lunedì 31 gennaio 2011

Riceviamo e pubblichiamo con piacere il testo di Yehuda Elkana, The Need to Forget , limpidamente tradotto e presentato dall’amico "Teofilatto", assiduo commentatore, al secolo Marcello Bernacchia . L' articolo di Elkana integra e arricchisce, anche in termini di una maggiore ariosità di prospettive, il nostro post di venerdì sul “reato di negazionismo”. Buona lettura. (C.G.)


***
Anche nelle scienze sociali ci sono profeti. Come molti profeti, spesso poco ascoltati. Yehuda Elkana (trovate qui un suo profilo biobibliografico) è uno studioso che si è occupato principalmente di filosofia della scienza e dei rapporti fra scienza e società (in italiano è uscito nel 1989, ed è tuttora disponibile presso Laterza, il suo Antropologia della conoscenza).
Elkana non ha rinunciato a prendere posizione anche sullo spinoso tema della memoria, con un articolo decisamente controcorrente, “The Need to Forget”, pubblicato sul quotidiano israeliano “Ha’aretz” il 2 marzo 1988 (l'anno dopo la prima Intifada...), le cui tesi sono state poi ampliate in un libro dallo stesso titolo.
A distanza di quasi 23 anni, il testo rimane di grande attualità. E il profeta poco ascoltato.


Marcello Bernacchia
.

Il bisogno di dimenticare
di Yehuda Elkana
.






Mi hanno portato ad Auschwitz quand'ero un ragazzino di dieci anni, e sono sopravvissuto all'Olocausto. Ci ha liberati l''Armata Rossa e ho trascorso alcuni mesi in un “Campo di Liberazione” russo. Più tardi ho concluso che non c'era molta differenza nella condotta di tante persone che ho incontrato: tedeschi, austriaci, croati, ucraini, ungheresi, russi ed altri. Mi era chiaro che quello che era accaduto in Germania poteva accadere dappertutto e ad ogni popolo, compreso il mio. D'altro canto, ho concluso che è possibile prevenire questi terribili eventi per mezzo di un'adeguata educazione e con la giusta impostazione politica. Non c'è ora, e non c'è mai stato, alcun processo storico che conduca necessariamente al genocidio.
Per decenni dopo la mia immigrazione in Israele, nel 1948, non ho prestato consciamente alcuna attenzione alla questione se dall'Olocausto possa derivare un messaggio politico e educativo ben definito. Preoccupato del mio personale futuro, evitavo generalizzazioni teoriche sugli usi del passato. Non è che reprimessi o rifiutassi di parlare di quello che mi era accaduto. Parlavo spesso coi miei quattro figli del passato e delle lezioni che ne avevo tratto. Condividevo emozioni e pensieri con loro – ma solo a livello personale. La mia totale riluttanza nel seguire il processo Eichmann; la mia forte opposizione al processo Demjanjuk, il mio rifiuto di accompagnare i miei figli a visitare lo “Yad Vashem” - tutte queste mi sembravano mere preferenze personali, forse in qualche modo idiosincratiche. Oggi però vedo la questione sotto una luce diversa.
Parlando coi miei amici le scorse settimane, ho sentito uno strano vantaggio su quelli che sono nati qui e non hanno sperimentato l'Olocausto. Ogni volta che si racconta di qualche “incidente anomalo”, la loro reazione iniziale è il rifiuto di credere che sia accaduto; solo dopo lo schiaffo della realtà si decidono ad arrendersi ai fatti. Molti allora perdono ogni senso della misura e sono disposti ad accettare il discorso per cui “sono tutti così” o “l'esercito israeliano è così”, oppure detestano i responsabili degli atti e odiano anche gli arabi che ci hanno portati fino a questo punto. Molti credono che la maggioranza degli israeliani siano consumati da un odio profondo verso gli arabi, e sono ugualmente convinti che gli arabi sentano un odio profondo verso di noi. A me non capita niente di tutto questo. Prima di tutto, non c'è nessun “incidente anomalo” che non abbia visto coi mie stessi occhi, intendo questo alla lettera: sono stato un testimone oculare di incidenti su incidenti; ho visto un bulldozer seppellire vive delle persone, ho visto una folla in sommossa strappare le apparecchiature che tenevano in vita persone anziane all'ospedale, ho visto soldati spezzare le braccia di civili, anche bambini. Per me tutto questo non è nuovo. Al tempo stesso non generalizzo: non credo che tutti ci odino; non credo che tutti gli ebrei odino gli arabi; non odio le persone responsabili delle “anomalie” - ma ciò non significa che condoni i loro atti o che non mi aspetti che siano puniti con tutta la severità della legge.
D'altro canto, sto cercando le radici più profonde di quello che sta succedendo in questi giorni. Non sono uno di quelli che credono che metà di questa nazione sia fatta di bruti. Non sono assolutamente uno di quelli che considerano la brutalità un fenomeno etnico. Prima di tutto, non vedo alcun legame fra comportamento incontrollato ed estremismo ideologico. Inoltre, l'estremismo ideologico è più una caratteristica degli ebrei provenienti dalla Russia, dalla Polonia e dalla Germania, molto più che non di quelli le cui origini sono in Nordafrica o Asia.
Alcuni ritengono che la mancanza di sicurezza, l'economia e le pressioni sociali abbiano prodotto una generazione frustrata, che non vede alcun futuro per sé, individualmente ed esistenzialmente – nessuna speranza di conseguire un'educazione e un impiego, di vivere dignitosamente del proprio lavoro, di accedere ad abitazioni confortevoli e a una ragionevole qualità della vita. E' difficile valutare la veridicità di questa affermazione, e specialmente misurare il numero di persone a cui tale frustrazione sembrerebbe applicarsi. Che la frustrazione personale possa condurre a comportamenti “anomali” è ben noto.
Ultimamente mi sono sempre più convinto che il fattore politico e sociale più profondo che motiva molta della società israeliana nelle sue relazioni coi palestinesi non sia la frustrazione personale, ma una profonda “Angst” (angoscia) esistenziale nutrita da un'interpretazione particolare della lezione dell'Olocausto, dalla prontezza a credere che tutto il mondo sia contro di noi e che noi siamo eternamente le vittime. In questa credenza antica, così tanto condivisa oggi, vedo la tragica e paradossale vittoria di Hitler. Due nazioni, metaforicamente parlando, sono emerse dalle ceneri di Auschwitz: una minoranza che afferma “questo non deve più accadere” e una maggioranza impaurita e tormentata che afferma “questo non deve più accadere a noi”. E' del tutto evidente che, se queste sono le sole lezioni possibili, ho sempre sostenuto la prima e considerato catastrofica la seconda. Qui non sto appoggiando una delle due posizioni, vorrei invece affermare come norma che ogni filosofia della vita nutrita solo o in prevalenza dall'Olocausto porta a conseguenze disastrose. Senza con questo ignorare l'importanza storica della memoria collettiva, un clima nel quale un intero popolo determina il suo atteggiamento verso il presente e dà forma al futuro di una società, se vuol vivere in relativa tranquillità e relativa sicurezza, come tutti i popoli. La storia e la memoria collettiva sono una parte inseparabile di ogni cultura, ma al passato non è permesso, né si deve permettere di diventare l'elemento dominante che determini il futuro della società e il destino del popolo. La stessa esistenza della democrazia è minacciata quando la memoria dei morti partecipa attivamente al processo democratico. I regimi fascisti l'hanno capito molto bene e hanno agito di conseguenza. Noi lo capiamo oggi, e non è un caso che molti studi sulla Germania nazista trattino della mitologia politica del Terzo Reich. Affidarsi alle lezioni del passato allo scopo di costruire il futuro, sfruttare le sofferenze passate come argomento politico significa coinvolgere i morti nella vita politica dei vivi.
Thomas Jefferson una volta ha scritto che la democrazia e l'adorazione del passato sono incompatibili. La democrazia fa affidamento sul presente e sul futuro. Troppo “Zechor!” (Ricorda) e la dipendenza dal passato minano i fondamenti della democrazia.
Se l'Olocausto non fosse penetrato così profondamente nella coscienza nazionale, dubito che il conflitto fra israeliani e palestinesi ci avrebbe portati a così tante “anomalie”, e perfino che il processo politico di pace si sarebbe trovato oggi in un vicolo cieco.
Non vedo minaccia più grande al futuro dello Stato di Israele del fatto che l'Olocausto sia penetrato sistematicamente e a forza nella coscienza del pubblico israeliano, perfino di quel largo segmento che non ha sperimentato l'Olocausto, come la generazione che è nata e cresciuta qui. Per la prima volta capisco la serietà di quello che stavamo facendo quando, decade dopo decade, mandavamo ogni bambino israeliano a visitare ripetutamente lo “Yad Vashem”. Che cosa volevamo che facessero dell'esperienza, quei teneri giovani? Declamavamo in modo insensibile ed aspro, e senza alcuna spiegazione: “Ricorda!” “Zechor!” A che scopo? Che dovrebbe farsene un bambino di questi ricordi? Molte delle immagini di questi orrori potrebbero essere interpretate come un appello all'odio. “Zechor!” può essere facilmente interpretato come un appello all'odio continuo e cieco.
Può darsi che sia importante che il mondo in generale ricordi. Non sono sicuro neanche di questo, ma in ogni caso non è un nostro problema. Ogni nazione, compresa la Germania, deciderà da sé e sulla base dei propri criteri se vuole ricordare o no.

