giovedì 31 gennaio 2013

Il libro della settimana: Rodney Stark, Il trionfo del cristianesimo. Come la religione di Gesù ha cambiato la storia dell’uomo ed è diventata la più diffusa al mondo, Lindau, Torino 2012, pp. 656 .


Rodney Stark non ha bisogno di presentazioni ( agli eventuali ritardatari consigliamo di cliccare qui:http://www.rodneystark.com/  ). Dal momento che parliamo di un importante sociologo della religione che ha pubblicato una valanga di libri sul cristianesimo, alcuni dei quali tradotti  da Lindau. Come ad esempio la sua ultima fatica: Il trionfo del cristianesimo. Come la religione di Gesù ha cambiato la storia dell’uomo ed è diventata la più diffusa al mondo Stark si è autodefinito un “cristiano indipendente”:

«I have always been a “cultural” Christian in that I have always been strongly committed to Western Civilization. Through most of my career, however, including when I wrote The Rise of Christianity, I was an admirer, but not a believer. I was never an atheist, but I probably could have been best described as an agnostic. As I continued to write about religion and continued to devote more attention Christian history, I found one day several years ago that I was a Christian. Consequently, I was willing to accept an appointment at Baylor University, the world’s largest Baptist university. They do not require faculty member to be Baptists (many are Catholic) and I am not one. I suppose “independent Christian” is the best description of my current position. » ( http://www.cesnur.org/2007/mi_stark.htm )

Pertanto,   il suo approccio  resta  ben lontano da quello  di  certo spocchioso tradizionalismo. Anche perché  distinto dalla straordinaria capacità di demolire  quei  luoghi comuni sorti intorno al cristianesimo,  edificati dai suoi nemici e  spesso   condivisi al suo interno per debolezza o falso senso di colpa.  Stark, per dirla tutta, è una specie di Caterpillar socio-storiografica. Perciò, anche questa volta,  ci troviamo  fra le mani  un libro certamente  battagliero ma costruito su solide basi empiriche, soprattutto quantitative. E in particolare su un’idea della sociologia storica, come scienza che studia le concrete conseguenze delle  scelte individuali e non i voli  pindarici, così apprezzati dai fantasisti della storiografia,  sulla marcia trionfale di astratte forze storiche e sociali.  Ad esempio, secondo Stark, «l’evento di gran lunga più importante nell’intera ascesa del cristianesimo è stata l’assemblea che si tenne a Gerusalemme intorno all’anno 50, quando a Paolo fu concessa l’autorità di convertire i gentili senza che questi dovessero diventare ebrei osservanti». E da lì, grazie alle concrete discussioni tra singoli - discussioni tra “individui” e non tra  burattini  olistici - iniziò la grande volata di una micro-comunità di ebrei  refrattari perché razionalmente aperti al mondo  in  nome dell' universalismo della Croce.  Ma non sono pochi i luoghi comuni messi in discussione  sulla base di accurati  dati statistici. Lasciamo la parola a Stark.
« Il cristianesimo non fu una religione basata sull’adesione degli schiavi e delle classi povere romane, ma attrasse in modo particolare i membri delle classi privilegiate. Lo stesso Gesù proveniva probabilmente da un ambiente ricco». E così i pauperisti sono serviti. «La misericordia cristiana ebbe conseguenze così profonde in tutto il mondo che i cristiani vivevano anche più a lungo dei loro contemporanei pagani». Si tratta di una tesi affascinante  già  avanzata da Sorokin. E  bene ha fatto Stark a svilupparla. Ma andiamo avanti:   «In un mondo romano, con una maggioranza di maschi, fra i primi cristiani le donne erano molto più numerose degli uomini. Questo perché i cristiani non “scartavano” i neonati femmine e le donne cristiane non avevano un elevato tasso di mortalità dovuto ad aborti praticati in un mondo privo di conoscenze scientifiche e di cure mediche adeguate. La grande presenza femminile si deve anche al fatto che le donne erano più inclini degli uomini a convertirsi» Bellissimo ritratto statistico -  in controtendenza - di una religione al  femminile  senza per questo essere femminista...  «Il paganesimo non fu rapidamente represso da un cristianesimo trionfante e intollerante, ma scomparve molto lentamente, e anzi è ancora praticato in vari circoli New Age ed esoterici». E così sono serviti anche  i piagnoni del paganesimo del bel tempo che fu...  E che dire della stoccata finale?

«La tesi che la religione deve presto scomparire quando il mondo diventa più moderno non è altro che una forma di «wishful thinking» da parte degli accademici atei. – Nonostante i bassi livelli di partecipazione religiosa prevalenti in Europa, la religione prospera, forse come mai ha fatto prima, in tutto il globo. Escludendo la Cina, ma includendo l’Europa, il 76 per cento degli esseri umani afferma che la religione è importante nella loro vita quotidiana. – Più del 40 per cento delle persone di tutto il mondo è costituito da cristiani e il loro numero cresce più rapidamente di quello di ogni altra religione importante» (p. 543).


