Il timido sorriso di Hannah Arendt
«Dopo cena andarono tutti nel soggiorno, e cominciarono a discutere (…).
All’improvviso, sotto gli occhi spaventati dei suoi ospiti, dopo un breve
accesso di tosse, la Arendt
ricadde all’indietro nella poltrona dalla quale stava a loro servendo il caffè,
priva di conoscenza. I Baron corsero all’armadietto delle medicine e vi
trovarono l’indirizzo del suo medico personale. Questi venne immediatamente
(…); ma prima del suo arrivo Hannah Arendt era morta per un attacco cardiaco
senza aver ripreso conoscenza ».
Questi sono gli ultimi istanti di vita della grande Hannah Arendt, morta il 4
dicembre del 1976, come dire, sul campo: ragionando con i suoi amici di storia,
filosofia e politica. E non è un brutto modo per dire addio al mondo. Dobbiamo
la preziosa testimonianza a Elisabeth Young-Bruehl, autrice di una bellissima
biografia: Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, pubblicata all’inizio
degli anni Ottanta del secolo scorso. L’edizione italiana, per i tipi di
Bollati Boringhieri, risale al 1990. E, crediamo, tuttora disponibile, in
ristampa.
L’opera filosofica di Hannah Arendt è probabilmente fra le più intriganti del
XX secolo. Come la sua persona del resto: ebrea tedesca, allieva di Heidegger e
Jaspers, teologa di formazione ma lettrice onnivora, soprattutto di filosofia
politica, classici antichi, romanzi e poesia tedesca. Nonché dotata,
particolare non secondario, di un timido sorriso, tra i più teneri dell’intera
storia della filosofia. Sorriso che all’inizio degli anni Venti del Novecento
fece addirittura perdere la testa al trentenne Heidegger, allora giovane e
promettente docente a Friburgo …
Ma il destino esistenziale ed intellettuale della Arendt è figlio del terremoto
nazionalsocialista. Infatti, dopo l’ascesa di Hitler, si rifugia prima in
Francia e poi negli Stati Uniti, sua seconda patria. Ma anche dell’altro sisma
novecentesco, quello comunista. Due cataclismi che la spingono ad occuparsi di
teoria politica.
E così la Arendt,
per sfuggire alla morsa totalitaria, abbraccia un liberalismo politico “malinconico”,
molto particolare. Un approccio che nasce in chi sappia mantenere la giusta
distanza dalle cose umane; in chi sia capace di osservare la realtà,
conservando un senso di dolce mestizia. Per un verso la Arendt è mestamente
consapevole dei limiti del liberalismo all’interno della società di massa, e
per l’altro è perfettamente cosciente di come esso sia la sola alternativa al
totalitarismo moderno. La
Arendt è perciò, al tempo stesso, testimone della necessità,
non propriamente liberale, di aprire la politica alla partecipazione
collettiva, ma anche assolutamente consapevole dei pesanti limiti di un
liberalismo perfidamente economico e purtroppo in sintonia con una società
dedita ai crescenti consumi di massa .
In questo ridotto spazio interstiziale, segnato anche dalla smisurata
ammirazione per la democrazia degli antichi, si sviluppa la filosofia politica
arendtiana. Secondo la pensatrice, dal momento che l’uomo è un animale
politico, il fardello dei filosofi è quello di indicare i confini tra politica
ed etica, tra essere e dover essere, senza però sperare di individuarne di
definitivi. Perché, a suo avviso, esiste un rischio. Quale? Di ricadere
nell’ideologia: in una specie di sapere cristallizzato nell’utopia. Secondo la Arendt, per evitare ogni
deriva utopistica, sottoposta allo stolto criterio dell’azione pura (l’azione
per l’azione), sono necessari realismo e immaginazione: una forma di pensiero
concreto che illumini la prassi, pensando il mondo non separatamente (come
certa filosofia elitaria), ma rapportandosi a esso. Tradotto: il vero politico
prima di parlare al mondo, deve capirlo e conoscerlo, con quella cura che si
deve avere per le «cose buone» del mondo. E soprattutto accettare, che come
tutte le cose, anche quelle «buone», vanno e vengono. Insomma, non durano per
sempre: il paradiso non è sulla Terra.
