lunedì 2 ottobre 2023

Dilettanti allo sbaraglio

 


La Nota di Aggiornamento al DEF (Documento di Economia e Finanza), quindi NADEF, che risale a quattro giorni fa, resta un testo molto tecnico che per la sua lettura rimanda a precise competenze economiche. Insomma non è la portata di tutti coloro che ci seguono. E probabilmente neppure del “sottoscritto”.

Però resta comunque una lettura interessante. Magari sorvolando sui calcoli e scenari vari di tipo macroeconomico forniti. Roba da Signore degli anelli economico.

Dicevamo interessante. Un punto in particolare non può non colpire il sociologo, perché rivela i condizionamenti populisti del Governo Meloni e anche del Ministro Giorgetti, che passa quasi per un accreditato economista.

A pagina 40 e segg. (*), in cui ci si occupa della “catena di trasmissione dei prezzi” e del “rientro dall’inflazione”, si reintroduce il concetto di inflazione da profitti. Roba da responsabili economici del Pci anni Settanta. Ovviamente, in modo soft. Che si fa? Tra le righe, si trasforma, in colpa ciò che è un normale atteggiamento sociologico delle imprese dinanzi all’inflazione.

Il succo del discorso NADEF ( che potrebbe stare pure per NADEFicienti) è il seguente: i prezzi finali sono cresciuti ben più dei costi. Perché? Qui viene il bello.

Nel 2022, le imprese «a fronte delle perdite subite nel 2021 e trovandosi a fronteggiare un’inflazione più persistente del previsto, hanno rivisto le proprie aspettative, modificando le strategie di prezzo per tutelarsi da possibili ulteriori forti aumenti dei prezzi degli input» (pp. 40-41).

E che cosa dovevano fare? Siamo davanti a una normale reazione in tempi in cui  il ciclo economico non promette nulla di buono. La punta (nascosta) di veleno è nella sottolineatura del fatto, che rispetto ai profitti, le retribuzioni sono diminuite. Il che è ovvio, perché il rapporto retribuzioni-profitti ha un inevitabile carattere a forbice.

Si dirà che andiamo a trovare il pelo nell’uovo. E che il nostro atteggiamento è animato da pregiudizi verso il governo.

In realtà nelle stesse  pagine si fa notare che le imprese sono state costrette ad aumentare i prezzi a causa di un denaro non più a buon mercato, a causa dei tassi in crescita, determinati dalla politica restrittiva delle grandi banche centrali americana e europea.

Qui, ovviamente si scorge una punta di nazionalismo bancario, perché si lascia intendere – ipotesi che le destre non hanno mai abbandonato – che se ci si sganciasse dall’Europa, e in particolare dalla Bce, potremmo allentare i cordoni delle borsa, eccetera, eccetera. Il vecchio ritornello dell’autarchia bancaria.

Ciò che invece non si dice è che di riflesso il valore della Lira (perché dovremmo dire addio all’Euro), scenderebbe, se ci si permette una battuta, a quello della Pizza di Fango del Camerun (sia detto con tutto il rispetto per simpatici camerunensi).

Qui ci si dovrebbe interrogare su un fatto: quanto di Tremonti (molto, crediamo) via sia in Giorgetti. A dire il vero sarebbe un argomento per una tesi di dottorato da università Leghista, diciamo Pontida University. Dove ha studiato Salvini.

Comunque sia, dilettanti allo sbaraglio.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.mef.gov.it/focus/2023/documenti/article_00049/NADEF-2023.pdf .

domenica 1 ottobre 2023

I governi tecnici non si combattono si anticipano

 


Da qualche anno nell’immaginario delle destre italiane, parlamentari e non, l’idea di complotto si accompagna a quella di governo tecnico, nel senso di professori, competenti in particolare nelle materie economiche, non iscritti ad alcun partito.

Vista così, la differenza tra un governo tecnico e un governo di tecnocrati, è praticamente nulla. Ora, la tecnocrazia è l’esatto contrario della politocrazia. Pertanto che i politici si facciano da parte per lasciare spazio ai tecnocrati è un brutto segno per la politica, che è innanzitutto capacità di visione generale dei problemi: il politico coordina, il tecnico, può consigliare, ma poi deve eseguire. Sarà perciò questione di buon senso del politico decidere se dare ascolto o meno ai professori.

