giovedì 31 dicembre 2009

Ma Obama ha mai letto 
una sola pagina di Carl Schmitt o di Sun Tzu?




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E così sembra che Obama voglia lanciare le sue bombe sullo Yemen… Per distruggere le basi di Al Qaeda…
Finirà con il solito buco nell’acqua. E in un senso preciso. Ci spieghiamo subito.
Gli americani pare non abbiano capito che siamo di fronte a una “guerra asimmetrica”. E per due ragioni
In primo luogo, gli Usa, ma anche l'intero Occidente, non hanno davanti un nemico in grado di qualificarsi come contro-stato, con un suo territorio e un suo popolo. Per dirla in sociologhese: gli Stati Uniti non hanno di fronte un movimento sociale (partigiano) che punti a trasformarsi, una volta sconfitto il nemico, in istituzione (stato-nazione), come nelle guerre di liberazione nazionale del secolo scorso. Di conseguenza gli Stati Uniti non dispongono di obiettivi precisi, da poter colpire militarmente in senso classico. Al Qaeda, infatti, è una specie di fantasma. E, al massimo, può rappresentare una comunità islamica sparsa per il mondo. E perciò, ripetiamo, resta un'entità inattingibile, secondo una normale strategia militare.
In secondo luogo, l’enorme squilibrio di potenza tra gli Usa e Al Qaeda, si traduce nell’impossibilità per il movimento terroristico di vincere, ma anche nell’impossibilità di perdere. Perché, dal momento che Al Qaeda è destinato a restare un “movimento” sociologicamente fantasmatico (né popolo, né territorio, dotato però di un prolungamento militare ma ai limiti della percettibilità-contabilità bellica...) sarà sempre più difficile, se non impossibile, dare un nome, una volta per tutte, a vincitori e vinti.
Naturalmente, non diciamo nulla nuovo. Al presidente Obama e ai suoi consiglieri, raffinati prodotti delle celebratissime università americane, sarebbe bastato leggere, a suo tempo, qualche pagina della Teoria del partigiano di Carl Schmitt, per capire subito che contro il fantasmatico “nemico islamico” i missili e non bastano, neppure atomici. Ma serve la diplomazia: un'accurata politica di saggi contatti ed eventuali accordi separati con i diversi stati islamici esistenti, in nome del classico divide et impera. Ma gli americani, nonstante le chiacchiere dei neocon, non assomigliano affatto agli antichi Romani... Ma questa è un'altra storia.
Altrimenti si rischia di “sparare a casaccio” e di ritrovarsi sempre più “infognati” in una guerra infinita, senza vincitori né vinti. Dove però il nemico, per dirla con Sun Tzu, l’ ”odiata” Al Qaeda “ si assottiglierà più del sottile, fino a rendersi priva di forma”. Diventando così, a differenza di Obama e degli Stati Uniti, un'entità "gassosa" capace di arbitrare non solo il proprio destino, ma purtroppo, anche quello dell' incolpevole popolazione civile mondiale, e quindi non solo dell'Occidente.



Carlo Gambescia

martedì 29 dicembre 2009

Sociologia della crisi iraniana


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Non siamo tuttologi, lo abbiamo ripetuto tante volte. Non possiamo perciò improvvisarci, come fanno altri, in specialisti della "questione iraniana".
Però proviamo lo stesso a dire qualcosa, sfruttando la nostra preparazione sociologica.
In primo luogo, l’Iran, sta vivendo (e pagando) il "complesso dell’accerchiamento". Ormai gli statunitensi, fedeli alleati di Israele, sono ovunque, in Turchia, Iraq, Afghanistan... E, di regola, “’l’accerchiato”, ossia il suo establishment, risponde radicalizzando le sue posizioni. E soprattutto concentrando e verticalizzando il potere che già possiede. Ci si ricompatta per fronteggiare il nemico esterno. E l’unico limite è costituito dai livelli di coesione, iniziali e successivi, dell’establishment stesso.
In secondo luogo, a pagare le conseguenze del processo di risposta "all’accerchiamento" sono sempre le opposizioni interne, in questo caso i cosiddetti riformisti iraniani. Forze, che crediamo siano condannate a cedere il passo sotto i colpi della repressione, a meno che il potere dominante non si sgretoli dall’interno.
In terzo luogo, i meccanismi istituzionali dell’Iran contemporaneo, pur fondandosi su istituzioni liberamente elette o quasi, non sono quelli di una democrazia liberale occidentale: al massimo si può parlare di una repubblica teocratica. Il che rende più facile l’opera dei repressori, che possono contare su un rigido codice religioso del comportamento politico e su corpi specializzati di repressori ideologici. Crediamo però, che nonostante l’enfatizzazione dei media occidentali sugli studenti, eccetera, i cosiddetti riformisti, non puntino a una democrazia di tipo occidentale, ma a un maggiore pragmatismo, semplificando, alla “cinese”.
In quarto luogo - ma questa è un' osservazione politica non sociologica - la crisi potrebbe ancora rientrare, salvaguardando per il momento l’indipendenza iraniana, se riformisti ed establishment trovassero un accordo "passando sulla testa" di Ahmadinejad, azzerando il suo progetto di nuclearizzazione, inviso all’Occidente, a Israele nonchè, pare, ai riformisti iraniani.
Tuttavia la radicalizzazione, profondamente legata al senso di “accerchiamento”, che spiega se non giustifica la scelta nucleare iraniana, sta andando nella direzione dello scontro frontale fra riformisti e radicali. Scontro, crediamo, destinato a caratterizzare politicamente il 2010. E che alla luce, della guerra in atto - perché di questo di si tratta - tra Occidente e l’intero mondo di fede islamica, potrebbe tradursi nell’esca per un’aggressione all’Iran, da parte di quelli che la propaganda fondamentalista definisce i “Crociati dell’Occidente”: Stati Uniti ed alleati.
Perciò Ahmadinejad, con il suo oltranzismo, che qui da noi tanto piace agli estremisti di tutte le risme, rossi e neri, rischia di trascinare verso la rovina totale un Paese ricco, laborioso e colto. E per una sola ragione: perché non ha forza sufficiente per tramutarlo in atti politici, e dunque credibilità, né, pare, l'intelligenza politica per capire la debolezza, soprattutto esterna, della sua posizione, spesso così scioccamente estremista da sfiorare l'autolesionismo. In politica internazionale - e qui resta esemplare la parabola novecentesca dell'hitlerismo - le dichiarazioni di fuoco, come quelle sul nucleare iraniano, se non accompagnate da un pari "effettività" militare in reale sviluppo, lasciano il tempo che trovano. Sotto questo aspetto Ahmadinejad, un ingegnere, sicuramente non ha mai letto Ibn Kaldun, il Machiavelli tunisino ...
In questo senso il dato politico reale, su cui dovrebbero riflettere tutti gli iraniani, riformisti e radicali, resta uno solo: che, in ogni caso, difficilmente all'Iran sarà data la possibilità di diventare un potenza dotata di armi atomiche.
Ma ripetiamo, si tratta di un oltranzismo per un verso legato alla natura (ma anche cultura) del presidente iraniano, per altro alla “forza sociologica” degli eventi (il senso di “accerchiamento” e la conseguente radicalizzazione). Di riflesso Ahmadinejad per alcuni - i suoi sostenitori - è l’uomo della provvidenza mentre per altri - in particolare gli avversari - una mina vagante.