Per quanto ci riguarda, dobbiamo imparare a dimenticare! Oggi non vedo alcun compito politico ed educativo più importante per i leader di questa nazione che schierarsi dalla parte della vita, dedicarsi a creare il nostro futuro e non preoccuparsi dell'Olocausto dalla mattina alla sera, con simboli, cerimonie e lezioni. Debbono sradicare dalle nostre vite il dominio di quel “ricorda!” storico.
Ciò che ho scritto qui è aspro e, diversamente dal mio solito, affermato in bianco e nero. Non è un incidente o un mio stato d'animo passeggero. Non ho trovato modo migliore per evidenziare la serietà del problema. So benissimo che nessuna nazione può o dovrebbe dimenticare totalmente il suo passato, con tutto ciò che vi è compreso. Ovviamente ci sono miti essenziali per costruire il nostro futuro, come il mito dell'eccellenza o il mito della creatività; certamente non è mia intenzione che si smetta di insegnare la nostra storia. Sto provando invece a rimuovere l'Olocausto dall'essere l'asse centrale della nostra esperienza nazionale.


(pubblicato nel quotidiano israeliano “Ha’aretz”, il 2 marzo 1988, 
trad. dall’inglese di Marcello Bernacchia)


***


Marcello Bernacchia è laureato in psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l'Università di Padova. Ha lavorato nell'ambito della formazione e partecipato ad alcuni progetti editoriali. È coautore di Gioco e dopogioco, sull'uso delle tecniche di gioco in ambito formativo ed educativo, e ha partecipato a Benvenuto!, sul tema dell'accoglienza scolastica. Entrambi i volumi, di ottimo riscontro editoriale (insieme, oltre 10mila copie) sono pubblicati da La Meridiana ( http://www.lameridiana.it/ ).
Attualmente insegna Scienze sociali e Filosofia presso l'istituto “Newton” di Camposampiero (PD), dove accanto alla teoria, ogni tanto fa giocare un po' i suoi alunni (tanto per ricordarsi che cosa faceva nella sua "vita precedente"). Per i più curiosi, Teofilatto è un omaggio al Gian Maria Volonté de “L'armata Brancaleone”.

venerdì 28 gennaio 2011

Riflessioni
Il "reato di negazionismo"




Si riparla di introdurre in Italia il reato di negazionismo, da perseguire anche d’ufficio. Soluzione già adottata in altri Paesi. Si tratta di una scelta che lascia perplessi, poiché negare la possibilità di esprimere un’opinione, per quanto assurda e moralmente ripugnante come quella di negare l’Olocausto, non rientra nei valori di uno Stato liberale. Ma il vero punto della questione è un altro: quello di comprendere come dietro la “soluzione giudiziaria” vi sia una questione sociologica, probabilmente irrisolvibile, legata al rapporto tra dolore e politica.
.