Anche perché in realtà i tecnici non sono mai tali, dal momento che hanno comunque idee politiche, relazioni, precedenti ruoli istituzionali, personaggi politici di riferimento. Di conseguenza un governo non è mai tecnico nel senso puro del termine.

L’ultimo governo tecnico rimane quello di Monti (2011-2013) In realtà, la Seconda Repubblica ne ha avuti solo due (Azeglio Ciampi è Prima): Monti, e come detto, Dini (1995-1996). Entrambi succeduti a governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi.

Va detto, per la cronaca, che il Cavaliere, “l’illustre trombato”, come alcuni scrissero, si astenne, benevolmente su Dini,  quanto a Monti, votò a favore.

Quindi in quasi trent’anni, se non sbagliamo, due governi su diciotto.

Qui va fatta una distinzione, tra le modalità di caduta del governo politico che precede quello tecnico e la necessità, da parte del governo caduto, di attuare indispensabili ma impopolari riforme.

Sulle modalità di caduta si possono avanzare le più disparate ipotesi politiche: siamo davanti alle sabbie mobili delle razionalizzazioni o giustificazioni, una regolarità metapolitica.

Mentre sulla necessità delle riforme (Dini e Monti) non si può puntare su alcuna teoria alternativa. A prescindere dal famoso “lo impone l’Europa”, la questione della crisi fiscale dello stato andava e va tuttora oltre Bruxelles. Senza una politica, come scrivevamo ieri, “del tassa di meno spendi di meno” (*), si rischia prima la navigazione vista, poi il tracollo delle finanza pubblica, infine il cedimento del Pil, e, ora come ora, una vischiosa stagflazione. Insomma, sono questioni strutturali.

Semplificando: Dini varò la riforma pensionistica, Monti affrontò la revisione della spesa pubblica : necessarie misure, impopolari, per evitare la crisi finanza pubblica, ma da suicidio elettorale, almeno in Italia. Dini e Monti, politicamente parlando, furono fucilati alle successive elezioni politiche. A dire il vero sul “tassa di meno” avevano entrambi glissato. E si sa gli elettori, su certe cose, hanno memoria da elefante.

Pertanto al posto di Giorgia Meloni, invece di gridare al complotto, lavoreremmo sul “cosa decidere di fare da grandi”, a parte le cenette in famiglia con il cognato e la sorella.

Che fare allora? Delle due l’una.

O proseguire sulla strada di Dini e Monti, tagliando però, magari con giudizio, le tasse, anticipando qualsiasi fantasia di governo tecnico. Ed, eventualmente, se proprio dovesse andar male, cadere in piedi, dal punto di vista della linea politica – questa sì thatcheriana – con le buone armi economiche in pugno delle necessarie riforme. Forse un suicidio, ma elegante.

O continuare a gridare al complotto, pascersi in un vittimismo, anche anti-migranti (il famigerato capro espiatorio), da condividere con elettori abituati a bonus, sanatorie, eccetera, eccetera. Sperando così di rifarsi alle prossime alle prossime elezioni, promettendo tutto a tutti, per ritrovarsi di nuovo con l’acqua alla gola delle riforme economiche. Un suicidio a rate, da “pezzenti” della politica.

Insomma, Tertium non datur. La politica, soprattutto nelle liberal-democrazie, piaccia o meno, in alcuni casi, si trasforma nell’arte di suicidarsi sul piano elettorale  con eleganza o meno. Ci sono cose da fare  che  vanno fatte, costi quel che costi. Ovviamente, se si vuole restare all'interno di una società liberale.

Per dirla altrimenti: i tecnici non si combattono, si anticipano. Se invece si vuole "durare" a ogni costo si perde  comunque la partita.  E cosa più grave viene meno il  rispetto. Di se stessi come del Paese.

 Carlo Gambescia

(*) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2023/09/a-proposito-di-melonomics.html .

sabato 30 settembre 2023

A proposito di “Melonomics”...

 


Carlo Trigilia, oggi professore emerito di sociologia economica, va tuttora apprezzato per la sua giusta insistenza teorica (sviluppata in non pochi volumi e saggi) sul ruolo dell’informale nello sviluppo del mercato. Cioè del momento non istituzionale, ad esempio della cultura civica ramificata. Che Trigilia ha sempre inquadrato in un’ottica locale (dal basso verso l’alto). A lui si deve la fortuna del termine “distretto” economico e sociale.