In buona  misura,  Stark cerca di provare - contro  coloro che sostengono la natura irrazionale del cristianesimo - che questa religione vinse (e continuerà) a vincere perché più socialmente razionale di altre fedi.  Affermazione, vagamente hegeliana e  sicuramente forte,   che  non  tutti condividono.  Si tratta però di una  tesi  che Stark sostanzia articolandola intorno a una ricca documentazione storica e sociologica che  mostra  le grandi capacità autoriproduttive del cristianesimo, e  non solo in termini di trasformazione ma anche di adattamento sociale.  E che  perciò non può essere  assolutamente trascurata.

Carlo Gambescia

mercoledì 30 gennaio 2013

“Piani del lavoro”, 
democrazia e bene per l’altro


Leggevamo alcuni giorni fa del  piano del lavoro messo a punto  da un importante sindacato italiano. Ora,  l’idea di piano, a prescindere dai suoi contenuti, è sempre un atto di presunzione: si presume di conoscere quale sia il bene per l’altro.  Ci spieghiamo meglio:   se è così difficile sul piano individuale stabilire, da noi stessi, quale sia il nostro bene, figurarsi l’idea che siano altri a stabilirlo per noi… Anche perché in assoluto, ogni singolo individuo, per quanto in modo imperfetto, non può non essere il miglior giudice del proprio bene. Sia ben chiaro:  le stesse critiche potrebbero essere mosse a un piano economico   proposto dalle organizzazioni imprenditoriali...
Resta ovviamente in piedi il problema della decisione politica: se nessuno è in grado di stabilire quale  sia  il bene per l’altro, chi  ( e come) prenderà   le decisioni  riguardanti la quantità e la qualità  dei beni e dei servizi collettivi da "erogare" ?  Le decisioni politiche, insomma?  Si pensi solo alla determinazione dell''entità  delle  tasse da versare allo stato.   Su questo terreno - molto scivoloso -   le democrazie, rispetto agli altri regimi politici, offrono un criterio decisionale approssimativo ma tutto sommato efficace: il criterio di maggioranza;  si decide per la proposta “comune” che prenderà più voti.
Naturalmente la maggioranza ( o coloro che sono stati delegati dalla maggioranza) può sbagliare. Di qui la possibilità, con l’alternarsi delle maggioranze ( e dei rappresentanti) di rettificare le decisioni precedenti.

Pertanto, un piano del lavoro ( o di altro genere) non ha alcun valore assoluto. Va visto, più semplicemente, come un modello interpretativo: il modo ( tra i tanti) grazie al quale una certa minoranza, che vorrebbe diventare maggioranza, interpreta la realtà. E qui torniamo alla questione precedentemente affrontata del relativismo (http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2013/01/relativizzare-il-relativismo-il.html   ).  Dal momento che senza un approccio relativistico  alla realtà politica (“oggi vinco io, domani vincerai tu, e così via”) la democrazia rischia,  e da sempre, di trasformarsi in tirannia  di una qualche presuntuosa maggioranza , assolutamente certa   di  conoscere  non solo  quale sia il bene per la sua parte ma addirittura per tutti i cittadini.  

Carlo Gambescia 

martedì 29 gennaio 2013


Se è vero che discendiamo dalla scimmia  allora  è  altrettanto vero  che  dobbiamo prenderci tutto il "pacchetto"... Perciò,  oggi  Carlo Pompei ci parla di ammaestramento umano, tecnologie avanzate, sviluppo dell'  intelligenza ed evoluzionismo al contrario.
Inutile spendere altre parole di presentazione.     Ormai i  lettori del  blog   conoscono e apprezzano  il “metodo Pompei”. Buona lettura. (C.G.)





La tecnologia nel pianeta delle scimmie
di Carlo Pompei




Ma siamo sicuri che le nuove generazioni siano più intelligenti di quelle di una volta?  Probabilmente la tecnologia ci trae in inganno quando vediamo un bambino di cinque anni armeggiare con quelle diavolerie ultramoderne che spaventano un cinquantenne. Ad una migliore analisi della situazione possiamo dire che quanto viene spacciato per intelligenza superiore è null'altro che una accozzaglia di riflessi pavloviani che consente al bambino di effettuare una serie di operazioni ripetitive.
Tutto ciò somiglia molto a quegli esperimenti eseguiti con la collaborazione (si fa per dire) delle scimmie finalizzati a dimostrare che un primate debitamente ammaestrato possa completare un ciclo elementare (che non significa semplice) di riconoscimento alfanumerico e/o cromatico.
Pertanto, se ci soffermiamo a osservare i bambini e gli adolescenti che, come si dice oggi, "smanettano" con questi attrezzi da svago e telecomunicazione, ci accorgiamo che non sono mossi da una intelligenza che gli consente di comprendere che cosa stiano facendo, ma semplicemente eseguono, come già detto, soltanto operazioni cicliche.
Prova ne è il fatto che, quando l'apparato (o come dicono i maniaci della tecnologia con gli inglesismi facili, il device) non esegue l'operazione che il bambino gli ha comunicato tramite un'interfaccia sempre più "friendly", fatalmente assistiamo a fenomeni sconcertanti: le bambine urlano uno scocciato "uffi" (quelle educate e un po' radical-chic), tutte le altre e i bambini, invece, ad emulazione paterna, tirano un bestemmione decontestualizzato che fa tremare il colonnato di piazza san Pietro.
Da quanto detto si desume che i “pargoletti” non abbiano alcuna capacità risolutiva del problema incontrato, pertanto tutto ciò che va sotto il nome di intelligenza non riguarda affatto la questione in esame, dato che - botta di cultura… - intelligeresignifica saper interpretare (con il proprio cervello) dati variabili che ci si presentano come parametro da elaborare.
A rischio di essere tacciati di complottismo, potremmo arrivare a pensare che tale meccanicizzazione dei cicli ludici (ma successivamente lavorativi) serva esclusivamente a far sopportare talune anomalie comportamentali come quelle causate dalla compilazione di un "f24 online". Pensateci un attimo: depositate i vostri soldi in banca, neanche vi ringraziano, anzi spesso vi trattano come un pezzente, trattengono una parte di liquidità e ne fanno ciò che vogliono. Quando vi serve un impiegato vi accorgete di avere a disposizione il più fidato di tutti: siete voi stessi con il vostro fantastico token otp sempre in tasca.
È un sistema geniale, altro che scimmie ammaestrate.