L'intuizione di Simone Weil
Partiamo da Simone Weil. “Tutti i dolori - scrive ne L’ ombra e la grazia (Bompiani) - che non distaccano sono dolori perduti”. Il dolore deve aiutare a crescere. E perciò è necessario prendere le distanze, “distaccarsi”… Il dolore va “messo a frutto” , impedendo che si trasformi in risentimento: verso gli uomini, verso la vita, verso Dio. In questo senso un dolore che non “distacca” è un dolore perduto.Ora, l’ “arte” del distacco, come presa di distanza, non si apprende facilmente, soprattutto sul piano politico. Perché? Per una ragione molto semplice: la politica è il contrario del distacco. Parliamo della politica intesa come lotta, conflitto, guerra (pòlemos): una pratica che scorge nel dolore ( proprio e altrui) uno strumento “polemico” (polemikós, da pòlemos), da “scagliare” contro il nemico o avversario che sia. Ad esempio, nel Manifesto di Marx ed Engels si impone al “proletario” di combattere per la rivoluzione comunista, perché non avrà che da perdervi le “catene”, simbolo di una dolorosa condizione di schiavitù.Ma si possono trovare pagine simili, anche in un’opera di segno posto, come l’ aberrante Mein Kampf. Dove Hitler specula sulle “catene” imposte al popolo tedesco dal “Trattato di Versailles”, ma anche da “capitalisti”, “comunisti”, “ebrei”, eccetera…
.
Il male tra amico e nemico
Secondo Barrington Moore jr, politologo e autore de Le cause sociali delle sofferenze umane (Edizioni di Comunità) “le diverse percezioni” della sofferenza e delle sue cause forniscono le basi “narrative” degli eventuali rimedi, e quindi consentono di definire l’amico e il nemico. Perciò - piaccia o meno - la “cognizione” del dolore è all’origine della politica. Facciamo un esempio, ricordando un episodio, che risale all’ottobre dell'anno scorso.
Ecco la replica di Francesco Rossi, padre di Walter (ucciso 34 anni fa da estremisti neofascisti), a coloro che contestavano la presenza di politici di destra alla commemorazione annuale: “Facciamola finita con le provocazioni, le contestazioni. Quando hanno ucciso mio figlio avrei bruciato Roma. Ora, a 82 anni, mi associo al dolore della famiglie di tutti i ragazzi, anche quelli di destra. Il dolore è un collante più forte della politica. Fatela finita e cerchiamo i nostri ideali. Io sono un uomo di sinistra ma oggi bisogna avere un dialogo, anche mio figlio sarebbe stato d’accordo” (“il Messaggero” 1-10-10).
“Il dolore è un collante più forte della politica”. Come non condividere l’auspicio di un padre? Ma nei fatti è proprio così? Sì e no.
.
La costruzione del male
E qui veniamo a un libro interessante: La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre (il Mulino). Ne è autore il sociologo Jeffrey C. Alexander. Nel libro si ribadisce come ogni società abbia proprio nella cultura il suo cuore pulsante, dove si mescolano emozioni, speranze, paure. Tutti sentimenti che, inevitabilmente, si traducono in “narrazioni”, che spesso assumono valore vincolante per il comportamento umano. Dal momento che l’uomo non è solo capace di “fare” il bene e il male, ma anche di “pensarlo” o “costruirlo” culturalmente. Il che significa che è vero che il male e il dolore prodotti da eventi realmente accaduti possono essere trasformati, in “collante” culturale, come auspica Francesco Rossi, ma che purtroppo ciò avviene sempre “contro qualcuno”: in politica il dolore unisce e divide al tempo stesso.
.
Lettura sociologica dell'Olocausto
Alexander fornisce - tra le altre - anche una lettura sociologica dell’Olocausto: un evento di cui giustamente non è mai messa in discussione la verità storica. In La costruzione del male si studia invece la rappresentazione culturale che i superstiti e le generazioni successive ne hanno dato come strumento simbolico capace di fornire il necessario “collante” alle sue vittime, grazie all’uso di codici linguistici, letterari, cinematografici, giornalistici.
Tuttavia, come capita alle rappresentazioni collettive, a un certo punto anche quella dell’Olocausto ha assunto forza propria, andando oltre la naturale volontà di elaborare il lutto. E così i codici che avrebbero dovuto favorire il superamento del “dramma traumatico”, legato all’ evento storico Olocausto, e lenire funzionalmente le ferite, hanno ottenuto effetto contrario. Perché? Alexander pone l’accento sul “dilemma dell’unicità”. Lasciamolo parlare: “ Fu proprio questo status - di evento unico - che alla fine lo fece diventare generale e departicolarizzato. Questo perché come metafora del male radicale, l’ Olocausto forniva un criterio di valutazione per giudicare il male delle altre manifestazioni. Fornendo un tale criterio di giudizio comparato, l’Olocausto è diventato una norma, e ha dato il via ad una successione di valutazioni metonimiche, analogiche e legali, che l’hanno deprivato della sua unicità stabilendo il grado di somiglianza o differenza da altre possibili manifestazioni del male” (p. 103).
.
Male, dolore e rafforzamento identitario
Il che significa, dal punto di vista della teoria sociologica, che per un verso, la “costruzione” sociale del male subito, essendo fonte di identità, può “stabilizzare” una collettività e favorire l’ elaborazione di un lutto per quanto doloroso; per altro verso, la forzata e ambivalente “unicizzazione” del male subito, esasperando il rafforzamento identitario, può provocare comparazioni e conflitti con altre collettività. Sotto questo aspetto, per passare dalla teoria alla pratica, introdurre il reato di negazionismo perseguibile d’ufficio, può finire per non giovare alla stessa comunità ebraica, e in prospettiva, alla giusta causa di Israele. Perché, essendo basato su un’idea di unicità che implica di fatto, come rileva Alexander, la “departicolarizzazione”, moltiplicherà comparazioni, conflitti e possibilità, da parte dei ripugnanti negatori ideologici dell’Olocausto, di atteggiarsi a perseguitati. Un vicolo cieco.
.
L'insostenibile pesantezza dell'essere (sociale)...
Resta infine una questione di fondo. Simone Weil ha colto il lato individuale del dolore, dove il distacco può procedere di pari passo con l’ elaborazione interiore del dolore stesso. Barrington Moore jr e Jeffrey Alexander il lato collettivo, dove invece il dolore rischia sempre di nutrire culturalmente la politica come designazione del nemico pubblico, trasformandosi così in risentimento collettivo.
Sarà mai possibile gettare un ponte tra dolore “individuale” e dolore “sociale” ? Purtroppo siamo davanti all’eterno dramma della “socievole insocievolezza” dell’uomo. Perché è vero che il dolore può essere “un collante più forte della politica”, ma solo a patto di rinunciare alla politica come “conflitto”. Certo, il conflitto, può essere addomesticato, come nelle democrazie liberali, ma in ultima istanza resta sempre tale.
Il che apre una contraddizione di fondo: come potrà mai l’uomo, animale politico per eccellenza (quindi “polemico” e portato al conflitto ). contraddire la sua natura profonda? E rinunciare all’ “uso” del dolore come “arma politica”?

Carlo Gambescia

.

giovedì 27 gennaio 2011

Il libro della settimana: Luciano Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Rubbettino 2010, euro 20,00 .

http://www.rubbettino.it/rubbettino/public/home_re.jsp

.

Luciano Pellicani è un bravissimo capitano di lungo corso, capace di navigare, come pochi in Italia, nei mari tempestosi della sociologia storica comparata. I suoi libri hanno solcato gli oceani della rivoluzione, della modernizzazione, del totalitarismo, sempre con taglio originale e conoscenza di autori poco frequentati qui da noi.
Ora è giunto il turno dell’anticapitalismo. Argomento al quale Pellicani ha dedicato un succoso libro: Anatomia dell’anticapitalismo (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, euro 20,00). La base teorica del lavoro rinvia decisamente ai suoi precedenti studi sullo gnosticismo politico. Tradotto: sui « rivoluzionari di professione», quali portatori di un sapere eversivo, rivolto a costruire l’uomo perfetto. Ma come? Se serve, anche attraverso un catartico bagno di sangue… E tra le istituzioni da abbattere, per lo gnosticismo anticapitalista, c’è la Mammona del Nuovo Testamento, reincarnatasi nel capitalismo.
Pellicani individua un filo rosso che dal cristianesimo pauperista giunge ai totalitarismi novecenteschi e al noglobalismo radicale. Perciò quel che scrive a proposto del comunismo può valere per tutto l’anticapitalismo. Si tratta, nota Pellicani di «una guerra permanente basata sull’alchimistica idea che lo sradicamento dello scambio avrebbe rigenerato la natura umana, corrotta dalla maligna istituzione - la proprietà privata - che disintegrando l’Unità originaria, aveva scatenato il bellum omnium contra omnes. Detto con il lessico di Kant, distruggendo il capitalismo, i bolscevichi erano ciecamente convinti che sarebbero riusciti a raddrizzare il “legno storto dell’umanità” ».
In questo senso l’anticapitalismo è un rifiuto dell’ uomo così com’è, con le sue debolezze. Al quale, come sottolinea Pellicani, si continua a opporre l’uomo nuovo perfetto, «che verrà», una volta eliminati scambi commerciali ed economia privata. Siamo perciò davanti a una pericolosa utopia.
Il libro è ricco di analisi circostanziate. Pellicani, con il piglio che gli è proprio, smantella autori e luoghi comuni. Come quello ad esempio di porre alle origini del capitalismo il cristianesimo, oppure, con buona pace di Weber, puritanesimo e calvinismo. E così una dopo l’altra, cadono le teste di Padri e Dottori della Chiesa, di accesi Riformatori, dell’autarchico Rousseau, il padre del moderno anticapitalismo. E poi di Marx, Engels, Lenin, Adorno, Horkheimer, Marcuse e altri ancora.
Tutto ciò però non implica la difesa d’ufficio del capitalismo puro. A tale proposito Pellicani traccia un realistico ritratto di Hayek, evidenziane la contraddizione di fondo: «Tutta la sua macchina argomentativa è finalizzata a dimostrare che è imperativo compiere una scelta secca: “O il mercato (e la libertà) o la giustizia sociale; o la giustizia sociale o il mercato (e la libertà) tertium non datur ”. Ma poi, quasi spaventato dal suo radicalismo, Hayek si dice favorevole alla protezione di coloro che per cause oggettive, non hanno alcuna capacità di mercato. E chi mai dovrebbe provvedere a tale protezione, se non lo Stato? Il quale evidentemente, non può limitarsi a stabilire le regole del gioco che si svolge sul mercato e a farle rispettare. Deve farsi carico di una funzione di natura essenzialmente etica: quella, per l’ appunto, di proteggere con azioni positive, i deboli e gli indifesi. Il che dimostra che non è lecito identificare la società civile con il mercato”. Occorre perciò, conclude Pellicani, evitare di contraddirsi come Hayek. Ma in che modo? Privilegiando “un principio che trascende la sfera economica in quanto proclama che tutti gli individui (…) devono essere trattati come fini e non come semplici mezzi e che di conseguenza, essi non possono essere oggetto di compravendita». Principio che Pellicani vede storicamente incarnato nel «compromesso socialdemocratico», cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro. Ma questa è un’altra storia.