Pertanto è un professore che parla o meglio scrive di cose che conosce. Però uno dei pericoli della sociologia è quello dello schematismo. Morbo che talvolta colpisce anche i migliori.

Come capita al professor Trigilia quando scrive di “Melonomics” quale prolungamento della “Reaganomics” (*). Il che, dispiace dirlo, significa due cose: 1) attribuire a Giorgia Meloni una cultura economica liberista che Fratelli d’Italia, per ragioni di eredità politica antiliberale (quindi siamo ben oltre il puro liberismo) ignora del tutto; 2) difendere di rimbalzo, non sappiamo quanto intenzionalmente, l’approccio statalista all’economia italiana, che la sinistra, sempre per eredità ideologica, ma di segno contrario, coltiva tuttora.

Si prenda come esempio lo schema proposto da Trigilia, delle due destre che convivrebbero all’interno del governo Meloni: quella neo-liberista del “tassa di meno spendi di meno” e quella populista dello “spendi di più e tassa di meno”.

Politiche che a suo avviso rinviano a un elettorato composito: operai e precari da una parte, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi dall’altra. Di qui l’impossibilità di far quadrare il cerchio del consenso della “Melonomics”: se si tassa di meno non si più spendere di più, se si spende di più si deve tassare di più.

A dire il vero, l’unica politica coerente, dal punto di vista del realismo economico (quale rispetto delle leggi economiche, tra le quali ne ricordiamo una, semplicissima, di buon senso: le uscite non possono superare le entrate), sarebbe quella del  “tassa di meno spendi di meno” . Che però fa perdere voti. 

In realtà, Giorgia Meloni sembra invece molto affezionata a Palazzo Chigi. Quindi difficilmente cadrà sulla “Melonomics”, ammesso e non concesso che sia frutto di una meditata scelta culturale e non di un’improvvisazione dell’ultimo minuto:  cosa che invece crediamo possibile, considerato lo statalismo che ha sempre caratterizzato i fascisti dopo Mussolini. 

Pertanto la Meloni continuerà a navigare a vista. L’unica cosa che sa fare. Fino a quando, come una mela fin troppo matura, cadrà dall’albero. Generale Vannacci permettendo (pardon per la battuta, ma anche Pulcinella, scherzando, eccetera, eccetera).

E qui veniamo a ciò che sottende il ragionamento di Trigilia, che è il ragionamento tipico della sinistra. Il professore, nonostante gli anni trascorsi a studiare l’economia informale su microscala sembra non aver mai smesso di credere nell’ economia formale, in macroscala, teleguidata dallo stato. E nel nome di un mantra caro alla sinistra: quello, schemino più schemino meno, del “più si tassa più si spende”. Che non è meno pericoloso dello “spendi di più e tassa di meno" della destra populista.

Si mediti su un punto: i due approcci, sia il “più si tassa più si spende” sia lo “spendi di più e tassa di meno”, si basano sullo stesso presupposto, quello di una crescita economica elevata. Che però può essere favorita solo dallo sviluppo dell’economia di mercato, che invece rischia di essere fortemente limitato da quella spirale tra spesa pubblica e pressione tributaria che invece limita la libertà di mercato. Come? O con le tasse più elevate (sinistra) o con la spesa pubblica crescente (destra populista).

Va detto che sinistra e destra populista, poiché entrambe stataliste, puntano, per spezzare la spirale spesa pubblica pressione tributaria sul mitologico recupero dell’evasione fiscale, che però, come gli studi confermano, è funzionale alla crescita delle pressione tributaria. Quindi l’evasione fiscale si combatte con il taglio delle tasse.

Del resto l’evasione, per quanto possa essere criticabile dal punto di vista dello “stato etico” (di destra o sinistra) – altro Leviatano, ma, come si dice,  che  basti  una pena al giorno... – è una forma di autodifesa del contribuente, come individuo che cerca di sottrarsi al bacio della morte dello stato.

Il professor Trigilia non si offenda, ma nel nostro futuro non vediamo alcuna “Melonomics”, ma solo un passaggio di consegne tra due “fratelli coltelli”, se ci si perdona la caduta di stile. Infatti se il governo Meloni dovesse cadere, si passerebbe dai sostenitori dello “spendi di più e tassa di meno” (destra populista) al seguaci del “più si tassa più si spende” (sinistra). 

