla moda, le metodologie più discrezionali?
Il libro contiene tante risposte, e non è il caso di riportarle tutte. Mi limiterò a citare gli spunti che mi sono parsi più azzeccati.
Alla base di tutto c'è, a suo giudizio, un imbarazzante declino della cultura. Se, fino agli anni '60, le scienze sociali – Boudon si riferisce, in particolare, alla sua materia: la sociologia – erano orientate ad un costante rigore di metodo e ad un'ammirevole serietà d'intenti, la massificazione delle università e il cedimento alla vanità intellettuale ha reso i suoi colleghi dei dottrinari pasticcioni, indifferenti alla realtà fattuale ed empirica, e ipersensibili alle sirene dei rivoluzionarismi e delle avanguardie. Questo avrebbe prodotto un minestrone antiscientifico in cui scienza e opinione vengono cotte assieme, producendo risultati indigesti e insalubri. Weber e Durkheim, spiega, erano gente seria, agganciata al reale; e hanno prodotto vere conquiste di conoscenza. Viceversa, e con le dovute eccezioni, i loro epigoni si sono lasciati andare. Hanno abbandonato le idee vere – dice paretianamente Boudon – per abbracciare quelle utili.
Così, eccitati dalle loro stesse parole, i nuovi maître à penser hanno iniziato a predicare il rovesciamento del sistema, condannando senz'appello la miserabile realtà quotidiana, frutto della pratica capitalista e della presunta egemonia liberale. Affascinati da ideologie che promettono tutto e subito, hanno preso a spiegare problemi complessi con semplicismi dietrologici rivestiti di erudizione. Laddove il pensiero liberale procede a passi misurati, analizzando i problemi nella loro dimensione parziale e circoscritta, il marxismo e i suoi derivati tirano fuori dal cilindro spiegazioni onnicomprensive quanto fallaci e affascinati quanto approssimative.
Le scienze dure, sostiene Boudon, hanno resistito meglio a questa sarabanda. Lì, la massificazione ha fatto meno danni. Per quanto riguarda il resto, si è assistito ad un'ubriacatura di presunzione e di illusionismi, di conformismo e di malafede.
D'altra parte, il ruolo dell'intellettuale, in una società aperta è quanto mai controverso. Può vantare una libertà che non gli è garantita da nessun altro regime politico, ma spesso sembra farne uso con moderazione, preferendo aggregarsi al branco più cospicuo e feroce. Forse, gli intellettuali non amano né il liberalismo né il capitalismo perché percepiscono, a torto o a ragione, che il loro ruolo non è tenuto in grande onore, o almeno non quanto vorrebbero. Si sentono superflui, in una società siffatta, e perciò tendono a preferire un sistema pianificato, una specie di utopia platonica che riservi loro uno status di privilegio. Nella società aperta devono fare i conti con il mercato, che spesso li vede soccombere, devono sgomitare per conquistare un posto al sole nella gerarchia sociale. In una società burocratizzata, invece, soprattutto lo scienziato sociale è candidato ad assumere i panni del consigliere del Principe – che può essere, gramscianamente, anche il Partito – vagheggiare soluzioni politico-economiche ardite e dar sfogo al suo utopismo.
Alla fine, in ultima analisi, aveva ragione il vecchio Milton Friedman. I più grandi nemici della libertà, diceva, sono gli industriali e gli intellettuali. I primi sono favorevoli alla concorrenza per gli altri, ma al protezionismo per se stessi. I secondi sono favorevoli alla libertà d'espressione per se stessi, ma vogliono imporre la loro volontà al resto del mondo.

Saro Freni

 Saro Freni  è laureato in Scienze Politiche presso l'Università “La Sapienza” di Roma, svolge attualmente, nello stesso ateneo, il dottorato di ricerca in Studi politici. Ha vinto, nel 2010, il primo premio della Scuola di liberalismo di Roma, di cui in seguito è divenuto coordinatore. Collabora con la Fondazione Einaudi. E' membro dell'Istituto di Politica.

mercoledì 23 maggio 2012

Grazie Teodoro! Perché dovremmo tirarti per la giacchetta, come scrivi nella chiusa del tuo post?   Anzi,    ringraziamo pubblicamente l’amico Teodoro Klitsche de la Grange (*) per il magistrale articolo.   Perché ci spiega come in Italia, rendendo costoso e lento l’apparato giudiziario, si sia  in realtà costruita una  giustizia di classe.  E per giunta senza che se ne accorgesse, come si legge,   « chi classe ed eguaglianza le ha sempre in bocca »...  Detto altrimenti:    gli apprendisti stregoni della sinistra, da sempre pronti a invocare le due parole magiche.  Buona lettura. (C.G.)