Carlo Pompei

Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level".

lunedì 28 gennaio 2013




La posta di donna Mestizia
(di Roberto Buffagni)

Cara donna Mestizia,
Le scrivo per sfogare il nervoso, intanto che Mario è andato a fare la spesa (sapesse com’è raffinato, dal macellaio esige la tracciabilità del filetto!). E va bè, ciabbiamo una banca anche noi, coi suoi bei derivati e tutto! E allora? Cosa credono, che siamo qui a cambiare gli infissi al Colosseo? A dare la cera in autostrada? E’ la de-mo-cra-zia, cara signora! I lavoratori avranno il diritto di stare sui mercati, sì o no? E per stare sui mercati altro che pettinare le bambole, ci vogliono i soldi! Cara signora, qui sento un Profumo che mi convince poco! Profumo di poteri forti!
Urge Consiglio

Caro Urge Consiglio, 
perché non chiede al Suo Mario, quando torna dalla spesa? Lui che è tanto raffinato, avrà buon naso per i profumi. No? 

Cara donna Mestizia,
Mario dice che ha il raffreddore!
Urge Consiglio


Caro Urge Consiglio,
è di stagione. Gli dica di stare ben coperto e gli faccia i miei auguri di pronta guarigione. Che cosa Le ha comprato per cena?
Cara donna Mestizia,
Mario La ringrazia degli auguri. Per cena, niente filetto: dice che costa troppo e che dobbiamo risparmiare. Stasera, un bello spezzatino con le patate! La tenerezza che mi fa, quando si mette ai fornelli, con il suo bel grembiulino candido…c’è solo una cosa che mi lascia un po’ perplesso: secondo Lei, perché mentre cucina fa dei segni strani per aria con le mani? Sa tipo abracadabra? E poi perché per rimestare in pentola usa sempre una cazzuola da muratore? E adoperare un cucchiaio come la gente normale, no? Troppo facile? Mah. Io certe volte non lo capisco, il mio Mario.
Urge Consiglio



Caro Urge Consiglio,
stia mica lì a smacchiare i leopardi, a tagliare via i bordi dei toast, a fare la ceretta allo Yeti, ad asciugare gli scogli, a mettere la schiuma da barba nei Ringo, a passare il Folletto nel Sahara, a cotonare i Pooh! Non la conosce, la legge del menga? Chi ha l’amore se lo tenga! A risentirci, e buon appetito.
* * *

Spett. donna Mestizia,
i Ns. uffici in sede Antro di Trofonio hanno rilevato che in corrispondenza del 27 gennaio dell’Era Volgare, si registra annualmente un picco di drenaggio dalle risorse idriche in Ns. gestione. Accurate indagini hanno evidenziato che detto incremento periodico è causato dalla celebrazione, nei Territori del Tramonto, del rituale denominato “Giorno della Memoria”. Nell’intento di ottimizzare il servizio, ricordiamo a tutti i gentili Utenti che ad ogni incremento nel consumo di risorse idriche scaturenti dalla Fonte “Mnemosine” corrisponde un identico incremento nel consumo di acque erogate dalla Fonte “Lete”. In breve: più bevete Memoria, più bevete Oblio. (Cfr. pag. 11, §§ 2 e 3 del contratto di fornitura da Lei sottoscritto). Poi vedete Voi. Distinti saluti.
Ananke® s.r.l.

Spett. Ananke® s.r.l.,
non ricordo di avere mai firmato un contratto di fornitura idrica con Voi. Distinti saluti.



Spett. donna Mestizia,
come volevasi dimostrare.
Ananke® s.r.l.