Che malinconia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/cosi-la-base-elettorale-di-fdi-condiziona-la-melonomic-uk0yysr9 .

venerdì 29 settembre 2023

Ong. La lezione tedesca

 


La stampa organica alla destra, a cominciare da “Libero” e dal “Giornale”, dipinge la Germania come scafista  o comunque  alleata degli scafisti.  La destra politica, per ora tace, probabilmente perché acconsente.

Per quale ragione Berlino sarebbe dalla parte degli scafisti? Perché si rifiuta di bloccare i finanziamenti alle Ong. E perché si rifiuta di bloccarli? Secondo la destra per puro egoismo.

Di qui le reazioni polemiche da parte della destra italiana che però si ferma al risultato finale: l’opera di salvataggio delle Ong. Che in realtà evitano che i migranti affoghino. Causa nobilissima. Che una destra, altrettanto attenta agli ideali, dovrebbe capire. Si pensi al declamato romanticismo politico di Fratelli d’Italia e stampa sodale, al culto per gli ideali e i valori, per la religione, per dio, la famiglia, rigorosamente etero, benedetta da dio, eccetera, eccetera.

Nonostante ciò si dipinge la posizione della Germania in chiave materialistica:  Berlino  finanzia le Ong  – ecco le accuse di egoismo – perché vuole mettere in difficoltà l’Italia, trarsi dall’impaccio economico di accogliere direttamente i migranti, lasciando la patata bollente nelle mani delle autorità portuali italiane e delle popolazioni rivierasche, per così continuare a fare i suoi comodi, eccetera, eccetera. Insomma, puro materialismo. Analisi raffinatissima…

Qui viene fuori, come dicevamo la rimozione della storia. Oggi, se ci si passa l’espressione, di gran moda. Ci spieghiamo meglio.

Se invece di rimuoverla si ricordasse la storia tedesca dal 1933 in poi, anno dell’ascesa di Hitler a potere, si potrebbe scoprire e comprendere lo sforzo ideale compiuto dai tedeschi stessi: in larga parte da quei cristiani e quei socialisti, che non erano pochi, e che avevano sofferto sotto il nazismo. Sforzo, ripetiamo, di capire, emendarsi, fare in mondo di non incorrere negli stessi errori. Dinanzi a certi orrori non si può più fare finta di nulla, come invece accadeva durante il nazismo. Ecco il vero sottotesto ideale della scelta tedesca di aiutare le Ong. Altro che egoismo e materialismo…

Una lezione per l’Italia. Una battaglia morale scaturita dal basso, che invece le destre filofasciste e antiamericane europee – esiste in argomento una letteratura sterminata – hanno sempre liquidato come frutto del “lavaggio del cervello” dei tedeschi da parte dei vincitori, in particolare  americani con la "complicità"  delle forze politiche di ispirazione cattolica e socialista.

Ora, però i nodi vengono al pettine. Chi è al governo in Italia? Una destra, che ha origini fasciste e che ha sempre odiato la Germania antifascista: quella, come dicevamo, del “Mai più Hitler”.

Un’ Italia fascista o filofascista che ha rimosso, anche perché non lo ha mai accettato (sposando la tesi del lavaggio del cervello), il pentimento tedesco, frutto di una scelta ideale che invece innobilisce le sue classi politiche. Le stesse che oggi non possono non difendere le Ong: prolungamento culturale e morale  di una Germania che ha capito i suoi errori. Si tratta perciò per i tedeschi di una battaglia ideale che affonda le sue preziosi origini nell’antinazismo e nell’antifascismo. Sechi su “Libero” scrive invece  di “ipocrisia tedesca”. Guardi  invece  in casa propria.

Di questa battaglia ideale  ovviamente in Italia non si parla. Si attacca la Germania, come dicevamo, dal punto di vista degli interessi materiali. Anche perché – altro punto fondamentale – la stampa organica alla destra non ha alcun interesse a rispolverare il fascismo e l’alleanza con la Germania nazista. Argomenti scomodissimi per il governo Meloni.

Quindi doppia strategia: 1)rimozione della catastrofe nazifascista e 2) forte accento sull’egoismo tedesco. 