Giustizia di classe
di Teodoro Klitsche de la Grange




A leggere quasi tutti i libri di giuristi che parlino ad un tempo di Stato e di diritto, si può notare che, secondo gli autori, funzione essenziale dello Stato sia di fare osservare il diritto, e per questo di istituire Tribunali. Si va dal “ne cives ad arma ruant” dei romani alla Diké di Hauriou: dare, organizzare, obbligare a servirsi della giustizia è una necessità ineludibile per evitare che i cittadini (o i sudditi) se la facciano da soli, in un bricolage giudiziario che va dalla faida al duello (e così via). A conferma di ciò citiamo quel che ne pensava un mostro sacro del diritto pubblico (e della politica) come Vittorio Emanuele Orlando “Abbiamo stabilito come fine essenziale dello Stato l’attuazione, in senso larghissimo, del Diritto nella convivenza sociale... quella coazione esterna, senza cui non esiste alcuna norma giuridica, non può esistere che in seno allo Stato”.
Si può osservare che i giuristi in genere enfatizzano questa funzione: accanto e sopra la quale c’è quella, essenzialmente politica (e non giuridica) della protezione della comunità (in – e con – la pace o la guerra), di cui quella “giuridica” è una conseguenza, variamente (anche se costantemente) disciplinata.
Questo fino a qualche lustro fa: onde la poco efficiente giustizia italiana, anche se tale, costava poco (e spesso niente), proprio perché l’accesso alla giustizia “funzione essenziale e necessaria” non poteva essere limitato da oneri pesanti.
Da allora qualcuno al Ministero della Giustizia fece una bella pensata: e se per risolvere il problema (principale) della giustizia (civile e amministrativa) e cioè l’eccessivo numero di cause rispetto alle decisioni delle medesime, non aumentassimo queste ultime, ma riducessimo le prime? E quale miglior sistema (a parte conciliazioni, mediazioni, arbitrati, perenzioni) che creare una giustizia sempre più costosa, di guisa da scoraggiare le liti, specie dei meno abbienti (alla faccia del principio d’eguaglianza)?
Detto, fatto: fu inventato il “contributo unificato” un meccanismo che, a seconda del “valore” e del tipo della lite e dell’ufficio giudiziario, dev’essere pagato dal litigante che inizia il processo.
La pensata ha avuto un crescente successo:  da qualche anno è tutto un aumentare il contributo unificato (e gli obbligati a questa tassa): quanto ai contribuenti (anche i litiganti che provino a proporre una domanda in proprio in causa iniziata da altri) alla quantità delle doglianze (l’estensione ai “motivi aggiunti”) all’abolizione di “fasce” esenti (il processo del lavoro), al tipo di processi. Ad esempio per far iscrivere un ricorso in materia di gare pubbliche, Pantalone esige ben 4.000,00 euro sull’unghia. E l’ultimo aumento (del 50%) è di quest’inverno (il precedente dell’anno scorso).
Il tutto poi, mentre aumentano esponenzialmente le somme che Pantalone paga per la durata eccessiva dei processi; malgrado anche qui, qualche solerte pensatore abbia pensato prudentemente di rallentare al massimo il pagamento degli indennizzi, rendendo impignorabili quasi tutte le entrate del Ministero della Giustizia, cioè il maggior debitore di tali somme. E così tra quattrini incassati immediatamente e risarcimenti pagati alle calende greche, la macchina ansimante della giustizia procede rendendo servizi sempre meno appetibili a costi obbligatoriamente crescenti (per gli utenti-contribuenti).
Questo pone un paio di riflessioni di carattere generale.
La prima: oltre un secolo fa i giuristi tedeschi paragonavano il loro sistema giudiziario con quello inglese, notando che il primo era facilmente accessibile a tutti ed efficiente, mentre quello inglese costoso e lento. Il che la rendeva una “giustizia di classe” a disposizione solo di ricchi e potenti. È curioso che durante e dopo tutto questo tassare nessuno (specie chi classe ed eguaglianza le ha sempre in bocca) si sia accorto che si stava (e sta) costruendo anche in Italia una “giustizia di classe” ad accesso differenziato: agevole per chi ha i soldi e può aspettare e molto meno per chi ne ha pochi ed ha fretta.
La seconda: imperversa lo strabismo economico, non tanto quello della public choice o alla Puviani o alla Pareto, cioè del calcolo economico dei costi della politica e della burocrazia, ma un altro, più terra terra, che vorrebbe misurare secondo parametri economici tutti i servizi, indipendentemente dal loro carattere e funzione. Mi spiego: se lo Stato decide di fare una caserma dei carabinieri, è del tutto corretto che il costo dell’edificio sia valutato in base al costo in genere delle costruzioni; ma se si pretende di misurare il “rendimento” della caserma, il calcolo diventa di fatto estremamente difficile, altamente opinabile, e al limite impossibile. Perché se si vuole valutarlo in base al numero delle pratiche “sbrigate” (cioè di indagini su denunzie, querele, rapporti, referti), il parametro è, a dir poco, parziale. Questo perché l’effetto della presenza della caserma è, di solito, di fare ridurre i reati (e le conseguenti denunzie), per l’intensificarsi della prevenzione e il timore di una repressione più pronta ed efficace. Tutt’al contrario di un criterio “a pezzi lavorati” è la riduzione di questi che può essere l’indice più realistico del risultato ottenuto. Cioè la tutela del bene-sicurezza.
E si può sostenere, al contrario di quanto molti pensino, che la riduzione del ricorso alla giustizia potrebbe derivare non da certi espedienti da Arpagone, ma dal miglioramento dell’efficienza e dell’accessibilità della stessa: perché una decisione, pronta ed equa, su un diritto è il maggior deterrente per chi ha torto.
E si potrebbe andare avanti ancora, ma il direttore già mi tira per la giacchetta, e rimando i lettori, per altre riflessioni, ad un prossimo articolo.

Teodoro Klitsche de la Grange



Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/   ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

martedì 22 maggio 2012



Abbiamo ricevuto il post di Carlo Pompei  prima che i Grillini conquistassero Parma. Pompei, seguendo il suo "metodo",  pone alcuni problemi generali di politica applicata:  "seziona", da più punti di vista,   questioni concrete fornendo prospettive originali,  come ad esempio sull’editoria finanziata con denari pubblici,  avversata da Grillo. Ovviamente,  Federico Pizzarotti (nella foto con Grillo), nuovo sindaco di Parma  targato Movimento Cinque Stelle, dovrà occuparsi di questioni locali.  Sarà però interessante scoprire come se la caverà . Sarà capace di andare oltre gli slogan “antipartitici”, come li definisce Pompei? Difficile dire. Buona lettura. (C.G.)





 Finanziamenti ai partiti e ingenui abbagli a “Cinque Stelle”
Prove tecniche di grillismo
di Carlo Pompei