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

venerdì 25 gennaio 2013

Lo scandalo MPS



Roma. La famigerata  "Esattoria" di  via dei Normanni ( Fonte:  Arch. fot. "l'Unità") 



Qui a Roma, del Monte dei Paschi  tutti ricordano la famigerata ’Esattoria" di via dei Normanni numero cinque,  oggi ex: un palazzone in stile democristiano con vista su Colosseo e scavi, dove si respirava un  insalubre clima da ministero (“vadi” sotto, “vadi” sopra,   stanza 1, stanza 2, eccetera). Inutile  accennare ai modi sgarbati del personale di sportello verso un'umanità  varia,  implorante e sudata, anche in pieno inverno.   
Ma queste sono osservazioni “micro-sociologiche”… Invece, sul piano “macro”, la situazione, alla luce di quel che sta accadendo, sembra essere ben più grave… Semplificando: la banca più “buona” d’Italia si  sarebbe  pappata i soldi di clienti e forse contribuenti, lanciandosi in scalate e speculazioni di vario genere (quindi non solo derivati). E ora,  dopo aver  tenuto ben  nascoste le carte della colpa,  vorrebbe  l’aiuto dello Stato. E quindi i denari degli stessi contribuenti turlupinati.  Adesso, nelle scomode  vesti  dei disgraziati che si aggiravano per i corridoi di via dei Normanni con le cartelle delle tasse in mano ci sono i megadirigenti dei Paschi...  Dio esiste.   
Naturalmente, visto che siamo in campagna elettorale, la destra sta cercando di sfruttare politicamente il vicolo cieco in cui si è infilata una banca targata sinistra. In realtà, il punto è un altro:  non ci sono banche di destra e banche  di sinistra, ma semplicemente banche oneste e banche disoneste. Il lettore tragga da solo le  conclusioni.
Dimenticavo. Sembra che  il  prezzo  delle  azioni  Mps  stia  precipitando. Purtroppo,  chi di Borsa ferisce, di Borsa perisce. È il capitalismo bellezza…


giovedì 24 gennaio 2013


La  recensione di Teodoro Klitsche de la Grange  al  buon libro di Agostino  Carrino  evidenzia, e  giustamente, il motivo conduttore del volume:  che il diritto costituzionale non discende dalle innevate vette  del puro pensiero giuridico,  ma  fuoriesce in modo magmatico e incandescente  dalle  profondità  vulcaniche del "politico".   Di qui, il pericolo di bruciarsi.  Osservazione   che sembra  banale...  Ma, come si dice,   non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E  qualsiasi riferimento  al  feticismo  normativo  di  certi   professori e al costituzionalismo giudiziario di alcuni giudici,   non è puramente casuale.  Buona lettura. (C.G.)



Il libro della settimana: Agostino Carrino, La giustizia come conflitto. Crisi della politica e stato dei Giudici, Mimesis, Milano 2011, pp. 284, € 18,00 - (Recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange)  