A onor del vero, anche alla sinistra italiana sembra sfuggire questo aspetto delle radici ideali del sì tedesco alle Ong. Perché batte sul questioni del diritto marittimo, del colonialismo e del neocolonialismo europei, e di un dolciastro umanitarismo. Se ci passa la caduta di stile: scorge l’osso umanitarista non la ciccia storica.

Però in questo modo si facilita e legittima il gioco delle destre, in particolare quella italiana, che non ama parlare del suo vergognoso passato fascista. Anche perché non si è mai sinceramente ravveduta. Qui risiede la profonda differenza tra una Germania, o comunque una sua larga parte, che ha capito la lezione e un’ Italia che invece continua a far finta di nulla.

E intanto nel Mediterraneo il migrante muore affogato. Ovvio, ci ripetono i “gazzettieri” di “Libero”, per colpa della Germania alleata degli scafisti…

Carlo Gambescia

giovedì 28 settembre 2023

Nessun IT-Alert della discordia. Che tristezza…

 


Destra e sinistra polemizzano “anche” sulla pesca dello spot Esselunga, incentrato su una bambina che dona il "frutto probito"  al papà separato, sperando che i genitori tornino insieme. Un pensiero della mamma si lascia intendere… Piccola e graziosa bugia da telenovela.

La sinistra attacca la destra, perché vede celebrata quella famiglia “tradizionale” difesa dalla destra, che per questo motivo invece apprezza lo spot. Esselunga, per tirarsi fuori dalla polemiche, potrebbe farne uno, con la famiglia che invece piace alla sinistra. Insomma, par condicio. In questo caso anche pubblicitaria. Probabilmente finirebbero subito le polemiche.

Libertà, in fondo, è sapere di poter scegliere qualcosa, anche lo spot che piace di più.

Purtroppo, non ha scatenato polemiche, se non da parte dei complottisti (che però per una volta hanno ragione), il proditorio IT-Alert della Protezione Civile sugli smartphone dei cittadini. Dal momento che si sono violati fondamentali principi di libertà.

Insomma, a differenza della pesca, non si è registrato un IT-Alert della discordia. Sulle cose serie si tace. Che tristezza,

Si dirà che esageriamo perché in sé si tratta di un semplice messaggino sonoro e testuale, come tante altre forme di pubblicità invasive. In realtà si dimentica, che in questo caso, all’altro lato dello Smartophone giganteggia lo stato. Cioè la polizia, i carabinieri, l’esercito. Non un venditore di frullatori.

Per capire in che razza di vicolo cieco rischiamo di infilarci, formuliamo un’ipotesi, in apparenza catastrofista, ma da non sottovalutare.

Si rifletta. Nel caso di un colpo di stato militare, attraverso il sistema di IT- Alert, si potrebbe costringere le persone, a non uscire di casa minacciando pene severe, addirittura la fucilazione. Si farebbe così strame delle libertà di pensiero, di parola, eccetera. Magari sostituendo, altrettanto proditoriamente, il capo della Protezione Civile con un generale della Folgore, contornato dai suoi  armatissimi parà.

Dicevamo, a proposito dello spot Esselunga, della par condicio eccetera. Ma, se uno spot non piace, si può anche spegnere la televisione o cambiare canale. Per contro all’ IT-Alert non ci può sottrarre. Di qui la sua pericolosità. È anche vero che lo si può disattivare, ma impone l’uso di determinati smartphone, già predisposti. E comunque sia è una procedura ex post. Per molti non è proprio come spegnere la televisione.

Insomma, esiste una questione di principio. Ci spieghiamo meglio.

Ammesso e non concesso, che le finalità del sistema It-Alert riguardino solo la protezione civile, in una società aperta e libera, esiste una cosa, come a proposito dello spot Esselunga, che si chiama di libertà scelta.

Perché, in linea principio, esiste il sacrosanto diritto, espresso dal singolo, “anche” di non voler essere “salvato” dallo stato. O comunque di pretendere di “salvarsi”con mezzi propri. O, addirittura di voler morire, perché lo si ritiene romantico, durante una qualche catastrofe. In sintesi: "si salvi chi vuole". Si chiama libertà individuale.