La volata involontaria tirata a Grillo e al suo “Cinque stelle” dai partiti oramai “stagionati” ci fa riflettere su che cosa possa significare oggi politica e antipolitica. Innanzitutto bisognerebbe parlare di insorgenza (quasi insurrezione) antipartitica più che di antipolitica, sempre che politica significhi ancora ricevere mandato dal Popolo per amministrare e curare gli interessi di tutti. Stabilito ciò, soffermiamoci per un attimo sul funzionamento di un sistema politico e dei soldi che girano al suo interno.
Rimborsi o finanziamenti? Il punto nodale della discussione va dipanato - o almeno dovrebbe - da qui.
Rimborso: un candidato (o il partito) spende soldi per farsi pubblicità in campagna elettorale e per esporre il proprio programma. In funzione degli eletti e degli elettori dovrà percepire un rimborso (reale e non gonfiato) di quanto speso, non per farne quel che vuole, ma per fare gli interessi di chi lo ha preferito ad un altro candidato e/o partito. La politica non è un mestiere: è una missione, è bene ricordarlo.
Finanziamento: è una regola che nasce da un vizio sia formale che sostanziale, il partito percepisce fondi pubblici per evitare che lobbies di potere economico possano influenzarne l’operato all’interno del Parlamento, cioè favorire alcuni al posto di altri con leggi ad personam. Ci chiediamo se, con queste premesse, sia il caso di continuare a cercare di far funzionare un sistema marcio in partenza che presuppone una disonestà intellettuale (e non solo) di coloro i quali dovrebbero essere d’esempio per tutti. Come possiamo pensare che un singolo onesto cittadino possa sentirsi rappresentato da un parlamentare mercenario? Ricordate alcuni degli ex DC e PSI della Prima repubblica durante le udienze di Tangentopoli? Dichiarazioni agli atti: “Rubavano tutti, pensavo fosse lecito”. Bah… Dichiarazioni che somigliano molto a quelle relative a fantomatiche entità che pagano mutui per interposta persona.
In tutto questo vi è anche il finanziamento all’editoria di partito, che è - in parte - l’escamotage per far confluire altri soldi nelle casse dei partiti veri o presunti e per consentire la pubblicazione di una gran quantità di giornali (a volte inesistenti o quasi). Per contro va detto che i giornali veri creano posti di lavoro (giornalisti, poligrafici, impiegati, addetti alle pulizie, etc.) e generano movimenti di denaro dei quali beneficiano i gestori dei servizi centrali o periferici (tipografia, distribuzione, agenzie di stampa, fotografiche, infografiche, service editoriali, fornitori di servizi, etc.) e non ultimi i gestori di attività nei dintorni della redazione (edicole, negozi, bar, ristoranti, etc.). Non tenere conto dell’indotto di una attività, seppur finanziata, significa non comprenderne l’importanza sul territorio, oppure si è in malafede. Brunetta ha recluso i ministeriali obbligandoli a portarsi il pranzo da casa ed eliminando le pause caffè (come se il problema fosse la pausa e non il resto della giornata). Risultato? Paradossale, ma economicamente rilevante: bar e ristoranti hanno dimezzato il fatturato. Contro-risultato? Controlli dell’Agenzia delle Entrate (bel nome, veramente) per presunta evasione fiscale derivata dagli studi di settore sulle attività (informazioni raccolte sul campo). Bisogna smetterla di ragionare da ragionieri (scusate il gioco di parole) calcolatrice alla mano.
Al proposito, Beppe Grillo, ancora lui, si scaglia con veemenza contro l’editoria finanziata, salvo poi farsi pagare per i suoi spettacoli. Dirà: “Ma io non percepisco soldi pubblici e comunque sia ho le maestranze da remunerare”. D’accordo, ma un giornale, qualunque sia la fonte di finanziamento, non deve comunque pagare le maestranze? In proporzione l’editoria finanziata in Italia costa 2 euro pro-capite l’anno, non è una somma spaventosa confrontata con altri sprechi in altri campi: si pensi alla Sanità per la quale vengono pagate tasse su tasse, ma quando abbiamo bisogno di assistenza che non sia di pronto soccorso ci troviamo di fronte al solito bivio: pagare extra o attendere mesi per una prestazione di livello spesso insufficiente o inutile se il paziente nel frattempo è morto.
Bisogna controllare i flussi di denaro, non chiuderli: l’esercente populista che chiede la testa di un giornale si trova a perdere migliaia di euro in un anno a fronte di un “investimento” di soli due. Una sorta di superenalotto garantito. Direte: ma non tutti ne beneficiano. Vero, ma nella summa totale il bilancio non è affatto passivo: la moneta che circola e i giornali seri (il Quarto potere, dopo quello Legislativo, Giudiziario ed Esecutivo dello Stato) sono una ricchezza per tutti. Inoltre, una nazione senza informazione libera e plurale è predisposta alle dittature.
A questo punto si potrebbe obiettare che un giornale che percepisce contributi statali possa essere manipolato e, quindi, di non godere di libertà di espressione. In parte ora è vero, ma se il controllo sarà democratico, sarà il Popolo a decretarne le sorti, non i politicanti. La legge sui finanziamenti all’editoria potrebbe essere facilmente modificata non obbligando i giornali a presentare bilanci raddoppiati per ottenere la metà dei soldi spesi: trasparenza e controllo, ancora una volta, rappresentano la soluzione. Successivamente, la verifica delle vendite potrebbe decretare la sospensione o la riduzione del finanziamento. In Italia abbiamo il paradosso rappresentato dal fatto che chi vende (e guadagna) di più percepisce più soldi. È un fenomeno che è agganciato al rimborso (di nuovo) per la carta utilizzata: pensate a quanta ne occorre per stampare un milione di copie di un giornale grande formato da 32 pagine in confronto a diecimila copie di uno da 8 pagine in formato “tabloid”. Il problema, qui, si sposta sulla pubblicità: molte pagine sono già strapagate dagli inserzionisti, non dovrebbero essere rimborsate, giusto? Discorso a parte meritano i “free-press”, ma lo affronteremo in seguito. Sempre che, nel frattempo, Internet non abbia completato la propria missione digitalizzante.
Abbiamo esposto tutto ciò per chiarire alcuni concetti, vista e ascoltata la cattiva informazione al riguardo, e per trarre la conclusione che, spesso, dietro un presunto patriota alla Grillo si nasconde un pericoloso populista campanilista attento soltanto ai propri interessi di bottega.
Speriamo di sbagliarci, altrimenti finiamo - come da proverbio – dalla padella nella brace.

Carlo Pompei


Post  scriptum.  Per Beppe Grillo: si dice “I partiti si stanno liquefacendo”, non “liquefando”…

Post  scriptum.  Per Piero Fassino: si dice “forza antagonista”, non “antagonistica”...


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

lunedì 21 maggio 2012

Italia
Un tranquillo week end di paura 
tra attentati,  terremoti e fischi allo stadio



Prima l’attentato di Brindisi, poi il terremoto in Emilia: un vero e proprio week end  di paura. E per finire - ciliegina sulla torta - domenica sera allo stadio Olimpico, finale della Tim Cup, che cosa hanno fatto  i tifosi?  Ovviamente, spaparanzati in    tribuna   per godersi l'evento e non in fila per prestare soccorso ai terremotati...  Che cosa hanno fatto? Hanno fischiato l’inno nazionale.
Cosa dire? Innanzitutto che lo “Stellone” italiano, seppure esisteva, è andato in pensione da un pezzo: il terremoto ha colpito una delle aree italiane più produttive. Insomma, piove sul bagnato.
Quanto a Brindisi, va sottolineato, oltre ovviamente alla vigliaccheria e gravità del gesto, come la macchina mediatica e  da guerra dei  professionisti dell’antimafia si sia messa in moto da sola, senza alcuna prova sicura. Inutile ricordare gli sproloqui usciti sui media, in meno di ventiquattro ore.
Dulcis in fundo,  i tifosi dell’Olimpico hanno fischiato l’inno nazionale.  Secondo alcuni  il tifo, quello più violento, rappresenta una specie di antistato:  gente, deprivata culturalmente, che odia a prescindere le istituzioni...   Forse.
Tuttavia,   ieri sera  lo stadio  era pieno di famiglie (padri e figli) e di  tifosi “normali”.  Conclusione:  in Italia persino le calamità dividono. Certo, i politici italiani sono quel che sono. Anche se in giro nel mondo c’è di peggio. E quanto  alla  libertà di pensiero e parola,   esistono nazioni  dove appena si accende il Pc e ci si affaccia sulla Rete,  si viene arrestati.  Ma gli  italiani  hanno   la memoria double face.  Probabilmente, tra qualche anno, rimpiangeranno, anche “questa” classe politica e "questa" Italia dei week end allo stadio, nonostante tutto...   Perché - e dispiace dirlo - “rimpiangere” il passato,  infangando il presente,   è  lo sport nazionale preferito.  Che tristezza.




Carlo Gambescia 

venerdì 18 maggio 2012

Uscire dall’euro? 
Una follia



Fortunatamente, a parte qualche solitario anarco-capitalista e i soliti gruppetti radicali di destra e sinistra, in Italia sono ancora  pochi i fautori dell’uscita dall’euro.
Non siamo economisti, ma non ci vuole molto a capire che, una volta fuori dalla moneta unica, il cambio schizzerebbe a due euro. Tradotto: un euro = quattromila lire… E per una semplice ragione: il rating-contesto, diciamo così,  resterebbe invariato.   
Il risultato potrebbe essere o una deflazione durissima, provocata da politiche di bilancio ancora più rigide per determinare la progressiva rivalutazione della lira nei riguardi dell’euro. Oppure un’inflazione weimariana, alimentata da una sconsiderata emissione di cartamoneta  nel  tentativo di annullare, si fa per dire, i distruttivi effetti interni della svalutazione esterna della lira. In entrambi i casi  con conseguenze inenarrabili per tutte  le principali variabili economiche. Certo, con una valuta debole,  l’Italia potrebbe esportare  di più (ma come  metterla, ad esempio,  con l'alto costo del lavoro italiano, così poco competitivo?).  Oppure   guardarsi intorno  per  puntare sull’ancoraggio ad altre monete, ma alla fin fine - considerate le ridotte dimensioni e le rigidità della nostra economia - sempre nelle vesti di parente povero. E i mercati, si sa, non hanno alcuna pietà per le economie deboli o poco affidabili. Altro che vittoria della sovranità nazionale... Inoltre, a quest'ultimo  proposito,   siamo sicuri   che un leader americano, russo, cinese, ci tratterebbe meglio della Merkel?
L’altra possibilità sarebbe l’autarchia. Ma, ammesso che si riesca a imporla,   per andare dove? Per impoverirci ancora di più e alimentare le rendite di burocrazie parassitarie e monopoli,   tipici  sottoprodotti  di qualsiasi forma di protezionismo economico? E, ripetiamo, per andare dove? Soprattutto in un  mondo diviso in giganteschi blocchi geopolitici…
Perciò è preferibile tenersi  l'euro. Uscirne sarebbe una follia.
  Carlo Gambescia 