Carlo  Gambescia 

mercoledì 26 gennaio 2011

Liberalismo, il nemico?
.


Su un punto destra radicale e sinistra dura e pura sembrano andare d’accordo. Quale? Che tutti i liberali siano arcifavorevoli alla sfrenata libertà mercato. Ma è vero? Dipende.



Mano visibile o invisibile?

Partiamo da una domanda apparentemente bizzarra: la rivoluzione industriale fu voluta dagli uomini oppure no?
Un dotto chierico, ad esempio Monsignor Fisichella, risponderebbe che, in ultima istanza, la rivoluzione industriale fu voluta dalla provvidenza. Un intelligente conservatore laico, come Sergio Romano, vi scorgerebbe il prezioso frutto del faticoso sviluppo delle istituzioni umane. Uno storico, sensibile al fascino del marxismo, come Luciano Canfora chiamerebbe in causa la volontà di predominio economico della classe borghese sulle altre. E un liberale come Hayek? Stupirebbe tutti, affermando che la rivoluzione industriale non fu voluta da nessuno. Perché? A suo avviso in quei febbrili anni della seconda metà del Settecento, gli inglesi inventavano, producevano e commerciavano, perseguendo i propri interessi, senza rendersi conto di ciò che stavano creando. Per capirlo ci volle almeno mezzo secolo, quando milioni di individui compresero, in pieno Ottocento di avere creato “inintenzionalmente” la società capitalistica e liberale. E per alcuni, i famigerati proletari di Marx, fu una brutta scoperta…
In realtà, l’ accoppiamento liberalismo-mano invisibile, così amato da Hayek, che implica la credenza nell’automatica composizione-trasformazione degli interessi privati in pubblici, fa sorgere il Bene (il giusto ordine sociale) dal Male (gli interessi, spesso egoistici dell’uomo). Una scelta discutibile, per due ragioni.
In primo luogo, perché a meno che non si abbia in tasca il segreto della storia, l’ordine capitalista e liberale non può essere considerato l’incarnazione finale del Bene sulla Terra. Probabilmente per alcuni è meno ingiusto di altri “ordini” storici, ma ciò non ha nessun valore morale assoluto.
In secondo luogo, una volta accettato il principio che dal Male può nascere il Bene, tutto diventa possibile: qualsiasi azione umana, anche spregevole, può essere giustificata a posteriori, ponendo come limite la sola “utilità sociale”, cioè la sua compatibilità con un ordine sociale ritenuto giusto, solo perché esistente.
In realtà, per tornare all’ “inintenzionalità” della Rivoluzione Industriale, va detto che senza l’espansione della potenza coloniale inglese, iniziata nel Cinquecento e imposta al popolo dai ceti dirigenti “modernizzatori” (borghesi e in parte aristocratici), difficilmente ci sarebbe stato così tanto progresso economico in Inghilterra. Pertanto la classe dirigente inglese sapeva benissimo quel che faceva. Altro che mano invisibile..
.

Le eccezioni che non confermano la regola
Però - ecco il punto - non tutti i liberali accettano l’idea di armonizzazione automatica degli interessi particolari. Vanno così distinti - il lettore si allacci le cinture - quattro liberalismi.

Innanzitutto , va ricordato il “liberalismo liberista”. Si tratta di una corrente di pensiero che risale, saltellando tra i due, a Hume e Smith per poi giungere fino a Mises, Hayek e al primo Nozick, con il pendant, piuttosto imbarazzante, per la povertà di pensiero rispetto ai padri fondatori austriaci trasmigrati nell’Illinois, della scuola economica di Chicago (Friedman, Becker e minori che riducono l'uomo a un fantoccio economico). E’ un liberalismo giuridico-economico, fondato sull’idea di “stato minimo” ( o “guardiano notturno”) e sull’armonizzazione spontanea degli interessi. E, semplificando, che ama poco le tasse.
Dopo di che va citato il “liberalismo ultraliberista” (libertario o anarco-capitalista), che ha molti punti di contatto con la Scuola Austriaca. E che oggi è rappresentato da pensatori come Murray N. Rothbard e Walter Block, per citarne soltanto due. Se, tutto sommato, il libertarismo di Rothbard, resta ancorato a un’istanza etica, quello di Block è teratologico, dal momento che definisce legittime, e rientranti nella spontanea armonia degli interessi, le attività dell'usuraio e dello spacciatore perché non lederebbero i diritti di persone adulte e consenzienti… Gli ultraliberisti respingono persino l’idea di stato minimo, al quale sostituiscono, sconfinando nell’utopia, il libero esercizio pre-politico dei diritti individuali. In fondo, è un liberalismo naturalistico-darwiniano, basato anch’esso, e in modo ancora più esasperato, sulla composizione spontanea degli interessi. E che, per farla breve, se potesse, abolirebbe le tasse.
Inoltre - e tre - va segnalato il “liberalismo interventista” (o fiscalista) che nasce con Bentham, si sviluppa con John Stuart Mill e matura, forse troppo, con Keynes. Per questa corrente di pensiero, lo stato, oltre a farsi garante di leggi e diritti, deve favorire eguali condizioni “di partenza” per tutti i cittadini. Deve “intervenire”, e fin dove possibile livellare gli interessi attraverso il braccio fiscale. Appartengono al liberalismo interventista i contrattualisti, che pur differenziandosi dalla linea anticontrattualista (Hume-Bentham-Mill-economia del benessere), sono ben rappresentati da un gigante come Locke e (passando per Kant), da Rawls. E’ un liberalismo che ha molti punti di contatto con la socialdemocrazia. E qui si pensi a figure di liberalsocialisti come Bobbio e Dahrendorf. Insomma, siamo davanti a un liberalismo che vuole comporre artificialmente (attraverso l’ ”artificio” delle tasse elevate) gli interessi e condizioni, spesso molto diversi, dei cittadini. E che quindi ama, talvolta anche troppo, pigiare sull’acceleratore fiscale.
.

Arrivano i nostri... O i loro?

Esiste infine un quarto liberalismo realista dal volto umano, perché respinge liberismo e ultraliberismo, senza però amare troppo l’ interventismo fiscale liberalsocialista.
Faremo solo alcuni nomi famosi: Tocqueville, Pareto, il Max Weber ardente liberale e nazionalista tedesco, Croce, Ortega, Röpke ( e l'economia sociale di mercato tedesca, invisa ad Hayek), Aron, Berlin e in parte Freund.
Per questi pensatori, in linea di principio, gli interessi non si compongono spontaneamente né artificialmente. Semplificando al massimo: per i liberali realisti il diritto di proprietà, senza una “decisione” politica” che lo introduca, e soprattutto una forza pubblica che lo sostenga, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. La “composizione degli interessi”, non è armonica né sociale, ma ha sempre natura politica: il contratto privato senza una spada “pubblica” che lo garantisca, può facilmente essere violato. Inoltre, per il liberalismo realista la costituzione scritta, che un popolo si è dato liberamente, rischia di restare un puro e semplice pezzo di carta, se alle spalle non ha un esecutivo coeso e deciso, capace di attuarla e all’occorrenza difenderla “politicamente”, anche usando la forza, dai suoi nemici interni ed esterni.
Il liberale politico, per dirla con Tocqueville, sa che la libertà umana è limitata, nel senso che “intorno a ogni uomo è tracciato un cerchio fatale che egli non può oltrepassare” neppure appellandosi al mercato. Ma sa pure che “dentro alla vasta circonferenza di quel cerchio, egli è potente e libero”.
Insomma, un liberalismo “tosto” che non abdica al mercato o al fiscalismo. Con il quale sarebbe necessario confrontarsi. Intanto sul piano intellettuale. Soprattutto per farla finita con certi stereotipi antiliberali da operetta. Perché è vero che una società non deve essere amministrata come un’ azienda. Ma neppure come una caserma o un soviet.