Perciò qual è la “procedura” giusta, rispettosa delle libertà di scelta del singolo? Chi proprio desideri essere “salvato” dallo stato può scaricare, se vuole, un’applicazione. Ma ex ante, cioè prima, non dopo, ex post. Si dirà sono inezie. Oziose questioni di principio. Roba da professori tra le nuvole. Giudichi il lettore.

Però  -  cosa più grave ancora -   di questi aspetti  non si è  discusso.  E neppure si capisce il silenzio del Garante della Privacy.   Perché lo stato, attraverso la Protezione Civile, da vero prepotente, con la solita scusa di proteggere i cittadini, è penetrato come un ladro nottetempo nelle nostre “case” digitali, preparando la strada – qui i complottisti per una volta hanno ragione – a un’altra irruzione: quella di polizia, carabinieri esercito, in caso di un colpo di stato.

Per dirla con l’Alberto Sordi di “Tutti a casa” – anche se non abbiamo tanta voglia di scherzare – questa volta i ladri si sono alleati con i tutori della legge. I tedeschi con gli americani, come nel film aveva ipotizzato Sordi al telefono con il comandante, scatenando le risate il sala.

Solo che questa volta non si tratta di una pellicola. Non c’è da ridere.

Ciò che veramente turba è che a differenza della pesca Esselunga, destra e sinistra non hanno aperto bocca su un fatto veramente grave che rischia di pregiudicare la nostra libertà futura.   Perché ad esempio la recezione dell'avviso  potrebbe diventare obbligatoria.  Anche perché la gente comune sembra non rendersi conto. Anzi, dalle interviste, forse mirate ma comunque autentiche, si è dichiarata soddisfatta. Questi sono gli amari effetti collettivi  della sbornia  politica da  statalismo da Covid.  

Non solo però.  Come sempre, l’uomo alla libertà preferisce la sicurezza. 

Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

mercoledì 27 settembre 2023

Napolitano, Berlusconi e i necessari bocconi amari della democrazia parlamentare

 


Basta sfogliare i quotidiani organici (“Il Giornale”, “Libero”, La Verità, “Il Tempo”) per capire quanto la destra continui a detestare anche da morto, Giorgio Napolitano.

L’accusa principale resta quella di aver tramato per far cadere nel novembre del 2011 il governo Berlusconi IV, in carica dal maggio del 2008. Per durata il secondo governo nella storia della Repubblica, preceduto solo dal Berlusconi II (2001-2005).

Più che di trame parleremmo però di un clima di sfiducia determinatosi nel paese e nella maggioranza che sosteneva il governo. Del quale lo stesso Berlusconi era consapevole. Clima non proprio sereno già presente all’indomani delle elezioni vittoriose, in seguito amplificatosi sulla spinta delle correnti di opinione antiberlusconiane. Un’atmosfera politica che però non fu risolutiva per la caduta del governo.

Infatti, non avendo più i numeri (ma per poco), il Cavaliere si dimise senza fare tante storie e poi votò il Governo Monti. Nessuna opposizione durissima e vendicativa, nessun appello alle piazze di Forza Italia.

Del resto la stessa lunga durata del Berlusconi IV, che aveva già superato la scissione di Fini, attesta che da parte del Quirinale non vi era alcun progetto prestabilito per far cadere il governo del Cavaliere.

Ovviamente Napolitano, uomo di sinistra, e con più di qualche lettura, non poteva non tener conto, culturalmente parlando, della cappa di crescente malumore che avvolgeva e opprimeva il governo del Cavaliere

In realtà, se proprio di “complotto” si vuole parlare, va detto che Berlusconi, che non era un signor nessuno e aveva i suoi addentellati nei vari settori della società civile, della magistratura, e dell’amministrazione pubblica (polizia, carabinieri ed esercito inclusi ), se avesse voluto, avrebbe potuto puntare i piedi, recuperare i pochi voti che gli mancavano in Parlamento e continuare a governare fino al termine della legislatura.

Il punto è che Berlusconi temeva di diventare impopolare: non avrebbe mai preso le inevitabili misure economiche poi varate da Monti. Non voleva “passare alla storia”, come invece è accaduto al suo successore, come una specie di “carnefice” di pensionati, commercianti, impiegati statali, geometri, commercialisti, partite Iva, eccetera.