Se qualcuno pensa che il diritto costituzionale sia quella disciplina giuridica per fratellanze esoteriche e spesso pompose, autoreferenziali e con tendenze ieratiche, questo libro – come altri di Carrino – è una boccata d’aria fresca (e originale). Consta di cinque saggi, scritti dalla fine degli anni ’90 ad oggi: il tema è la crisi dello Stato contemporaneo: la maggiore attenzione è dedicata al ruolo – straripante e stravolgente – del diritto sul politico e del potere giudiziario sugli altri poteri dello Stato.
Scrive Carrino che il diritto e il potere “sono principi regolativi autonomi dell’azione sociale, sfere distinte ma connesse nella storia di tutti i popoli. Un potere senza diritto avrebbe vita breve, ma il diritto che contesta il potere è non solo un’illusione, ma contiene in sé il rischio di danneggiare sia la giustizia sia la pratica politica concreta”; e che “lo Stato di diritto si trasformi in Stato dei giudici (di rischio di una ‘tirannia dei giudici’ in alternativa ad una ‘tirannia delle maggioranze’ si discute nel diritto costituzionale americano praticamente da sempre)”. L’idea che il diritto possa fondarsi su se stesso, così facilmente contraddetta dalla realtà “parte con Kant, raggiunge Kelsen (il quale la costruisce come sistema nella sua ‘dottrina pura del diritto’) e infine i teorici del neocostituzionalismo” ed è suscettibile di gravi conseguenze sulla stabilità, congruità, coerenza dell’ordinamento, indebolendolo sia sul piano delle garanzie di diritti che della protezione della comunità. Scrive l’autore “questa idea di un diritto autoreferenziale è non soltanto indifendibile dal punto di vista dottrinale, ma catastrofica nelle sue conseguenze, perché finisce con il togliere ai politici le loro responsabilità: il politico diventa ‘amministratore’, ‘esecutore’ della volontà del giudice (in senso sistemico), rinuncia cioè alla sua originaria autonomia. In una società di totale, reciproca irresponsabilità, il rischio è che il potere cada nelle mani di forze anonime e oscure, sia a livello interno sia a livello internazionale. Le leggi, in verità, non governano, governano gli uomini e così il diritto è solo e sempre l’espressione di una determinata società politica e dei fini che essa si dà”. Il neo-costituzionalismo, che insieme al “governo dei giudici” è il bersaglio principale di Carrino, sostituisce alle norme i “principi” e/o i “valori”. Ma il valore “è sempre e per sua natura soggettivo”; per cui “Quando si parla di ‘valori’ che stanno sotto i principi costituzionali, ad esempio, si tratta sempre dei ‘valori’ che vengono interpretati e quindi anche qui di valori soggettivi, nella fattispecie dei valori che un consesso di giudizi costituzionali, ad esempio, ritiene essere legittimanti dei ‘principi’ costituzionalizzati. Per questo ciò che si può e si deve ‘prendere sul serio’ non sono i valori in quanto tali, ma il conflitto di valori, conflitto che non ha mai bisogno veramente (solo) di un giudice per essere superato, ma del politico, della forza, dell’autorità”. Per cui alla fine il tutto serve solo a legittimare il potere interpretativo dei giudici. A tutto ciò l’autore contrappone che “questa impostazione, che si pretende intellettualmente superiore e tesa ad una società più ‘giusta’, in realtà finisce con il perdere di vista il fatto che tutti i testi giuridici, compresa la Costituzione, non dipendono da una mera attività interpretativa della loro intrinseca (e presunta) razionalità, ma da un contesto storico-spirituale assai più ampio. La Costituzione è un bene che il popolo si dà e che non può essere affidato in esclusiva a nessun altro” per cui “lo Stato dei giudici è in effetti uno sbocco ineliminabile di ogni ordinamento giuridico che non cerchi in qualche modo di sottrarre la Costituzione alla tutela esclusiva della magistratura, ordinaria e costituzionale. La Costituzione deve essere patrimonio di tutti gli organi dello Stato e in primis dell’ ‘organo’ sovrano, il popolo, ma anche qui non in maniera determinante”.
Al quale spetta, si può aggiungere il potere costituente, che non a caso è del tutto trascurato (et pour cause) da coloro che esaltano la costituzione vigente e il potere interpretativo dei giudici costituzionali (di fatto sconfinante nella revisione apocrifadella Costituzione) la cui massima è “la Costituzione non si cambia, s’interpreta”.
Altri saggi trattano del rapporto tra liberalismo e democrazia, il nichilismo e il diritto, la giustizia e la politica.
I limiti “fisiologici” di questa recensione non consentono di approfondire i vari temi trattati, ma solo il “filo conduttore” principale. E cioè che dalla crisi della Repubblica italiana non si può uscire enfatizzando il ruolo del giudice né quello del diritto versusla politica.
In realtà il diritto non può sostituire la politica, a meno di non mutarsi in quella; così il potere giudiziario non può surrogare agli altri se non cessando di essere “potere giudiziario”, nel senso, ben s’intende, dello Stato borghese di diritto. Per cui illusioni del genere costituiscono il grimaldello per scardinare lo Stato costituzionale nato dalle rivoluzioni borghesi. Il costituzionalismo “classico” è parte della concezione liberale del potere e dello Stato: la quale nasce dal potere costituente, dall’onnipotenza (giuridica) della Nazione, dalla distinzione dei poteri, e, non ultimo, da una tutt’altro che celata diffidenza verso la burocrazia e il potere giudiziario.
Nella situazione italiana contemporanea pensare che sia possibile governare uno Stato ed ora uscire dalla crisi – che è prima di tutto politica e probabilmente epocale – confidando nel potere dei giudici è pensare di avere scoperto la pillola contro il terremoto.
Va da sé che, in definitiva, alle concezioni criticate da Carrino, che sono una specie di pangiuridicismo, possono indirizzarsi critiche analoghe a quelle che Maurice Hauriou rivolgeva a Kelsen. Ovvero che il normativismo (che è una “variante” di pangiuridicismo) del giurista austriaco aveva due limiti fondamentali: da un lato d’aver costruito un sistema statico, poco adatto a comprendere una realtà essenzialmente mutevole e dinamica come l’ordinamento giuridico; dall’altro di aver costruito un sistema più pericoloso per la libertà degli ordini comunitari fondati su convinzioni teologiche e religiose. Perché il dominio dell’ “imperativo categorico” normativista, scriveva il giurista francese, è assai più pericoloso per la libertà di quanto fossero le concezioni teologiche cristiane. E ciò è ancor più vero per certi talebani del costituzionalismo che pretendono di eternizzare la Costituzione del ’47 (e i poteri d’ “interpretarla”): ma ciò a scapito della libertà politica del popolo italiano di darsi una nuova costituzione e un nuovo ordinamento. Cosa che i teologi cristiani – da S. Tommaso a Suarez, da Bellarmino a Mariana, dai gesuiti ai monarcomachi protestanti – hanno sostenuto e legittimato. Ed ancora è insegnato nelle encicliche papali: onde affidarsi a quelli, piuttosto che a certe concezioni, è più propizio alla libertà dei popoli e, spesso, anche degli individui.

Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" ( http://www.behemoth.it/  ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

mercoledì 23 gennaio 2013

MERCOLEDÌ, GENNAIO 23, 2013

Di Luigi Einaudi si diceva che i suoi articoli sempre chiari e alla portata di tutti, fossero ritagliati e conservati religiosamente da professori di liceo, studenti, professionisti, commercianti e farmacisti. Insomma, la base elettorale di quel partito liberale di massa mai nato in Italia ( ma questa è un’altra storia…). Perciò non abbiamo provato stupore quando  Raffaele Siniscalchi (*), dottore in  farmacia,  ci ha inviato un interessante articolo di sapore einaudiano.  Ecco la riprova,  abbiamo pensato,  che   Luigi Einaudi è da sempre  nel Dna dei  farmacisti...
Comunque sia, l’argomento di cui tratta, soprattutto in un periodo in cui molti confondono  il  liberismo con il liberalismo,  è di strettissima  attualità.  Di qui la nostra decisione di pubblicarlo.  Buona lettura. (C.G.)