Carlo Gambescia 


martedì 25 gennaio 2011

L'improvvisa scomparsa
 di Gian Franco Lami
(Alatri 2008. Giano Accame e Gian Franco Lami, il primo a destra rispetto a chi guarda)

.
Domenica scorsa è morto improvvisamente Gian Franco Lami, valoroso docente e principale animatore della Scuola Romana di Filosofia Politica.
La Destra più intelligente, colta e onesta, poco amante delle luci della società dello spettacolo, perde probabilmente un protagonista. E qui la nostra mente va subito a Giano Accame, scomparso nel 2009. Siamo davanti a una perdita di pari gravità. Siamo veramente senza parole.
Di Gian Franco, che ci onorava della sua amicizia, piace ricordare la capacità di cogliere subito in ogni questione la ragione filosofica portante: il suo sapiente andar subito alle radici di qualsiasi questione politica, anche di attualità. E con grande nettezza e lucidità di parola. Con lui era sempre un piacere conversare, socraticamente, nel suo studio. E conversando decostruire e ricostruire platonicamente il mondo circostante, cercando di andare oltre le ombre dell'inganno retorico.
Il debito culturale verso lo studioso è enorme. A Lami dobbiamo la riscoperta di autori come Adriano Tilgher, solo per citarne uno fra i tanti amorevolemente studiati. E che dire della “scoperta”, sulla scia degli studi di Augusto Del Noce di cui era allievo e biografo, di Eric Voegelin? Praticamente da Lami “re-introdotto” in Italia. Collaboratore della Fondazione Julius Evola, Lami, oltre ad animare gli annuali convegni, ha scritto su Evola - curandone tra l'altro alcune opere e raccolte - saggi di una modernità interpretativa sconcertante, non priva di quella giusta storicistica saggezza, tipica del suo approccio storico-critico alla filosofia politica. Come mostra esemplarmente l' ottimo studio, l' ultimo uscito lui vivente, Tra utopia e utopismo (2008).
Per chi voglia, in questo momento di grandissima tristezza, afferrare lo spirito dell’opera di un Nostro Maggiore, consigliamo di rileggere le preziose pagine del suo Socrate Platone Aristotele (2005) . Dove il sapiente approccio accademico sa farsi generosa prassi di vita. Prassi di quell' essere nel mondo, ma non contro il mondo, che l’amico Gian Franco Lami ha saputo onorare al meglio con il valore dei suoi studi e della sua grande carica umana.

Quanto ci mancherai carissimo Gian Franco.

Carlo Gambescia

***
Segue un sobrio profilo bio-bibliografico di Gian Franco Lami tratto dalla quarta di copertina del suo Tra utopia e utopismo. Sommario di un percorso ideologico, a cura di Giuseppe Casale, il Cerchio Inziative Editoriali, 2008 ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2009/04/il-libro-della-settimana-gian-franco.html).
***
« Gian Franco Lami [1946- 2011] insegna Filosofia politica all'Università di Roma "Sapienza". E' professore visitatore alla Pontificia Università Urbaniana e Segretario dell'Associazione Nazionale di Cultura nel Giornalismo. Ha curato l'edizione italiana di numerosi autori stranieri (Voegelin, Topitsch, Gebhardt, Schabert, Opiz) e ha contribuito alla ricostruzione filologica del pensiero e dell'opera di C. Secrétan, A. Capitini, F. Tambroni, A. Ermanno Cammarata. Dal 1994 collabora con la Fondazione Julius Evola alla pubblicazione dell'opera omnia saggistica evoliana. I suoi ultimi titoli: Eric Voegelin, Ordine e Storia, vol. I, Israele e la rivelazione (2004), Socrate Platone Aristotele. Una filosofia della Polis da Politeia a Politika (2005), Julius Evola, Augustea (1941-1943) La stampa (1942-1943). Per il Cerchio ha recentemente scritto "La Premessa ad una lettura della vita di Giuliano Imperatore" in J. Bidez, Vita di Giuliano Imperatore (2004). Collabora a numerose testate periodiche e coordina le inziative culturali della Scuola Romana di Filosofia Politica» .



lunedì 24 gennaio 2011

Berlusconi e 
le anomalie italiane


.
Diciamo subito che di anomalie politiche ce ne sono due: quella rappresentata da Berlusconi e quella incarnata dai suoi avversari…
Anomalie politiche, attenzione, non parliamo di anomalie sessuali, comportamentali, morali, eccetera, Per capirsi: il fascismo cadde non perché Mussolini, come è noto, si dedicasse agli amori extraconiugali, ma perché commise una serie di errori politici. E in particolare quello di scatenare e perdere la guerra. Fatti squisitamente politici, non privati o personali.
Ora, la prima anomalia politica italiana è quella del consociativismo al centro (con varia fortuna e valore, si va infatti da Cavour a Craxi, Andreotti, Forlani). E, di conseguenza, dell’assenza in tutta la storia unitaria italiana di una destra conservatrice, parlamentare e “di massa” . Anomalia, rispetto a ciò che - piaccia o meno - costituiva e costituisce la norma nell' Europa liberaldemocratica (due partiti, o comunque due proposte chiare...). Al fenomeno si possono dare varie spiegazioni storiche. Noi però non vogliamo entrare nel merito della questione. Perciò rinviamo il lettore alle trattazioni storiche in argomento.
Il fascismo sotto questo aspetto non fece che fortificare l’anomalia. E in che modo? Indirettamente, puntando sull’idea antisistemica di fascio di forze al di là della destra e della sinistra… Ma anche per un'altra ragione: nel dopoguerra, poiché il fascismo aveva comunque cooptato forze conservatrici, la destra venne messa fuori gioco (“centrismo”, “centrosinistra”, “unità nazionale” fine anni Settanta, "pentapartito" anni Ottanta): semplificando al massimo, l'elettore di destra, dopo il 1945, dovette perciò accontentarsi di votare Dc, una "balena bianca" che, dagli anni Sessanta in poi, si sarebbe accordato - o politicamente o di fatto - con le diverse anime della sinistra, giocando astutamente su più piani. Le sole alternative per l'elettore di destra restarono quelle di un lillipuziano partito liberale, troppo legato alla Confindustria, o il ghetto missino. Una "ridotta", spesso folcloristica, che ai tanti, memori del disastro fascista, non poteva non ripugnare.

Questa situazione è andata avanti fino allo scandalo di Tangentopoli e alla successiva discesa in campo di Berlusconi. Il cui merito, richiamando Fini e cooptando le varie destre sparse ( interne ai partiti socialista, democristiano, liberale, eccetera), rimane quello di essere riuscito a ricomporre la destra in Italia, puntando sul bipartitismo liberaldemocratico. Sotto questo profilo, Berlusconi, o meglio il progetto storico da lui – volente o nolente – incarnato, rappresenta una seconda anomalia rispetto al sistema politico italiano effettuale, per l'appunto di tipo consociativo, a sua volta, però anomalo, rispetto alla normalità europea (destra/sinistra, democratiche e ben delineate, eccetera).
In questo senso gli avversari del Cavaliere parlano giustamente di "Paese normale". E per una ragione molto semplice: perché per “loro”, o meglio dal "loro" punto di vista, la “norma” è il consociativismo centrista...
Ciò significa che appena il Cavaliere sarà andato a fondo, su di lui potranno di nuovo chiudersi le placide acque della “normalità” italiana.