giovedì 17 maggio 2012

Il libro della settimana: Carl Schmitt, Dialogo sul potere, a cura e postfazione di Giovanni Gurisatti, Adelphi, Milano 2012, pp. 124, Euro 7,00. 

www.adelphi.it

Che cos’è il potere? Ce lo spiega in poche battute Carl Schmitt.  Un gigante del pensiero politico, spentosi quasi centenario nel 1985, dopo essere passato attraverso le fiamme della fornace novecentesca, le cui  ombre uncinate continuano  ad allungarsi sulla sua opera, offuscandone purtroppo  il valore. Quindi un colosso dai piedi d'argilla?  Così sembra sostenere certa occhiuta critica, più attenta a sezionare nei più microscopici  dettagli i rapporti tra Schmitt e il nazionalsocialismo che a dedicarsi allo studio, libero  da preconcetti ideologici,  della sua teoria pura della politica. Ma lasciamo stare.    

Il libro in questione è Dialogo sul potere (Adelphi). Dove sono raccolti,  in forma di colloquio tra personaggi fittizi ma ben scelti, due testi: il primo,  da cui prende  il titolo al volume;  il secondo che invece porta il nome di “Dialogo sul nuovo spazio”. Il primo è di argomento politico, il secondo geopolitico. Del primo dialogo, per inciso, piace ricordare l' edizione italiana a cura di Antonio Caracciolo, apparsa sulla rivista “Behemoth” nel  1987. Senza ovviamente nulla  togliere all’ ottima versione curata da Giovanni Gurisatti. Va anche segnalato, per capire la motivazione della scelta dialogica, che i due testi vennero ideati nel 1954 per essere recitati e trasmessi, come poi avvenne, alla radio tedesca. E con un discreto successo. Infine, il volume, ospita in appendice il “Prologo” scritto da Schmitt  per la bella edizione spagnola del 1962.
Nel primo dialogo (politico) i protagonisti sono G. ( un giovane studente che pone le domande) e C.S. (un professore, lo stesso Schmitt), nel secondo dialogo (geopolitico), abbiamo un anziano storico, Altmann ( dietro cui si scorge  la straordinaria  cultura storica di Schmitt); un  raziocinante  scienziato cinquantenne, Neumeyer; un giovane ed entusiasta  nordamericano, MacFuture.  Nei due dialoghi, sostanzialmente, si fronteggiano, da un lato la solida visione schmittiana del politico (come poderosa   realtà sociologica super partes ) e del geopolitico (quale gigantesco e vitale  conflitto tra potenze di Terra e di Mare), dall’altro i differenti “ismi” che  affascinano i moderni, rappresentati dal virtuismo del giovane studente (nel primo dialogo), nonché dal supponente scientismo di Neumeyer e dal progressismo cosmico dell'effervescente  MacFuture ( nel secondo dialogo).
Diciamo che Schmitt, pur essendo l'autore dei dialoghi, non ne abusa...  Ha la meglio  grazie alla sua abilità di porre più problemi che risposte. Ma, come accennavamo, ciò che lascia il segno è la stupenda descrizione, degna di un anatomo-patologo (soprattutto nel primo dialogo), del potere. Procediamo per gradi.
Innanzitutto,  secondo Schmitt ( che  parla attraverso  l’anziano professore…), « il potere è una dimensione peculiare e autonoma, anche rispetto al consenso che lo ha creato (…), e anche rispetto allo stesso potente. Il potere ha una dimensione oggettiva e autonoma rispetto a qualsiasi individuo umano che di volta in volta lo detiene» (p. 20). In qualsiasi tipo di regime,  l’uomo politico, anche il più potente,  non può non rinunciare alla parola dei  suoi consiglieri e  stretti sostenitori.  Di qui, tra i suoi uomini di fiducia,  quella   lotta per il potere indiretto,  legata alla possibilità di   influire sulle sue decisioni. Lotta che innesca meccanismi che vanno oltre le normali capacità controllo dello stesso sovrano. Insomma, il « potere è qualcosa di più sia della somma di tutti i singoli consensi che ottiene sia del loro prodotto» (p. 18): una  specie di  fenomeno super partes  che ha trovato, mai come in passato,  un facile terreno di sviluppo  nella  società contemporanea. Dove, secondo Schmitt,   « il potere del singolo potente risulta essere niente più che l’epifenomeno di una situazione derivante da un sistema di divisione del lavoro cresciuta oltre ogni limite» (p. 38). Di conseguenza « ciò che produce tutto questo non è più l’uomo in quanto uomo, bensì una reazione a catena da lui provocata. Nella misura in cui oltrepassa i limiti della physis umana, essa trascende anche qualsiasi dimensione interumana di ogni possibile potere di uomini su uomini. Anche la relazione tra protezione obbedienza ne viene travolta. Assai più della tecnica, è proprio il potere a essere sfuggito di mano agli uomini» (p. 39). Di qui,  la necessità di recuperarlo. Ma come? Forse - come chiede ingenuamente lo studente G. - con ulteriori scoperte scientifiche? Ecco la risposta schmittiana: «Sarebbe un bene. Ma come possono cambiare il fatto che oggi potere e impotenza non si fronteggiano più faccia a faccia, e non si guardano più da uomo a uomo? Le masse umane che si sentono esposte, inermi, agli effetti dei moderni mezzi di distruzione sanno anzitutto di essere impotenti. La realtà del potere è al di sopra della realtà degli uomini. Non dico che il potere di uomini su uomini sia buono. Non dico neanche che sia cattivo. Meno che mai dico che sia neutro. Inoltre, da uomo pensante mi vergognerei di sostenere che il potere è buono se ce l’ho io ed è cattivo se ce l’ha il mio nemico. Dico solo che è una realtà autonoma rispetto a ciascuno, anche rispetto al potente, che il potere irretisce nella propria dialettica. Il potere è più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, anche di ogni umana cattiveria» (p. 41).
Questa visione del potere come poderosa entità sociologica super partes, dotata di forza propria, sulla quale alla fin fine gli uomini nulla possono, sembra però non essere l’ultima parola di Schmitt.  Il quale mostra di non essere poi così desideroso di  inchinarsi, acquiescente,   al cieco e compatto  flusso del reale,  magari  invocando, come un antico saggio, la  sospensione del giudizio. Infatti,   nel secondo dialogo, per bocca dello storico  Altmann,   si apre  uno spiraglio di luce, o  forse più che uno spiraglio: « Mi sembra  (...) - rileva il personaggio in cui Schmitt si immedesima  -  che la tecnica scatenata, più che aprire nuovi spazi all’uomo lo chiuda in gabbia. La tecnica moderna è utile e necessaria, ma ben lungi dall’essere a tutt’oggi la risposta a una chiamata. Essa soddisfa bisogni sempre nuovi, in parte indotti da lei stessa. Per il resto è proprio lei a essere messa in questione, e già per questo non può essere una riposta» . E allora? « MacFuture - prosegue Schmitt-Altmann - , lei diceva prima che la tecnica moderna ha reso risibilmente piccola la nostra terra. Ciò significa che i nuovi spazi da cui proviene la nuova chiamata debbono trovarsi qui sulla nostra terra, e non fuori nel cosmo. Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte. La sottomissione della tecnica scatenata: questo sarebbe, per esempio, l’azione di un Nuovo Ercole! Da questa direzione sento giungere la nuova chiamata la sfida del  presente» (p. 87).
Diciamo che  l’uomo è arrivato sulla Luna ed  è  più  lontano che  mai  dal sottomettere la «tecnica scatenata». Quindi la sfida lanciata da Carl Schmitt, nel secondo dialogo, resta  attuale . Anche se la vera questione di fondo, che va  oltre le  diverse forme di governo, rimane quella da lui impietosamente tratteggiata nel primo dialogo: come afferrare  ed  esercitare il potere senza diventarne le vittime?