Pertanto una pensatrice profonda, e tutto sommato imprevedibile. Come scrive
Elisabeth Young-Bruehl, la «Arendt era e sarebbe rimasta sempre conservatrice e
insieme rivoluzionaria». Il che ha tuttora un suo grande fascino…
Come avvicinarsi al suo pensiero? Insomma, cosa leggere di e su di lei? La
letteratura critica dedicata alla Arendt è sterminata. Diciamo subito che un’
ottima base di partenza è proprio la biografia della Young- Bruehl: opera di
oltre seicento pagine, non recente, ma scritta da un’allieva che ne conosceva a
fondo il pensiero e, se ci si passa l’espressione, anche il “retro-pensiero”.
A chi invece abbia fretta di avvicinarsi direttamente al suo pensiero,
consigliamo la lettura dell’ antologia curata da Paolo Costa: Hannah Arendt.
Pensiero, azione e critica nell’epoca di totalitarismi (Feltrinelli). Una
raccolta, uscita in occasione del centenario della nascita, che riprende alcuni
testi inclusi nei due precedenti volumi dell’Archivio Arendt, 1930-1954, sempre
pubblicati da Feltrinelli (eccetto quello su Lessing, l’umanità in tempi bui,
1960).
Si tratta di un’ ottima scelta di articoli, saggi, conversazioni. Basta
scorrere l’indice per scoprire che sono affrontati tutti i nodi principali del
suo pensiero, poi sviluppati in libri, ormai classici, come Le origini del
totalitarismo (1951), Vita activa. La condizione umana (1959), Tra passato e
futuro (1961), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Sulla
violenza (1970), Politica e menzogna (1972).
Proprio prendendo spunto dall’ antologia, desideriamo affrontare due punti
decisivi del suo pensiero
In primo luogo, la polemica della Arendt con Voegelin, altro importante
studioso del totalitarismo. Una polemica in cui si giunge a discutere del
concetto stesso di natura o essenza dell’uomo. Insomma, siamo a livelli
stratosferici, soprattutto se pensiamo a certe polemiche filosofiche terra
terra di oggi; per capirsi alla Massimo Cacciari…
Per Voegelin il totalitarismo, di qualsiasi colore, non può distruggere quel
che vi è di più nobile nell’uomo: la sua essenza spirituale. Perciò il
totalitarismo, sarebbe un errore di percorso, frutto dell’agnosticismo e del
secolarismo, malattie dalle quali l’uomo moderno può guarire ma a una
condizione: quella di recuperare la sua dimensione spirituale.
Per contro, secondo la Arendt,
studiosa molto concreta e per nulla interessata alle «essenze» voegeliniane, il
totalitarismo implica il rischio di una trasformazione della natura umana: una
specie di punto di non ritorno, a prescindere dalla reversibilità storica dei
regimi totalitari. Ma lasciamole la parola : «Il successo del totalitarismo
coincide con una soppressione della libertà, in quanto realtà politica e umana,
molto più radicale di qualsiasi altra verificatasi in passato. Stando così le
cose, sarebbe una ben magra consolazione aggrapparsi all’immutabilità della
natura umana (…). Storicamente, noi abbiamo cognizione della natura dell’uomo
solo nella misura in cui ha un’esistenza, e nessuna delle sfere di essenze
eterne potrà mai consolarci se l’uomo perderà le sue facoltà essenziali». E
poche righe più sotto, citando Montesquieu, aggiunge: «L’uomo questo essere
flessibile, che si adatta nella società ai pensieri e alle impressioni altrui,
è ugualmente capace di conoscere la propria natura quando gli viene mostrata, e
disperderla fino al punto di non accorgersi che gli è stata sottratta».