Liberali e liberisti
di Raffaele Siniscalchi

Einaudi, se ci si passa la battuta, era un “liberalista” convinto, non un liberista! La diatriba intrapresa con colui che rappresentò il suo mentore, Benedetto Croce, fu epica. Infine si arrese, non per convincimento ma per il rispetto dell’altrui pensiero e per  timore  dell’inevitabile confusione che sarebbe susseguita nella politica economica dell’epoca.
Chi si professa liberista dovrebbe confrontarsi con le idee “liberaliste” di Einaudi. E’ facile far confusione. Un conto è essere liberisti, altro -  battute a parte -  definirsi liberali!  Oggi tutti, o quasi tutti, si dicono liberali e parlano sempre di liberalismo e liberismo, senza sapere di che si tratta e contraddicendosi nei fatti.
Nel 1948 Einaudi scriveva sul “Corriere della sera” un elogio della “libertà dell’uomo comune” professando la tesi che la libertà politica debba procedere di pari passo con la libertà economica. Anzi essa – la libertà economica – " è la condizione necessaria della libertà politica.” Dal momento che “vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico, della libertà: all’un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all’altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà “.
I principi, di cui ho sinteticamente dato un accenno, furono ampiamente dibattuti con Benedetto Croce in una discussione cominciata in era fascista e terminata a guerra finita nel 1949. Ognuno restò sulle sue posizioni.
Croce, filosoficamente, riteneva l’uomo libero di pensare e scegliere, sempre e comunque. Anche di fronte a scelte di vita o di morte per sé o i suoi affetti (la sottomissione o la morte è pur sempre una scelta, ma non è vita!).
Einaudi, invece, estraneo all’idealismo filosofico, sentiva la scelta obbligata come un’offesa alla dignità dell’uomo, un’immoralità , frutto di una sudditanza del libero arbitrio.
Forse i due avrebbero dovuto meglio definire quelli che ritenevano dovessero essere i confini della “libertà dello spirito” e quali quelli della “libertà dell’individuo”. Tuttavia nel 1928, ne “La Riforma Sociale”, Einaudi accettò la tesi di Croce secondo il quale il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo.
Einaudi etichettava come liberisti “coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro, l’azione libera dell’individuo coinciderebbe sempre con l’interesse collettivo” .
Molti anni dopo, nel 1941, precisò meglio che il liberismo non dovesse essere il “lasciar fare”, ma l’intervento dello Stato che fissa i limiti entro i quali il privato può muoversi, eliminando gli ostacoli burocratici, atti a impedire il funzionamento della libera concorrenza. Senza tuttavia consentire che la libertà fornita possa, per quelle forze naturali sprigionatesi da essa, ostacolare lo stesso processo competitivo.
Quindi diversificò il concetto interventista statale (comunista) dal liberista, esso “non sta nella 'quantità' dell’intervento, bensì nel 'tipo' di esso (…) Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio muoverti”.
Einaudi era consapevole che liberismo e liberalismo non sempre collimano. Il primo riferentesi a quella dottrina economica caratterizzata dalla valutazione negativa dell’intervento statale nell’economia, il secondo, invece, basato sull’affermazione e la rivendicazione di un nucleo di diritti individuali inalienabili a fondamento di ogni convivenza civile.
Ai primi posti tra i diritti individuali sono stati posti, nella nostra Costituzione, il lavoro, il diritto alla salute e quello all’istruzione. E non necessariamente in quest’ordine, avendo tutti pari dignità.
Oggi alcuni economisti provano a stabilire una classifica di priorità nella scala di valori della vita sociale. Eppure lo stesso Croce affermò che “chi deve decidere non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l’accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana”.
Se, nell’attuale clima politico, coloro che saranno chiamati a legiferare liberalizzeranno i processi produttivi nell’interesse del cittadino, ponendo precisi limiti al “lasciar fare” dei “padroni del vapore”,  come al contrario vorrebbero i gruppi economici di potere, e slegando i lacci e laccioli burocratici che bloccano lo sviluppo, allora l’Italia potrà pensare di risollevarsi dalla crisi in cui versa.
Concludendo: liberali sì, liberisti no. O comunque, sempre con giudizio.

Raffaele Siniscalchi

(*) Raffaele Siniscalchi  è  figlio  di insegnanti elementari.  Eclettico e autodidatta con molteplici interessi, coltiva l'hobby della fotografia e la passione per moto e motori. Come ripiego dall'esclusione nel concorso in Aeronautica Militare, si iscrive alla Facoltà di Farmacia (Università degli Studi di Camerino), dove si laurea nel 1989. Direttore e poi titolare di farmacia dal 1991 in un piccolo paese garganico in prossimità del Lago di Varano.

martedì 22 gennaio 2013

Analisi
I "candidati incandidabili" 