 Carlo Gambescia 

mercoledì 16 maggio 2012


La guerra è guerra. E anche le democrazie liberali la "praticano".  Perché nasconderlo?  Perché parlare ipocritamente di “guerre democratiche”? Cediamo la parola all’ amico Teodoro Klitsche de la Grange che ci spiega le ragioni di questa (apparente) contraddizione, ricorrendo  agli "strumenti"  della politica pura, ossia    agli unici mezzi concettuali   capaci di squarciare il velo delle "buone intenzioni" democratiche.   
Buona lettura. (C.G.)



Guerre democratiche? 
Dipende
di Teodoro Klitsche de la Grange




Crediamo che compito di ogni scrittore di cose politiche, soprattutto oggi, sia quello di contestare e demolire gli idola (tribus, fori, specus) che il pensiero unico e i mass media da quello intruppati ci somministrano in quantità del tutto sproporzionata alla consistenza e verosimiglianza dei medesimi. Si pensi, ad esempio, alla diffusione delle guerre democratiche, variamente denominate, per lo più in inglese, rigorosamente evitando il termine “guerra”. Le quali si sono rivelate, per lo più, poco (o punto) utili a realizzare l’obiettivo politico esternato: la protezione dei diritti umani e/o la diffusione della democrazia. Difficili da realizzare in comunità che non hanno la stessa storia (e radici) del mondo occidentale. Non infrequentemente non sono riuscite nemmeno a realizzare l’obiettivo – meno ambizioso – di far cessare i conflitti locali, o, quanto meno, di ridurne gli aspetti e le conseguenze peggiori.
In realtà le guerre “democratiche” sono affette da alcune malformazioni congenite, cioè presenti nel DNA di questo tipo di guerra, come ricavabile dall’esperienza degli ultimi secoli e dai giudizi di tanti pensatori.
Ad esempio: la pratica di far guerra per esportare regimi politici è iniziata – nell’epoca contemporanea – con il decreto La Révellière – Lepeaux, approvato dalla Convenzione francese nell’inverno 1792 (“guerra ai castelli, pace alle capanne”). Il tentativo finì in una serie di guerre partigiane (di “religione” le definì Benedetto Croce) e di regimi di occupazione militare, politicamente satelliti della Francia.
Le buone intenzioni della Francia rivoluzionaria e poi napoleonica avevano il limite di non essere apprezzate dai destinatari di tanto affetto, spesso caduti in battaglia per difendere il loro modo d’esistenza. C’è il sospetto che, se questo si è verificato tra popoli facenti parte tutti della stessa civiltà (o cultura) cristiano-occidentale, a maggior ragione si dovrà ripetere con popoli di tutt’altra cultura. Peraltro, come notava Gaetano Mosca, la caratteristica fondamentale per l’affermazione di un regime politico “moderno” (nel senso di borghese-rappresentativo) è che si fondi sulla convinzione diffusa della separazione tra potere temporale e spirituale. Connotato tipico del cristianesimo, ed ancor più di quello occidentale: mentre è sconosciuto o debolmente fondato in altre culture.
In genere queste guerre hanno un’altra caratteristica, questa in contrasto con il diritto internazionale praticato fino a circa un secolo fa: mentre, a quei tempi, le guerre si concludevano con un trattato di pace, oggi si concludono con un processo (ai vinti, s’intende). Conclusione inutile, se non fosse anche tragica e irrispettosa dei diritti (dei vinti). E non si parla tanto dei diritti “umani” ma del diritto “proprio” del nemico, che consiste in primo luogo a poter essere lecitamente tale, cioè pari in pace e in guerra. Se Kant e Vattel consideravano naturale che la guerra si concludesse con un trattato di pace e che questo comportasse la “clausola d’amnistia” (cioè la rinuncia a giudicare gli ex nemici per i reati commessi nello stato di guerra) ciò era l’applicazione del principio del diritto internazionale che par in parem non habet jurisdictionem; che invece ha il superiore verso l’inferiore.
Processare il nemico è quindi affermare che il Giudice (il vincitore) è il protettore e il vinto è il protetto; al punto che può processare i vinti. Se a farlo poi sono i governanti dei paesi liberati (cioè quelli insediati dal vincitore) la violazione al diritto internazione è solo formalmente sanata, perché il mondo intero è a conoscenza che quei governi sono la longa manus degli occupanti: quindi, sul piano sostanziale, non cambia.
E sempre contraddicendo a quanto un tempo praticato, è diventato normale che si faccia guerra a qualcuno non perché ha violato i diritti o interessi dello Stato aggressore (o dei cittadini dello stesso) ma perché ha violato quelli di altri (meglio se trattasi di “diritti umani”). La prudenza di un teologo-giurista come Francisco Suarez – uno dei “padri” del diritto internazionale moderno – già condannava radicalmente questa prassi (facilissimo a convertirsi in pretesto): “ciò che taluni dicono che i re supremi hanno il potere di reprimere gli illeciti commessi in tutto il globo, è del tutto falso, e viola ogni competenza di poteri ordinati; tale potestà non è stata data da Dio, e non è giustificabile razionalmente”.
Concludendo, dovremmo far tesoro, tutti, anche in politica, di un antico adagio. Quale? Che le vie dell’inferno sono lastricate di “buone intenzioni”: e spesso solo esternate.