In sintesi: Berlusconi, sapeva benissimo che si doveva intervenire, ad esempio, sulle pensioni, ma temeva che gli italiani – l’Italia profonda, quella del Masaniello piccolo-borghese, che oggi vota Meloni – non lo avrebbe mai perdonato.

Se complotto fu, il Cavaliere lasciò fare. E in questo modo, probabilmente senza volerlo, salvò la continuità istituzionale. Perché? Per la semplice ragione che nella storia delle democrazia parlamentare, fin dalle lontane origini britanniche,il rovesciamento di un governo, come risultato di una pressione esterna, cavalcata anche dalla dialettica delle passioni e degli interessi della pubblica opinione, ha sempre giocato un ruolo non secondario.

Il punto fondamentale resta quello del senso della misura. Capire dove ci si debba fermare. Soprattutto sul piano delle reazione politica dopo la defenestrazione. Che riguarda soprattutto i “defenestrati”. Cioè la loro capacità di “incassare” il colpo.

Ad esempio, la Terza Repubblica francese, che visse di rovesciamenti parlamentari, spesso improvvisi, durò settant’anni (grosso modo dal 1870 al 1940). La Repubblica di Weimar, altrettanto instabile, si spense neppure dopo quattordici anni (1919-1933). L’Italia repubblicana sotto questo profilo ha superato la longevità della Terza Repubblica francese: viaggia per gli ottant’anni.

Per dirla brutalmente: la democrazia parlamentare, implica il boccone amaro. Una democrazia parlamentare ha regole tacite che qualche volta prevedono il colpo basso. E la capacità di incassarlo. Ovviamente, se si vuole che la democrazia duri. Si chiama, come detto, continuità istituzionale. E implica la condivisione. Altrimenti, se si passa al colpo su colpo, se si accetta la spirale dell’odio complottista, accade che ai Guizot seguono i Napoleone III, ai Giolitti i Mussolini.

Vittorio Emanuele II, con il secondo Proclama di Moncalieri, nel novembre del 1849, sciolse la Camera, per ottenere una maggioranza favorevole a ratificare il duro trattato di pace imposto dall’Austria vittoriosa, promettendo però di salvaguardare la continuità istituzionale del parlamento liberale. I deputati si fecero “defenestrare”, gli elettori votarono una Camera pronta a ratificare, il Re mantenne la sua parola. Vittorio Emanuele II si guadagnò l’appellativo popolare di “Re Galantuomo”.

Anche nel 2011 la continuità istituzionale fu garantita. Sebbene grazie alla fifa di Berlusconi. Atteggiamento che oggi, ovviamente, la destra politica e giornalistica, non ama ricordare. Di qui le accuse di complotto, di vittima sacrificale, eccetera, eccetera. La nobilitazione. Come pure le dure critiche a Napolitano, perfino da morto.

In realtà, la vera domanda è un’altra. In una situazione simile a quella del 2011, come si comporterebbe Giorgia Meloni?

La risposta ai lettori.

Carlo Gambescia

martedì 26 settembre 2023

Sinistra. L’errore delle concessioni argomentative al governo di destra

 


Il titolo è lungo e   complicato lo ammettiamo, però tocca una questione fondamentale. Quale? Quella dell’errore della sinistra di sposare le tesi del governo di destra. Per dire meglio: di accettare i presupposti argomentativi di Giorgia Meloni.

Che cos’è un presupposto argomentativo? È una premessa: una definizione da accettare in modo preliminare come base, diciamo teorica, per il successivo svolgimento di una certa azione.

In sociologia si parla di pre-assunto. Cioè di una visione dell’uomo ( lato antropologico), che rinvia a una definizione di ciò che accade, e di riflesso di ciò che può accadere. Visione che precede, dettandole, le decisioni, condizionando così la pratica sociale e politica (lato sociologico).

A questo pensavamo, leggendo su “Domani” un interessante articolo in cui si prova, dati alla mano, che, a differenza di quanto sostiene il governo di destra, non vi è alcun rapporto tra presenza in mare delle Ong e aumento degli sbarchi, il cosiddetto pull factor, evocato di Giorgia Meloni (*).

Ovviamente l’articolo smaschera l’inutile polemica della destra italiana con la Germania, sui finanziamenti di quest’ultima, proprio alle Ong. Il che va benissimo, però non è sufficiente.