Sic transit gloria mundi.

Carlo Gambescia

venerdì 21 gennaio 2011

Ecco l’ abituale, e sicuramente gradito, post dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange. Un bel "pezzo" dove si parla di Ruby e Berlusconi, ma anche di Montesquieu, Pannella, Bersani e del collegio Smolny, il famoso educandato zarista per signorine di buona famiglia… Castigat ridendo mores? Non solo.
Buona lettura. (C.G.)

Alla sinistra 
piace lo Smolny
di Teodoro Klitsche de la Grange




A vedere quell’entusiasmo di manifestanti che brindavano a champagne non appena conosciuta la sentenza della Corte costituzionale sul legittimo impedimento, c’era da chiedersi: perché così allegri?
Una quindicina d’anni di processi a Berlusconi non sono riusciti a far capire a larga parte della sinistra impegnata che Berlusconi (forse) non ha la capacità di Re Mida di trasformare in oro ciò che tocca, ma di sicuro possiede quella di convertire gli atti giudiziari (che lo riguardano) in voti. Per il sultano di Arcore un avviso di garanzia vale almeno mezza dozzina di collegi senatoriali, un rinvio a giudizio tre regioni, una sentenza di condanna l’en plein alle politiche. Molti anni fa, scrivendolo, mi chiedevo se la via migliore per archiviarlo politicamente non fosse quella, inversa, di provare a santificarlo - l‘impresa mi rendo conto, non è facile – o quanto meno di non evidenziarne certi aspetti, attinenti al privato e non al pubblico (o più al primo che al secondo), che lasciano indifferenti la maggioranza degli italiani, se non addirittura suscitano in qualche misura, sollievo, emulazione e/o solidarietà.
Perché, quando gli italiani vedono il cavaliere occupato con le varie Ruby, Patrizia, ecc. e ricordano le imprese degli ultimi governi di centrosinistra, non pensano tanto al gallismo del premier, ma soprattutto che, tutto occupato com’è a mettere le mani addosso alle predette, non può usarle per sfilare il portafoglio dalle loro tasche: l’attività preferita, quando governava, dell’opposizione.
E’ bastato che saltasse quel modesto “tappo” del legittimo impedimento, perché il gossip giudiziario-mediatico riprendesse a tutta forza. Anche se si avverte qualche ripensamento sull’utilità di tale bombardamento. Un paio di giorni fa si chiedeva il giornalista del TG di Sky perché quasi tutta la stampa non governativa – cioè la maggioranza – avesse bandito dalle prime pagine o non evidenziasse troppo l’ultima inchiesta della Procura milanese, mentre quella di centrodestra l’avesse “sbattuta in prima pagina” e “gonfiata”al massimo. Probabilmente perché gli uni e gli altri ritengono notizie del genere controproducenti per la sinistra (e annessi e connessi) e, di converso ghiotte per il centrodestra.
Occorre aggiungere due riflessioni, ambedue sul patrimonio ideale della sinistra. Dopo il crollo del comunismo è chiaro che l’immaginario di questa è stato amputato del piatto forte: la prospettiva millenaristica e liberatoria contenuta nel messaggio marxiano, finito in un implosione senza (o con pochi) danni (grazie a Dio!), ma nell’indifferenza generale. Dopo tanta gente morta per instaurarlo, e altrettanta uccisa per consolidarlo, non s’è trovato uno disposto a rischiare la pelle per difenderlo: sicura garanzia ch’era morto nel cuore della gente (e che non risorgerà).
Orfana dell’uomo nuovo e della società senza classi, per la sinistra è stato giocoforza dotarsi di idee-forza nuove che sostituissero quelle. Da qui, e dall’invadenza di un certo moralismo azionista come dall’attivismo delle procure, il tutto fuso alla bell’e meglio e, soprattutto, sostenuto da un (maggioritario) apparato mediatico (frutto – anche – di un cinquantennio d’egemonia), la sinistra (e il centro-sinistra) ha sostituito Das Kapital con Cuore, la società senza classi con la virtù e l’ “Internazionale” con l’aria di Don Basilio (la calunnia è un venticello….)... E così equipaggiata è andata a muovere guerra al Nemico pubblico. Con risultati modesti. Ma, data la riduzione delle capacità di coinvolgimento non c’era da attendersi di meglio. Come mito, indubbiamente la lotta di classe non ha confronti con la pudicizia; Che Guevara funziona sicuramente meglio dell’on. Scalfaro o Ho-chi-Min dell’on. Prodi. Nascondersi dietro due vecchi notabili democristiani forse è rassicurante ma deprimente (l’elettorato) .
Un po’ meglio pare funzionare la virtù; ma ahimè l’intera sinistra (ed alleati) nelle campagne rubyfacenti commette l’errore da cui Montesquieu – che reputava, la virtù principio di governo della democrazia (e quindi a questa indispensabile) - metteva in guardia i lettori dell’Esprit des lois fin da L’Avertissement preliminare: di non confondere la virtù pubblica (quella che è principio di governo) con la virtù privata (del bonus paterfamilias tutto casa e chiesa). Mentre è proprio quello che l’opposizione sta facendo perché misura la capacità e l’azione di governo di Berlusconi (che non sono il massimo, ma comunque largamente superiori a quelle dell’opposizione) in base ai suoi “vizi” privati. Come se il forte interesse per le belle ragazze compromettesse l’azione di governo. Avevano più acume politico i legionari di Cesare durante il trionfo a ridere della incontinenza (bisessuale) del loro comandante, con il quale avevano tante volte rischiato la vita in battaglia, confinando così nel privato il letto di Cesare, che la stampa a metterlo in piazza.
E, per concludere: dov’è andata a finire la “Società radicale” e quella tendenza liberatoria (anche del sesso) della sinistra (da Reich a Pannella, tra i molti) che la connotava ai tempi del grigiore democristiano? Fa impressione vedere una persona seria come l’On. Bersani, uno dei pochi Ministri dell’ultimo governo Prodi uscito dignitosamente da quella esperienza tragica per la sinistra (tre milioni di voti persi!) dire alla TV, come se fosse la madre badessa del convento delle clarisse, che le ragazze non devono frequentare vecchi signori né i party nelle ville dei ricconi, ecc. ecc.. Non perché tali consigli siano disprezzabili, ma perché entra in un ruolo che non è politico quanto educativo (e soprattutto, privato). Tant’è, e a me fa venire un dubbio: che una sorta di “revisionismo” sia entrato, e massicciamente, nella sinistra? Che così, nostalgica dell’uso pre-rivoluzionario dello Smolny (il celebre educandato zarista per signorine di buona famiglia), dopo il crollo del mito dell’Ottobre, abbia deciso di riconvertirvisi tutta.

Teodoro Klitsche de la Grange
.

Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth"(http://www.behemoth.it/ ) Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

giovedì 20 gennaio 2011

Il libro della settimana, Paolo Pombeni, La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino 2010, pp. 715, euro 42,00.

http://www.mulino.it/

.
Da quanti anni si parla della crisi, per dirla dottamente, della forma-partito? Sicuramente se ne discute da quando i moderni partiti sono nati, all’incirca dalla fine dell’Ottocento. Insomma, il partito politico è in crisi da sempre. Probabilmente perché costretto, considerati i tumultuosi sviluppi degli ultimi centocinquant’anni, a trasformarsi in continuazione. Di qui, come mostra la letteratura scientifica in argomento, i vari passaggi organizzativi e sociologici: dal partito dei notabili al partito di massa, fortemente ideologizzato. E poi da quest’ultimo al partito pigliatutto, privo di riferimenti classisti, politicamente disimpegnato e oggi molto sensibile al richiamo della pubblipolitica.
Su questa materia incandescente prova a fare il punto Paolo Pombeni, docente di Storia comparata dei sistemi politici europei nell’Università di Bologna. Il quale, in un testo di sicuro interesse dove raccoglie una serie di saggi in argomento (La ragione e la passione. Le forme della politica nell’Europa contemporanea, il Mulino 2010, pp. 715, euro 42,00), si interroga sul destino del partito. E interrogandosi ricostruisce.
Il filo conduttore della ricerca è che la società moderna faccia tutt’uno con partiti. Di qui l’ impossibilità di rinunciare alla dialettica partitica che, a sua volta, si appoggia alla democrazia. Anzi, secondo Pombeni, ne sarebbe addirittura il sale. «Pare a me - scrive lo storico - che la vicenda della politica europea si sia snodata nella difficile ricerca di un equilibrio tra la sfera della ragione e la sfera della passione nel quadro di una dimensione pubblica che diveniva sempre più dominante». Perciò, continua, « non dovrebbe meravigliare il fatto che per buona parte di questa storia il fenomeno al centro della dinamica sia stata la “forma partito” moderna. È in essa che si sono compensati sia gli aspetti della razionalità (i partiti sono legati alla partecipazione al “government by discussion” e alla difesa della costituzione come “equilibrio”) sia gli aspetti della passione (in quanto costruttori di “cerchie del noi”, i partiti sono agenzie di identificazione e istituzioni che chiedono la disponibilità al “sacrificio”)» .
Questa suggestiva impostazione implica però un fatto. Quello della necessaria e salvifica simbiosi (l’equilibrio) tra partiti e Costituzione. E in un senso preciso: secondo Pombeni la Carta Costituzionale è il baluardo del pluralismo partitico e viceversa. Il che tuttavia, proprio perché si confida nell’assoluta fedeltà costituzionale del partito, non facilita, e talvolta perfino impedisce, la corretta analisi della patologia partitocratica. Un fenomeno, quest’ultimo, che riduce ragione e passione, mortificandole, a puri strumenti al servizio di interessi settoriali, se non proprio corporativi.
Il vero punto della questione è che il partito resta principalmente una delle moderne incarnazioni del politico. Di qui viene la sua naturale forza invasiva, frutto di una volontà di potenza che lo spinge a scontrarsi, oltre che con i diretti concorrenti politici, anche con le varie forme associative pubbliche e private rivali: stato, imprese, sindacati. Insomma, siamo davanti a un’ invasività, che rappresenta la ricchezza stessa del mondo reale. Ma che implica, a sua volta, conflitti, trasformazioni, regressi corporativi, e talvolta rotture rivoluzionarie.
Pertanto è abbastanza riduttivo pretendere di rispondere all’ inarrestabile processo di mutamento che segna il divenire sociale, con aggiustamenti o gabbie costituzionali. O peggio, auspicando il ritorno, negli anni dell’individualismo diffuso, all’età dell’oro del partito come costruttore di “cerchie del noi”.
Ma allora che fare? Già sarebbe qualcosa, crediamo, prendere atto che, come ogni altra istituzione, la forma-partito passa, mentre il politico, come volontà di potenza, resta.

Carlo Gambescia


.

mercoledì 19 gennaio 2011

Riflessioni
Il “Nuovo Mondo”



E così Elton John, come hanno scritto i giornali, "ha coronato il suo sogno". Vista la fama planetaria del cantante, si tratta di una bella lancia spezzata in favore delle adozioni gay. Che dire? Di sicuro a Carlo Giovanardi, noto omofobo, la cosa non piacerà. Perciò aspettiamoci nei prossimi giorni qualche sua uscita… Il Sottosegretario alle Politiche della famiglia è un esperto in entrate a gamba tesa. L'estate scorsa dichiarò che “là dove le adozioni da parte di coppie gay sono consentite, come negli Usa, ma anche in Brasile è esplosa la compravendita di bambini e bambine”. E non contento aggiunse: “Imporre a un bambino adottato due genitori dello stesso sesso significa fare loro violenza psicologica”. Dal momento che ogni bambino “ha il diritto di crescere in un contesto dove una figura paterna e materna sono complementari fra di loro. Togliere questo diritto al bambino è fare una violenza sul bambino stesso”.

Ovviamente si scatenò il finimondo. Ad esempio, Fabrizio Marrazzo, presidente dell’Arcigay Roma, replicò sottolineamdo che “l’osservazione di Giovanardi è contro la parità dei diritti e danneggia non solo gli omosessuali, ma anche i bambini, che per crescere non hanno bisogno di figure particolari, ma semplicemente di persone in grado di prendersi cura di loro, a prescindere dall’orientamento sessuale”. A suo avviso infatti “ le coppie gay non si occupano di contrabbando di minori” e che “in altri paesi, come Spagna e Germania, esistono delle commissioni che hanno il compito di valutare se una coppia è in grado o meno di avere un bambino: solo allora il piccolo viene dato in adozione. Il traffico di minori è un crimine che non ha nulla a che vedere con la comunità gay”.
Tuttavia nel caso di Elton John si tratta del cosiddetto “utero in affitto”, nulla a che fare con le paranoie "gay-complottiste" di Giovanardi. Il quale, tra l’altro, fece subito marcia indietro, ma in modo maldestro, asserendo di essersi riferito “non all’adozione in senso tecnico, ma al mercato del seme selezionato e alla compravendita dei fattori della riproduzione”...
Tuttavia il vero problema riguarda un’altra questione, e di fondo: quella della liceità o meno dell’adozione da parte di coppie gay. E qui va detto che gli unici studi “di verifica”, per giunta pionieristici, riguardano la realtà spagnola, dove l’adozione è ancora in fase di sperimentale. Di conseguenza la base osservativa - come si insegna a “Metodologia della ricerca sociologica” - è ancora troppo ristretta per dare giudizi definitivi pro o contro.
Resta però una questione fondamentale abbozzata da Robert Stoller, psicoanalista americano, in Sex and Gender: On the Development of Masculinity and Femininity (1968, un testo che merita di essere letto: http://www.karnacbooks.com/Product.asp?PID=22). Che tipo di questione? Presto detto. Che l’identità di genere (maschile e femminile) - e ci scusiamo per i paroloni - si forma “disidentificandosi” dai genitori. Ad esempio, la conquista maschile dell’identità è basata sulla “disidentificazione” dalla madre. E si forma precocemente nei primi due anni di vita. Di riflesso all’interno di un coppia dello stesso sesso, il processo diverrebbe troppo complicato, se non impossibile, fino a provocare disastrosi conflitti sull’identità personale di genere nel bambino e poi nell’adulto, generando, per passare dal clinico al sociologico, effetti socioculturali di ricaduta, non poprio positivi in termini di adattamento. Effetti, come dicevamo, ancora da verificare sperimentalmente. Comunque sia, non è questione esclusiva di diritti, come sostengono Giovanardi e la comunità gay, ma clinica e, quanto a effetti di ricaduta, sociologica.
Sempre che non si decida di ammettere, da subito ed ex lege, un terzo genere. Ma saremmo comunque davanti una famiglia con due membri “dello stesso” terzo genere… Il che ci riporta alla questione clinica, correttamente sollevata dal professor Stoller…
Certo, ci si può sempre rispondere che Stoller ha lavorato su dati del passato, fondati su un’ immagine e una pratica della famiglia oggi obsolete, perché la società starebbe evolvendo culturalmente e, grazie alla scienza, anche clinicamente.
Giusto, tutto è possibile. E per questa ragione la storia futura non va “ipotecata”. Il che però non significa che la “transizione” verso il “Nuovo Mondo” sarà "culturalmente" indolore, soprattutto per i “bambini del trapasso” da un tipo di società all’altra: dalla società dei due generi a quella inclusiva (anche a livello familiare) del mono-genere.  Ma, come spesso si sente ripetere, si tratta del giusto prezzo che si deve pagare al progresso…