Teodoro Klitsche de la Grange

 Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).



martedì 15 maggio 2012

Secondo alcuni le abitudini  pur uccidendo la creatività  salvano la vita,  perché la routine quotidiana allontana i cattivi pensieri. Detto altrimenti:   "fare quello che dobbiamo fare tutti i giorni"   ci aiuta a non pensare troppo.    A dire il vero, secondo Carlo Pompei,  la questione sarebbe  più complessa, come dire,   di civiltà.  Giusto.  D'altronde,  Pompei ha un suo “metodo”: parte da lontano ( e chi scrive ne sa qualcosa...),  per poi arrivare a “destinazione” prima degli altri.  E anche questa è un’ abitudine, un’ottima abitudine… Buona lettura. (C.G.)



Come si misura il grado di civiltà di un Paese

Ci si abitua a tutto
di Carlo Pompei



Ci si abitua a tutto, si dice. Anche perché se non ci fossimo abituati, adattati, trasformati, evoluti o involuti, non staremmo qui a parlarne. Ma ne è valsa la pena?
Quando si viaggia si capiscono molte cose, così come quando si esce semplicemente di casa. Si lascia quella specie di “piccolo mondo” al quale ci siamo appunto abituati e nel quale non ci poniamo troppe domande. Anche perché, spesso, chi si interroga è intelligente, ma anche molto esigente verso se stesso e gli altri e, quindi, quasi mai trova una risposta soddisfacente al proprio quesito. A Roma, infatti, si usa dire: “beato te che non capisci un c…”. La frase si pronuncia nei confronti di quelle persone che vivono la propria vita alla giornata, senza porsi grandi interrogativi.
Torniamo al viaggio. Visitando altri Paesi europei ci si accorge che la cosa privata e la cosa pubblica (Res publica) a volte coincidono. In Norvegia, ad esempio, da turisti italiani si rimane stupefatti dall’assenza totale di recinzioni, grate, porte blindate, sbarre anti-intrusione, etc. Camminando in strada si possono vedere biciclette, ciclomotori e motocicli parcheggiati (bene) senza alcun tipo di antifurto applicato. In Italia rimarrebbero al massimo per qualche minuto nel posto dove le ha lasciate il legittimo proprietario. E l’abitudine, appunto, induce anche persone oneste a pensare che, dove non ci sia un lucchetto a proteggere un bene, quello sia stato abbandonato e chiunque possa impossessarsene, neanche fosse appoggiato ad un cassonetto dell’immondizia. Queste abitudini sono pericolose, poiché fanno perdere il lume della ragione a chiunque. Che cosa vogliamo arrivare a dire? È presto spiegato.
Giornali e telegiornali hanno giustamente dato ampio spazio alle notizie di persone suicidatesi a causa di difficoltà economiche, ora tocca alle Istituzioni fornire spiegazioni. Una delle prime risposte giunte al proposito ci ha lasciato di sasso: “A maggio dello scorso anno le persone decedute a causa di suicidio erano in misura maggiore rispetto a quest’anno”. È stato ridotto tutto ad un fatto statistico, cioè morti come numeri. È la dichiarazione resa dal Premier Monti in conferenza stampa a seguito degli attentati perpetrati ai danni delle agenzie di riscossione Equitalia, la società (privata) che esige denaro (lucrandoci) in nome e per conto dell’Agenzia delle Entrate.
Legittimare vessazioni, così come legittimare atti terroristici è pericoloso in egual misura. Se fossimo un Paese civile ce ne preoccuperemmo. La sua non è una gran risposta, caro Prof. Monti. Dovrebbe sollecitare un po’ più la fantasia di chi le scrive i comunicati da leggere in conferenza stampa. Altrimenti gli attentati aumenteranno, è già successo durante gli “Anni di Piombo”, possibile che si abbia la memoria così a breve termine? Che poi possa essere vero o meno che ci sia sempre pronto qualcuno a strumentalizzare è e rimane un corollario della situazione scatenante e/o giustificante. Non è difficile distinguere la causa dall’effetto, dai!
Bisogna istituire immediatamente un fondo per aiutare le aziende e le persone in difficoltà, anche se non “ce lo chiede l’Europa”, altrimenti ci si abitua a tutto, come dicevamo all’inizio. Anche alla morte. Degli altri.
E non sempre per suicidio…

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

lunedì 14 maggio 2012

Il volantino della Fai
Il "tipo rivoluzionario" 



Il volantino di quattro pagine della Fai (Federazione Anarchica Informale) nucleo “Olga”, dove si rivendica l’attentato al dirigente dell’Ansaldo, Roberto Adinolfi, merita  alcune riflessioni. Chiunque desideri leggerlo, per verificare nei dettagli  quanto ora diremo in generale, può cliccare qui: http://media2.corriere.it/corriere/pdf/2012/olga_110512.pdf    . Attenzione però. La nostra è una interpretazione “diversa”. Non sposiamo il punto di vista complottista, come fa certa sinistra, o quello  della pura  tenuta dell' ordine pubblico, come predilige la destra. A nostro avviso il volantino è una preziosa testimonianza sociologica della spaventosa chiusura mentale dell' “tipo rivoluzionario” ( nel senso di "modello" intepretativo) : figura ricorrente, come vedremo, all’interno di una modernità fisiologicamente segnata, proprio perché dinamica e creativa, da periodici conflitti  sociali dsitributivi   connessi alle   fasi, talvolta ascendenti, talaltra discendenti,  del ciclo economico.  
Due gli aspetti che emergono dalla sua lettura: il primo è distinto dalla prometeica sicurezza pedagogica con cui si fa  mostra di sapere ciò che sia bene o male  per l’altro ; il secondo aspetto è segnato dalla totale opposizione a tutte le altre concezioni politiche differenti  dalla propria; il ponte tra i due aspetti, che potremmo definire cognitivi, è rappresentato dall’azione violenta, come momento pratico della realizzazione dell’idea . Quindi abbiamo due fasi  cognitive e una fase interattiva,  riguardante la concretizzazione, o se si preferisce il passaggio all'atto.   Ciò significa che  si tratta di una sociologia basata su una dinamica  dei concetti  e dell’azione povera e ripetitiva.  Parliamo di un processo sociale   incentrato sull'aprioristica e semplificatoria   partizione  del mondo in buoni e cattivi. Ma, attenzione, la divisione tra amico (buono) e nemico (cattivo), non è intepretata in chiave fisologica, come dire,  di una pura e semplice regolarità politica, ma  in chiave   teologico-politica:   nel  nemico si scorge un   nemico assoluto;  una specie di  sub-uomo, da disprezzare, contro il quale tutto è permesso. E il perché è molto semplice.   Secondo il “tipo rivoluzionario”  il conflitto, anche il più duro possibile,  concerne solo “questa” società, perché in “quella” che  nascerà dalla rivoluzione,  regnerà l’armonia più completa: l'amico e il nemico brucheranno insieme la verde e tenera erbetta dell'amicizia universale.  Insomma,  dal massimo del male (la società presente)  sorgerà  il bene  (la società futura). E la violenza, anche la peggiore,  ne sarà la naturale levatrice.  Detto altrimenti:  si punta sul conflitto per eliminare il conflitto. E per sempre.     Ignorando così le più elementari nozioni  di psicologia e sociologia  dell'uomo:  un essere  eternamente e universalmente non cattivo ma  "pericoloso" (per dirla con Hobbes),  che,  difficilmente,  da carnivoro  potrà trasformarsi  in erbivoro...  
Inutile perciò insistere   sul    millenarismo (o gnosticismo, o entrambe le cose),  che  anima   l’approccio alla realtà del “rivoluzionario-tipo”,  anche perché si tratta di questioni già assodate in letteratura.  Siamo davanti, nonostante le dure repliche della storia,  a  una  regolarità della politica: quella dettata  dalla ricorrenza storica e sociologica del   “tipo rivoluzionario”. Figura, indubbiamente legata all’evoluzione stessa di una  modernità, ricca di contrasti e conflitti sociali ed economici. Contrasti e conflitti, di cui  il "tipo rivoluzionario"  non sembra  intuire  il valore    dinamico-creativo.  Probabilmente   perché  portato, sul piano cognitivo,   a "estremizzare" o esasperare   i diversi fattori sociali,   prima argomentativamente, poi sociologicamente e politicamente passando all'atto, e così via lungo  un tristemente noto movimento a  spirale.  Il "tipo rivoluzionario"  rifiuta di comprendere la complessità della  realtà umana: se i fatti divergono dalle sue idee, tanto peggio per i fatti, come, per l'appunto,  sostenne Lenin.   In questo senso,  terrorismo e rivoluzionarismo marciano insieme: non esistono stadi evolutivi  differenti o malattie infantili.  Terrorismo e rivoluzionarismo, checché ne pensasse Lenin,   sono consustanziali: hanno una sola  medesima natura e sostanza.  Di conseguenza, il  "tipo rivoluzionario", proprio   perché succube di  un meccanismo teologico-politico  teso alla edificazione di un pacificato  "Paradiso in Terra",  mai capirà   che i contrasti e  i conflitti  rappresentano, se istituzionalizzati e metabolizzati, un naturale veicolo  di progresso e libertà.  E che quindi pretendere di  eliminarli per sempre,   e per giunta in modo violento,  significa  gettare via e  calpestare il sale della terra.    
Che poi il “rivoluzionario-tipo” - "il filosofo che deve trasformare il mondo non interpretarlo diversamente", per dirla con Marx - sia marxista o  anarchico poco cambia. Soprattutto, se si volge lo  sguardo  sulla  scia di sangue che, regolarmente, ha  lasciato dietro di sé.  