Si può ricavare una lezioncina  di sociologia dalla questione dei cosiddetti “candidati incandidabili”?  Certamente.
Secondo la legge italiana (almeno per ora)  non è candidabile chiunque riporti condanne definitive (in ultimo grado di giudizio), tutti gli altri (sospettati, inquisiti, condannati nei primi due gradi) non dovrebbero essere esclusi.
Per quale ragione  abbiamo usato il condizionale? Perché da un lato abbiamo un principio elevatissimo, o se si preferisce un grande valore:  la presunzione di innocenza (fino a sentenza di colpevolezza passata in giudicato), dall’altro un fattore sociologico fondamentale: la pressione sociale, o se si preferisce dell’opinione pubblica; pressione che spesso, come sta  accadendo,  prova di  valere  più di un  principio, anche il più nobile.  Ciò spiega il nostro “non dovrebbero essere esclusi”.
Pertanto, la  lezione di sociologia consiste in una semplicissima constatazione: che la rappresentazione sociale di un certo individuo  può avere la meglio sui  principi. Detto altrimenti:   la società (che si "ciba" di  rappresentazioni)  usa  spesso  vendicarsi  di chi intenda cambiarla sforzandosi di tradurre  in legge  i grandi principi, come  quello della presunzione di innocenza, recepito dall'attuale legge elettorale.   Di conseguenza i  valori  hanno autentica rilevanza o  effettività sociale soltanto quando rispecchino in qualche misura  la volontà costante dell’opinione pubblica.

Insomma,  la sociologia insegna che  la volontà sociale è più forte delle leggi. Di qui l'importanza della effettiva  traduzione sociale di qualsiasi valore o principio. Anche il più alto. 
Che poi l’opinione pubblica, che di volta in volta se ne fa interprete, possa essere manipolata o autentica, è un’altra storia…  E in ogni caso è  questione che in ultima istanza rinvia alla volontà politica.   

Carlo Gambescia

lunedì 21 gennaio 2013



La posta di donna Mestizia
(di Roberto Buffagni)


Cara donna Mestizia,
in occasione del tredicesimo anniversario del mio trasferimento Qui, La prego di trasmettere i miei saluti a tutti i compagni e le compagne, gli amici e le amiche che ancora risiedono Là: in particolare a quelli dei tempi meno lieti. A tutti gli italiani, invece, vorrei rivolgere per Suo tramite un ammonimento: stavolta, attenti alle monetine! Non le sciupate! L’ultima volta che ci siamo visti, quante me ne avete buttate addosso! Ricordate? A piene mani, come dei gran signori! Senza neanche darvi la pena di raccoglierle da terra, dopo che me n’ero andato. E adesso? Adesso che avete le tasche vuote, vi farebbero comodo, eccome se vi farebbero comodo quelle lirette…
Bettino X

Caro Bettino X,
volentieri trasmetto i Suoi saluti e il Suo ammonimento, sebbene tema che quest’ultimo sia, come le lirette di cui parla, ormai fuori corso; anche se conserva comunque il suo valore numismatico e affettivo.

* * *

Egregia donna Mestizia,
ricoperti per lungo tempo ruoli dirigenziali al massimo livello, oggi complesse vicende personali e pubbliche mi motivano a una svolta di vita e di carriera. Disposto a trasferirmi, automunito (autoblu), esperienza internazionale (sono di casa a Montecarlo), bella e giovanile presenza (sono un subacqueo appassionato), attitudine ai contatti con il pubblico, servizievole, mi ritengo il segretario ideale. Lettore assiduo della Sua preg.ma rubrica, esaminerei con interesse una Sua proposta di lavoro. Allego curriculum dettagliato. RingraziandoLa per l’attenzione, in attesa di un Suo cenno di riscontro La saluto cordialmente. Suo
Gianfrusto Finis

Gentile Gianfrusto Finis,
La ringrazio della Sua offerta, che purtroppo sono costretta a declinare. Un segretario, in effetti, mi farebbe comodo assai. Consultando il Suo curriculum, però, ho constatato che le organizzazioni presso le quali Lei ha prestato la Sua opera in qualità di segretario hanno tutte finito per sciogliersi o almeno declinare irreversibilmente. Non dubito si tratti di una pura coincidenza, ma veda, ho una debolezza: sono superstiziosa.

* * *

Cara donna Mestizia,
anzi, se mi permette, cara amica, cara benefattrice! Devo, anzi dobbiamo ringraziarLa con tutto il cuore per il Suo consiglio della scorsa settimana, che ci ha permesso di superare le nostre incomprensioni e di trovare questa nostra piccola, incredibile, miracolosa felicità! Ma facciamo un passo indietro. Lei certo ricorderà che la settimana scorsa uno di noi, a firma “Babbo Ansioso”, Le ha scritto una lettera irritata nella quale lamentava l’ingratitudine di “ ‘sto patacca” che dopo esser stato fatto senatore a vita, “incensato, servito e riverito” si metteva a fargli concorrenza elettorale. E Lei, nella saggezza del Suo intuito femminile, gli suggeriva di mettere da parte l’acredine e di fare pace, per la nostra serenità, per il bene dei nostri ragazzi… Bene: quell’ingrato, quel “patacca” ero io (così mi chiamava, l’adorabile sciocchino!). E oggi lo voglio confessare di fronte a Lei, di fronte a tutti: era colpa mia, tutta colpa mia. Cosa vuole, mi hanno educato così: mi tengo tutto dentro, non so esprimere le mie emozioni e finisco per sembrare freddo, scostante, altezzoso… invece, sotto il mio loden batte, e come batte! un cuore assetato di tenerezza, di comprensione, d’amore…Così, quando lui, quel mattino quasi all’alba, è venuto da me e mi ha guardato con quegli occhi furbetti, e con quella sua faccia genuina, quella sua tenera pelata, quel suo sigaro da ragazzo del bar mi ha detto, in un tono disarmato che non si può descrivere: “Mario…” Ecco! Di colpo, la lastra di ghiaccio che imprigionava i miei sentimenti si è spezzata, e ci siamo precipitati l’uno nelle braccia dell’altro. Pensi che da quel momento, come Lei suggeriva ci chiamiamo con i teneri vezzeggiativi di “Papacco” (lui) e Patò (io). Nulla può ricambiare il dono che Lei ci ha fatto: ma La prego, La preghiamo di voler partecipare, ospite graditissima, alle nozze che coroneranno la nostra felicità (invito accluso, RSVP). Suo
Patò