Qual è il pre-assunto del Governo Meloni in argomento: che il diverso è pericoloso (concezione antropologica), e che il migrante di conseguenza, in quanto diverso, rappresenta un pericolo (concezione sociologica). Di qui la necessità, secondo il governo, di contrastare i migranti che rappresentano un pericolo per gli italiani.

Questo pre-assunto porta  con sé l’ inevitabile  insorgenza  di discussioni di pura lana caprina che vanno dalla distinzione tra migrante regolare e irregolare alla discussione sul pull factor.

Perciò, per la sinistra, accettare di scendere su questo terreno argomentativo significa aderire al pre-assunto della destra del migrante come un pericolo, sempre incombente, per gli italiani. Si fa, ripetiamo, un’importante concessione argomentativa al governo di destra.

Perché accade questo? Per la semplice ragione che la sinistra, al di là degli interessi elettorali (che in democrazia sono gli stessi per tutti i partiti), è profondamente divisa sul piano culturale, come prova in modo esemplare l’articolo uscito su “Domani”, tra libertarismo e solidarismo.

Ci spieghiamo meglio.

Essere libertari significa non porre limiti alla libertà di movimento degli esseri umani. Quindi il migrante, per il libertario, non è pericoloso né innocuo. Il migrante è un essere umano, portatore di un diritto alla felicità, che può intendere come meglio crede. Di conseguenza Ubi bene, ibi patria.

Essere solidarista significa invece sostituire al valore della libertà quello della solidarietà. Quindi il migrante, per il solidarista, va aiutato a realizzare il suo diritto alla felicità. Se per il libertario i costi della realizzazione della felicità ricadono sull’individuo, per il solidarista devono ricadere sulla società. Ubi societas, ibi patria.

Ora poiché la destra è radicalmente antilibertaria, soprattutto dove persiste ancora una tradizione conservatrice, per non dire fascista, ma altrettanto radicalmente solidarista in base però a principi nazionalisti – per capirsi Ubi patria, ibi societas -, la sinistra, che non è antilibertaria per principio, ma che al tempo stesso è solidarista, trova un fertile terreno comune con la destra sul piano della solidarietà, che però diventa fonte di continue e inutili divisioni.

Per quale ragione? Perché il solidarista di sinistra vuole estendere la solidarietà a tutta l’umanità mentre il solidarista di destra solo alla propria nazione. Qui il conflitto. Il che però diventa immediatamente un problema di costi e di istituzioni redistributive, lo stato in primis, ma anche di tipo internazionale. Il che, ripetiamo, genera conflitti – semplificando – tra liberal-socialisti e nazional-socialisti.

Questo atteggiamento solidarista della sinistra, che si potrebbe ricondurre a un’ idea di welfare state universale, la conduce a scendere sullo stesso piano argomentativo della destra, che invece guarda esclusivamente al welfare state nazionale. Tuttavia, una volta presa questa strada si finisce per discutere solo di mezzi e non di fini: l’individuo sparisce soppiantato dalla società. Al centro del dibattito spicca la distinzione tra società nazionale e società universale, l’una contro l’altra armata. Il che in concreto vede da un lato gli stati nazionali e dall’altro le istituzioni sovranazionali ( o comunque le grandi potenze che si arrogano, eccetera, eccetera). Purtroppo, Tertium non datur.

Pertanto cedere al solidarismo significa mettere in soffitta il libertarismo e spostare inevitabilmente la discussione sul piano dei costi. In fondo cosa rimprovera l’Italia alla Germania? Di finanziare le Ong. E la Germania all’Italia? Di non essere solidale con i migranti. E come risponde l’Italia? Chiedendo più finanziamenti europei. E così via lungo i tortuosi sentieri in salita del conflitto tra liberal-socialisti e nazional-socialisti.

Come può uscire la sinistra da questa spirale welfarista? Rifiutando di scendere sul terreno argomentativo della destra. Come? Recuperando la sua tradizione libertaria. Scegliendo, come dicevamo, l’ubertosa pianura della libertà individuale, dell’ Ubi bene, ibi patria.


Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/politica/italia/meloni-rilancia-la-solita-fake-news-del-pull-factor-ma-e-il-viminale-stesso-a-smentire-il-legame-tra-ong-e-sbarchi-wosi8yss .