 Carlo Gambescia 

venerdì 11 maggio 2012

L'Italia è in mutande,  rovinata dagli sprechi...  Roberto Buffagni ,  da par suo,  scrive al professor Mario Monti, Presidente del Consiglio, proponendo una specie di soluzione finale. Agli sprechi s'intende.   Preghiamo i lettori, prima del decollo, di allacciarsi le cinture.  Buon "volo" a tutti.  (C.G.)


 Lettera a Mario Monti
di Roberto Buffagni 




Ill.mo Presidente del Consiglio dei Ministri
Professor Mario Monti
Roma
Italia [sic]

da: Roberto Buffagni
via S***, *
4**** C*** (**)
 I*** [sic]
 Oggetto: Segnalazione sprechi

 Illustre Presidente – Professore,

volentieri accolgo Il Suo pressante invito e richiamo la Sua attenzione su due gravi sprechi. Sono lieto di poterLe anticipare che Ella potrà porvi rimedio in brevissimo tempo e a costo zero.
Spreco uno:
Parlamento, Governo, Ministeri, Presidenze della Repubblica, della Camera, del Senato, con gli allegati ambaradan di: scrutatori, seggi, cabine & schede elettorali; palazzi: Madama, Chigi, Montecitorio, Quirinale, etc.; partiti politici, con relative e relativi: autoblu, commessi, barbieri, bouvettes, uscieri, mazzette di giornali, cappucci al vetro e brioches biologiche ordinati al bar di sotto, meretrici, posteggiatori abusivi, gite scolastiche nell’emiciclo, transessuali, spacciatori di cocaina, dottori fuori stanza, Costituzione & popolo “italiani” [sic]; Esercito, Marina, Aviazione “italiani” [sic]; bandiere “italiane” [sic], medagliere “italiano"[sic] , stemmini autoadesivi e portachiavi recanti il logo tricolore “italiano” [sic]; squadre nazionali “italiane” [sic] di calcio, pallavolo, hockey su prato, pallanuoto, ping-pong, boxe, pallamano, tamburello, Frecce Tricolori, etc.; docenti d’ogni ordine e grado di lingua “italiana” [sic], con relativi libri di testo; etc. Magistratura, polizia, carabinieri e soprattutto guardia di finanza, polizia penitenziaria e case di pena sarà meglio tenerseli ed eventualmente incrementarne gli effettivi (basterà modificarne la ragione sociale e il logo).
Le note vicende della Sua provvidenziale nomina alla Presidenza del Consiglio, e l’illuminata azione tecnico-politica successivamente esplicata da Lei e dal Suo Governo, hanno infatti chiarito al di là di ogni ragionevole dubbio che i suddetti enti, istituzioni, edifici, costumi, etc., con tutto il personale ufficialmente e ufficiosamente a loro addetto, hanno esaurito – ammesso e non concesso che abbiano mai potuto vantarli – qualsivoglia redditività, efficienza ed efficacia, significato. A sostanziare la presente analisi dell’ovvio basteranno due rilievi. Uno: che la formazione del Suo Governo nulla deve all’obsoleto, farraginoso meccanismo elettorale, e ancor meno di nulla all’altrettanto obsoleto, farraginoso, sconclusionato e pleonastico popolo “italiano” [sic]. Due: anche se Lei volesse, per un magnanimo eccesso di gradualismo pedagogico, riconsegnare il Governo e lo Stato “italiani” [sic] all’arbitrio dei partiti e/o addirittura, Dio non voglia, degli elettori “italiani” [sic], tanto ormai Governo e Stato “italiani” [sic] - grazie anche alla Sua preveggente, tempestiva azione, ad esempio con l’adozione del celebre “fiscal compact” - hanno già ceduto per intero i loro poteri e la loro sovranità alle istituzioni sovrannazionali che Ella così degnamente rappresenta: e quindi, non potrebbero fare nulla di diverso da quanto Lei sta già facendo (ma lo farebbero senza il Suo inarrivabile stile).
Il taglio dei suddetti sprechi, oltre a consentire un imponente risparmio di risorse finanziarie, immobiliari, umane, garantirebbe un immediato e determinante miglioramento qualitativo dell’amministrazione pubblica nello spazio geografico provvisoriamente denominato “Italia”[sic]: Ella m’insegna infatti che in conformità al diritto internazionale, la potenza o le potenze occupanti un territorio sono tenute a garantirvi l’ordinato svolgimento della vita civile. Saranno dunque le istituzioni sovrannazionali da Lei così meritoriamente rappresentate (UE, FMI, BCE, WTO, e via acronimando) ad amministrare direttamente lo spazio geografico “Italia” [sic] e gli asset ivi contenuti, con i corrispondenti benefit di trasparenza, snellimento delle procedure amministrative, apertura dei negozi 24/7, investimenti dall’estero, liberalizzazione della vendita di caldarroste, aumento del rating, diffusione di massa dell’apprendimento delle lingue straniere, incremento delle assicurazioni sanitarie, in sintesi: modernizzazione.
Spreco due:
Ben consapevole che la Sua sensibilità umana e culturale non trascura le dimensioni impalpabili ed econometricamente non quantificabili dell’esistenza umana, per così dire quelle “esternalità” antropologiche senza le quali ogni rilancio economico è impossibile, avanzo una proposta di taglio che potrà apparirLe estremistica, o quanto meno prematura: forse, addirittura utopistica. Rimetto fiduciosamente al Suo giudizio ogni valutazione in merito al contenuto della proposta stessa, e ai tempi della sua eventuale adozione.
In sintesi la mia proposta è: aboliamo la dignità. “Dignità zero” !
Lo so, illustre Presidente-Professore, lo so: detta così, non suona bene. D’altronde questa mia non è un’ ambiziosa proposta pubblica, ma il rispettoso suggerimento che un cittadino “italiano” (voglia scusare se sono provvisoriamente obbligato a qualificarmi così) privatamente sottopone al Suo illuminato giudizio. Qualora poi Ella decidesse di adottarla, potrebbe certo incaricare della sua adeguata presentazione ed implementazione i più qualificati tecnici della comunicazione di massa.