Carlo Gambescia

martedì 18 gennaio 2011

Una "crisi"politica che viene da lontano
Sinistra in panne


.
Da quanti anni si parla di crisi della Sinistra? Se ne è perso il conto. Proveremo perciò a fare il punto.
.
Ma cos’è questa crisi?
Premessa politologica. Il concetto di crisi indica l’incapacità di un partito, o di un’area politica, di coordinarsi per conquistare il potere. La coordinazione riguarda sia l’elasticità della sua struttura organizzativa (interna), sia la capacità (esterna) di intercettare il voto degli elettori.
In Italia sulla Sinistra ha inciso per anni il peso della tradizione comunista. Il che ha implicato, al suo interno, la necessità di coordinare, dal punto di vista programmatico ed elettorale, i valori di una ideologia rivoluzionaria e anti-sistemica con le regole della partecipazione democratica, e dunque con l’ accettazione, ovviamente provvisoria, del sistema.Perciò fino al 1989 tutte le principali tensioni interne alla Sinistra sono dipese dalla necessità di coordinare ideologia rivoluzionaria e politica democratica. O per dirla poeticamente: le rose con il pane.
Non staremo qui a ripercorrere la storia delle sue scissioni interne, fondate sui diversi modi di intendere la controversa relazione tra sogni e bisogni. Ci limitiamo a ricordare che, con la caduta del Muro, è venuta meno - o comunque si è progressivamente indebolita - la componente ideologica rivoluzionaria, anche nelle frazioni politiche più legate alla tradizione leninista. E qui si pensi alla scelta pacifista, da borghesi illuminati, di un Bertinotti
.
Scegliere di non scegliere
Di conseguenza, nella “Seconda Repubblica”, la politica della Sinistra, una volta gettatasi alle spalle le rose (in verità piene di spine) rivoluzionarie, si è tradotta in un pragmatismo dal fiato corto. Una scelta controproducente, perché ha implicato il reclutamento politico-parlamentare di politici appartenenti ad altre tradizioni ( cattolici e verdi, ad esempio) e l’ ulteriore annacquamento programmatico dei contenuti social-rivoluzionari del vecchio Pci. Di qui due conseguenze, uguali e contrarie: la componente riformista del vecchio Pci, quella amendoliana, è passata armi e bagagli neoliberismo. Mentre l’ala berlingueriana ha scoperto il welfarismo. Rifiutando, in entrambi i casi e pur con formule diverse, di affrontare apertamente una questione fondamentale: quella del superamento del capitalismo.
Il che però apre la questione della mancata “socialdemocratizzazione” della sinistra durante la “Prima Repubblica”. Ma procediamo con ordine.

Nel 1977, anno simbolicamente segnato dalla “cacciata” del “riformista” Lama dall’università di Roma, la Sinistra si divise definitivamente in tre anime: da una parte i riformisti, con propensioni socialdemocratiche, ma largamente minoritari o da tempo confluiti nel Psi craxiano; dall’altra i rivoluzionari, minoritari, esterni al Pci, come la cosiddetta “autonomia”, contigua alla deriva terroristica; al centro la palude, la zona grigia, maggioritaria, né totalmente rivoluzionaria o riformista ma continuista: perché pretendeva, sulla scia di Togliatti e Berlinguer, di costruire il socialismo, attraverso una esoterica via italiana ed europea, capace di conciliare riforme e rivoluzione: eurocomunismo, do you remember?
.
Di errore in errore
Cosa è successo alle tre anime negli ultimi trent’anni?I riformisti si sono fatti risucchiare dal riformismo neo-liberista: l’anima riformista del vecchio Pci oggi è rappresentata, pur con sfumature diverse, da Fassino, Bersani, D’Alema, Veltroni. E in questo senso la sfida degli anni Ottanta risulta vinta post mortem da Craxi, benché molti ex socialisti, ora militino a Destra con Berlusconi… Invece i continuisti, quelli che aspiravano a coniugare riforme e rivoluzione, oggi si riconoscono sia in Sinistra Ecologia e Libertà di Vendola, sia nella Federazione della Sinistra di Ferrero, Diliberto, Salvi. In particolare il Sel si propone quale partito di lotta e di governo, proprio come il vecchio Pci berlingueriano. Un vecchio escamotage per non dover scegliere tra riformismo neoliberista, riforme vere, rivoluzione: un puro cincischiare… Attività in cui Vendola spesso sembra eccellere.
C’è però dell’altro: il continuista, che oggi difende quel welfare che trent’anni fa respingeva come inganno del capitale (si pensi alla posizione di Ferrero ad esempio) , ha pochi punti di contatto con i riformisti del Pd. Forse sui diritti civili, ma non su quelli sociali. E neppure in politica estera, perché il continuista resta, anche se spesso blandamente, antiamericano.
I rivoluzionari, infine, si riconoscono nei nuovi movimenti di protesta. Si tratta di gruppi politici sospesi tra Lenin e San Francesco… Una figura, quella del Santo, evocata proprio da Toni Negri, padre di tutte le “autonomie”. I rivoluzionari sono perciò divisi tra la lotta sociale, anche violenta, a sfondo antiatlantista, antiliberista e un pacifismo no global, totalmente impolitico. Il rivoluzionarismo sembra perciò essere in bilico tra pace totale e conflitto universale: ciancia di pacifismo e intanto prepara la guerra sociale
.


La palude
Dal punto di vista della chiarificazione ideologica sperare in una evoluzione dell’intera sinistra in senso socialdemocratico è molto difficile. Dal momento che le socialdemocrazie europee si sono da tempo trasformate in partiti liberal-riformisti. Si pensi all’involuzione (o evoluzione dipende dai punti di vista…) della socialdemocrazia tedesca e del laburismo inglese. Mancano quindi referenti ideologici, alleati, appoggi concreti. Purtroppo, la fase socialdemocratica è stata a suo tempo saltata. E quando un treno passa… Il che però spiega l’impasse del Pd, che si è dovuto affidare, per battere per due volte Berlusconi, a Prodi, un uomo di centro. Per contro, il continuismo resta ancora troppo legato a vecchi ritualismi pseudo-rivoluzionari o pseudo-riformisti (decida il lettore…). Un esempio di esasperato continuismo si può scorgere nella posizione barricadiera della Fiom. Il cui segretario, Landini, appoggiato apertamente da Sel e FdS, invece di spiegare ai lavoratori la differenza tra riforme e rivoluzione li eccita, pur sapendo di dover prima o poi o trattare.
Quanto al rivoluzionarismo, se dovesse optare per il pacifismo impolitico alla San Francesco, dove potrebbe portare? Da nessuna parte. Per contro, la scommessa leninista, in circostanze storiche diverse da quelle della Russia zarista, potrebbe essere rischiosa, anche per la democrazia. Inoltre, come conciliare la fuoriuscita dalla Nato con il pacifismo? Gli Stati Uniti potrebbero trattare l’Italia da “stato canaglia”. Di lì la necessità di battersi, o comunque di dover trovare, nel probabile isolamento europeo, altri alleati, tra paesi invisi agli Stati Uniti.
.
Morale della favola
Siamo perciò davanti a una Sinistra divisa in “mercatisti” di complemento ( i riformisti neoliberisti del Pd), in cultori di un contraddittorio riformismo rivoluzionario (i continuisti di Sel e FdS ) e nei seguaci di un improbabile San Francesco-Lenin (i rivoluzionari dei movimenti).
Il lettore tragga da sé le conclusioni. 

Carlo Gambescia