Caro Patò,
accetto con gioia. Tanta felicità! 
* * *

Cara donna Mestizia,
scusi se disturbo ancora, ma casualmente oggi ho scoperto che per l’anagrafe Patò, insomma Mario, è lui il genitore 1. Dice che è lo sbaglio di un collaboratore. Sarà, ma anche in ordine alfabetico dovrei essere io, non Le pare? Come la mettiamo?
Papacco

Caro Papacco, 
non ricominciate, voi due!

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

venerdì 18 gennaio 2013


Et voilà. Carlo Pompei  ci spiega, in poche e gustose  righe, perché le prossime elezioni non  influiranno più di tanto sulla  vita  degli italiani.   Insomma, se ci si perdona il gioco di parole: un voto, v(u)oto a perdere…
Chicca: la tagliente  immagine di “copertina” (diciamo così) è del Pompei grafico.  Buona visione e lettura. (C.G.)


Elezioni 2013 
Politica malata, 
tra controfigure e manette
di Carlo Pompei




Nosferatu-Monti è pronto a rientrare nel suo gelido sarcofago? L’ultimo Cavaliere (dell’apocalisse) ha stretto un patto con il diavolo, oltre che con Maroni e un chirurgo plastico? Il capo (stazione) del PD ha un asso nella manica, ma lo tiene ben nascosto? Il Grillo urlante vuole veramente governare? Se sì, ne ha la stoffa?
A queste domande cercheremo di rispondere effettuando una lettura dei loro atteggiamenti e propositi.
Il premier dimissionario probabilmente verrà rimesso in carica collegato a decine di porte usb alimentate ad energia sòlare (da sòla, in romanesco: fregatura), pronto ad ulteriori emergenze “tecniche” dettate dai Draghi della Bce. Monti non ha alcun carisma politico presso le masse: le manovre impopolari (IMU e IVA su tutte) che ha dovuto avallare sono assolutamente incompatibili con qualsivoglia speranza di ottenere consenso sufficiente alle urne, a meno che gli italiani credano alla favoletta della revisione delle tasse.
La favoletta riguarda anche il Berluscavaliere. Questi si farà disarcionare da un suo delfino (probabilmente non Angelino, ma un ripescato dalla Lega o da altra fazione coalizzata), ma soltanto quando avrà la sicurezza che la Magistratura lo lascerà in pace. Nel frattempo dovrà giocare la sua partita a scacchi con la morte (politica, si intende, quella biologica non riguarda un highlander della sua tempra). Berlusconi potrebbe avere buone possibilità per il suo fare “inclusivo” e per il fatto che, probabilmente – oltre tutti i suoi stipendiati diretti ed indiretti – tutti i tifosi del Milan lo votano (no, non stiamo scherzando).
Bersani dovrà finalmente scoprire le sue carte ed ammettere che i papabili “delfinocchi” comunque portano voti e questo gli causerà qualche grana non tanto nel rappresentare la sinistra, quanto quel centro che, demo-cristianamente, ambisce a conquistare. Il leader del PD è ancora in brodo di giuggiole per avere vinto le Primarie del proprio partito, ma non considera che tra i “fantastici cinque” era l’unico ad avere qualcosa da perdere nel confronto: Vendola e Renzi hanno i loro seguaci e tempo accessorio, Tabacci e Puppato sono stati presentati come due controfigure funzionali all’alone di democraticità del quale si ammanta la sinistra da una ventina d’anni (coincidenze?).
Infine il politicomico. Grillo dovrà affrontare problemi ben più seri di quelli rappresentati dal dover soltanto criticare l’operato di altri. Egli, infatti, confonde un palcoscenico con un palco da comizio, ma è comunque un predicatore che, in teoria, ha più probabilità di tutti di personificare quel malcontento serpeggiante tra i tartassati. Il paradosso è che, con il suo fare “esclusivo”, somiglia più a un dittatore (un subcomandante?) da America Latina che a un capo-popolo affascinato dalle “meraviglie” della democrazia.
Su tutto questo incombono scheletri negli armadi, scandali pronti a scoppiare come bubboni e il “fantasma” del semestre bianco del Colle che, a causa della coincidenza del compimento del settennato con la fine della legislatura, si preannuncia più nero della notte più buia…


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.