Ma vengo al punto. Abolire la dignità, dicevo. Ella m’insegna che la dignità – come d’altronde l’onore, ma quello non c’è bisogno di abolirlo perché si è già abolito da solo – è per così dire il lato soggettivo, forse anche un po’ sentimentale, della libertà: l’autopercezione di sé di una persona libera. Sei libero, e dunque hai dignità. Mai si disse di uno schiavo che fosse “dignitoso”. Lo schiavo sarà magari utile, simpatico, industrioso, bello, redditizio, interessante, prezioso, buono, geniale, perfino eroico, addirittura santo: “dignitoso”, mai. Come fai a essere dignitoso quando un altro tizio può dirti: “Salta, ciccio!” e tu devi saltare, sennò quello ti può tranquillamente far fuori? Puoi esserlo solo se ti rifiuti e affronti la morte: ma se affronti la morte, non sei più uno schiavo.
Ora, illustre Presidente-Professore, diciamocelo tra noi in camera caritatis, in quella perfetta privacy che solo il benemerito genere letterario dell’epistolografia anonima può concedere: sono liberi, gli “italiani” [sic]? Può essere libero, un popolo che ospita sul suo territorio più di cento basi militari straniere? Può essere libero, un popolo governato da una compagine nominata da potenze e istituzioni straniere? Può essere libero, un popolo che non può dire beo sulle sorti della moneta che ha in tasca? Può essere libero, un popolo che non ha il controllo delle sue frontiere? Può essere libero, un popolo che viene espropriato dei suoi mezzi di produzione, che li delocalizza all’estero per poi importarne i prodotti? Può essere libero, un popolo che mentre perde milioni di posti di lavoro, continua ad accogliere milioni di immigrati? Può essere libero, un popolo che diventa sempre più analfabeta nella sua lingua nazionale? Può essere libero, un popolo che paga di tasca sua un’ università pubblica che si vanta di tenere i propri corsi in lingua straniera? Potrei continuare a lungo in questa elencazione di domande retoriche, illustre Presidente-Professore, ma la risposta obbligata sarebbe sempre la stessa: no, un popolo siffatto non può essere libero.
E allora dico io, se non siamo liberi, perché gravarci del peso della dignità? Chi ce lo fa fare? Cornuti & mazziati? No, perché la dignità non viene mica gratis, eh, caro Prof? Sai che fatica, essere dignitosi? Mariopio bello, che il Vaticano benedica il Tuo Loden: facile stare a schiena dritta con la spina dorsale degli altri! (La prego di scusare, Illustre Presidente - Professore: a scopo esemplificativo, Le do un piccolo saggio degli effetti di snellimento delle procedure anche linguistiche che conseguirebbero all’adozione della mia proposta). Già che non ci siamo mai stati tanto portati, per la dignità, come dimostrano la Storia (v. 8 settembre, data ricorsiva nel calendario “italiano” [sic]) l’Arte (v. Commedia dell’ -) e i Proverbi (v. “Franza o Spagna, basta che se magna”); ma perché sforzarsi così a vuoto? Tanto non serve a niente, servi siamo e servi restiamo. Siete così dignitosi Voi, cuccatevela tutta, la dignità “italiana” [sic], e che buon pro Vi faccia; chissà, magari i Vs. padroni Vi aumentano lo stipendio, che il maggiordomo dignitoso fa più fino e dunque costa di più.
Se invece ci mettiamo pubblicamente una pietra sopra, a questa stanca commedia della dignità “italiana” [sic], sai come si sta meglio? E non solo noi, noi popolo “italiano” [sic]: ma anche Voi, Voi Istanze Superiori. Noi stiamo meglio perché ci rilassiamo, ci togliamo la cravatta, ci slacciamo il colletto, buttiamo via le scarpe, ci mettiamo in mutande, canotta e rutto libero; Voi perché ci potete finalmente trattare per quello che siamo e valiamo, senza tanti giri di parole, formule di cortesia, perdite di tempo. Pane al pane, vino al vino, servo al servo e padrone al padrone. E poi rifletti, Mariopio, ragiona, Fornerina dagli umidi occhi: quando sbattete in mezzo alla strada i lavoratori, quando fate fallire gli imprenditori, se quelli hanno un po’ di dignità che cosa fanno? O vi piantano un casino con le noiose manifestazioni, o peggio ancora si ammazzano, si danno fuoco davanti all’Agenzia delle Entrate, si impiccano all’Altare della Patria, ma dai! Che schifo, che imbarazzo, che pubblicità negativa! Che danni per il turismo culturale!
Pensate invece se applicate la mia proposta “dignità zero”. Il lavoratore perde il lavoro. Zero dignità? Zero problemi: si fa mantenere dalla moglie. Se perde il lavoro anche la moglie, la manda a battere. Se la moglie è fuori mercato perché vecchia e/o brutta e/o bigotta, ci manda i figli. Se non ha figli disponibili, avvelena la vecchia zia, eredita e mette su, per dire, un baretto con le slot machines (truccate, chiaro). L’imprenditore fallisce. Zero dignità? Zero problemi: intanto avrà preventivamente sifonato i conti dell’azienda mettendo al sicuro il malloppo in appositi paradisi fiscali; ma metti pure che abbia incendiato tutto in escort & coca: potrà comunque mettere a profitto le sue capacità imprenditoriali nella fiorente industria illegale, ad esempio come direttore del personale (v. più sopra, “schiavi”) in manifattura cinese di capi firmati Made in Italy; come responsabile di zona per lo spaccio di cocaina di un “locale” della ‘ndrangheta; come manager di un bordello la manodopera del quale sarà costituita, in quote da stabilirsi nel rispetto dei diritti civili degli immigrati comunitari ed extra, da mogli & figli del summenzionato lavoratore in esubero, esodato o esodando; etc.
Insomma, illustre Presidente-Professore. Riassumendo la mia proposta in una semplice equazione: zero libertà = zero dignità = zero problemi.
RingraziandoLa della Sua cortese attenzione, Le porgo i miei rispettosi saluti. Suo
Roberto Buffagni


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...