E qui, il groviglio di contraddizioni sociali che segna il difficile presente
di molti paesi post-totalitari, a cominciare dall’Unione Sovietica, dà ragione
alla Arendt e torto a Voegelin. Non sarà mai facile per l’uomo ex sovieticus
liberarsi dalla malattia totalitaria.
In secondo luogo, rimane molto interessante la distinzione arendtiana tra
politico e non politico. A suo avviso, il discrimine è costituito dalla natura
del vicolo: «L’appartenenza a un gruppo è una condizione naturale. Si
appartiene a un gruppo per nascita, sempre (…). Ma (…) aderire o formare un
gruppo organizzato, è qualcosa di completamente diverso. Questo genere di
organizzazione si costituisce sempre in relazione al mondo: ciò che accomuna
gli uomini che si organizzano sono quelli che in genere vengono chiamati
interessi (…). Di conseguenza, persone delle organizzazioni più diverse possono
anche essere amici personali, ma se si confondono questi piani, se, per parlar
schietto, si porta l’amore al tavolo del negoziato, si commette secondo me un
errore fatale ».
E qui si pensi all’impoliticità di certo pacifismo attuale, che vuole appunto
portare «l’amore al tavolo del negoziato», ignorando che spesso in politica,
come nota la pensatrice, possono più gli interessi che le passioni. Il che non
significa, che l’amicizia, tra uomini spesso diversi, per idee e religione, non
sia effetto di «una scintilla d’umanità» o fratellanza. Ma che, come nota la Arendt, parafrasando
Lessing, la politica impone che ognuno di noi si comporti da «amico di molti,
ma fratello di nessuno» .
Tuttavia sotto la scorza del suo realismo si nasconde un ideale di democrazia
che rinvia alla città di Pericle, basato su un’estesa partecipazione politica,
come appunto nella polis ateniese. Un repubblicanesimo antico, capace però di
conciliare modernamente, difesa liberale delle minoranze con gli interessi
collettivi, all’interno di uno spazio politico, nel quale tutti possano
liberamente partecipare e dissentire. Questo “liberalismo repubblicano” ( se ci
si passa l’espressione, una specie di Mission Impossible filosofico-politica),
causò alla Arendt critici e nemici di ogni genere, a destra e sinistra.
Alla domanda di come conciliare libertà private e pubbliche, o di come evitare
le manipolazioni politiche, la pensatrice ha sempre risposto asserendo di non
avere in tasca soluzioni salvifiche, ma solo un pugno di principi liberali da
difendere. E, ovviamente, tanti rischi… Collegati, appunto, ai pericoli insiti
nell’esercizio della moderna libertà di massa, sempre pronta a vendersi al
primo offerente, magari in stivaloni… E dunque, ripetiamo con la pensatrice,
sempre a rischio.
Di qui il suo liberalismo malinconico. Ma i rischi, osserva la Arendt, vanno sempre
accettati: fare politica, a tutti i livelli «è dare inizio a qualcosa».
Significa « aggiungere il nostro filo a un intreccio di relazioni. E che ne
sarà di esse [le relazioni, ndr] non ci è dato saperlo » .
In fondo, la sua lezione è lineare. Da una parte la libertà dall’altra il
dispotismo, e in mezzo uomini e donne che devono scegliere a proprio rischio e
pericolo. Alcuni cadono, molti vengono a patti, pochi lottano. E pochissimi,
riescono a scrivere, come la
Arendt, libri veramente belli.
Sì, belli, come il suo timido sorriso… Perché, per dirla con Benedetto Croce,
altro inascoltato profeta di un liberalismo politico e malinconico, quel « velo
di mestizia» che pare «avvolga la bellezza, (…) non è velo, ma il volto stesso
della bellezza» .
Carlo Gambescia