Deciderà l’evoluzione della crisi.


Carlo Gambescia 

sabato 26 dicembre 2009

"Strattonare" Ahmadinejad?



Stamane seguendo il telegiornale ci siamo chiesti perché finora, nessuno, "psicolabile" o meno, abbia osato "strattonare" Ahmadinejad. Oppure "tirare" contro Putin statuine che riproducono il Cremlino.

La riposta non è molto difficile (eccetto che per i seguaci del tanto peggio tanto meglio): da noi in Italia, a differenza che in Russia e Iran, esiste la democrazia. Sissignori, esiste la democrazia, benché non sia di moda riconoscerlo soprattutto sulla Rete. E di conseguenza i nostri leader, politici o religiosi, non hanno necessità di quella strettissima protezione cui devono invece ricorrere i tiranni, quelli veri. Non quelli inventati, da chi ci guadagna sopra...
Il che spiega perché anche uno “psicolabile” possa "avvicinare" in teoria e in pratica - come infatti è regolarmente avvenuto - Berlusconi o il Papa e “testimoniare” qualcosa… In Russia e Iran, non solo di regola non ci si può accostare fisicamente a Putin e Ahmadinejad , ma se solo si apre bocca si rischia di finire in gabbia… E quelli buttano la chiave. Sul serio.
Pertanto, pur se imperfetta (quanto si voglia), la nostra è democrazia. E sarebbe bene non dimenticarlo mai… E non dovrebbero scordarlo soprattutto gli imbecilli - per fortuna, pochi - che su Facebook inneggiano ciclicamente (come quegli stupidi pupazzetti con la molla delle scatole a sorpresa di una volta) alla violenza e al “lanciatore” o “strattonatore” di turno.
In Iran - dove Internet è sotto strettissimo controllo ( altro che i disegni di legge di Maroni, con tanto di iter parlamentare...), chiunque provasse a inneggiare a un pur improbabile “strattonatore” di Ahmadinejad, sparirebbe subito dalla circolazione.
Sono cose che vanno dette, costi quel che costi in "popolarità blogosferica". Perché in Italia si sta perdendo il senso della misura. Si sputa sulla democrazia, che pure c’è, e si celebra, più o meno apertamente, la violenza.
Il clima politico italiano, ricorda “in scala” quello degli anni che precedettero la “Grande Guerra Europea” (1914-1918), dove negli ambienti, per così dire culturali, era di moda l'antidemocrazia, proprio come oggi. E perciò era d’obbligo sputare sulle istituzioni democratiche esistenti e inneggiare all’atto di forza…
Meditate gente (della Rete), meditate.


Carlo Gambescia

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venerdì 25 dicembre 2009

Auguri di un Buon Natale!



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I tuoi versi Nicola pongono domande radicali. E non forniscono scappatoie puramente interiori. Il raccoglimento diviene così sfida aperta alla vita. Ma sotto lo sguardo di un Dio che perdona e accoglie, ricordalo sempre caro amico.
Quel vuoto immenso è in noi, non in Lui. E il tuo urlo poetico disvela una mai sopita volontà di credere.
Ti auguro, Nicola, un Santo Natale.

Carlo
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A un Dio vero


La comunicazione si è interrotta

perché arriva il nulla

dallo scavo della crudeltà

nelle ferite dell'amore.

A un Dio vero chiedo

della paura che invade le anime

dell'inquietudine che turba i cuori:

lo invito a darmi tutte le risposte

che dal suo silenzio dovrebbero giungere

Davanti alle domande

si apre un vuoto immenso.

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(Nicola Vacca, Esperienza degli affanni, Edizioni il Foglio 2009)

giovedì 24 dicembre 2009

La Rete, Carl Schmitt 

e la teoria amico-nemico



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La Rete dipende dalla politica o dall’estetica? O da entrambe? Nel senso di una estetica della politica o viceversa di una politica dell’estetica.
Non giochiamo con la parole, ma cerchiamo di porre un problema fondamentale: quello del senso dello scrivere e pubblicare in Rete.
Diciamo subito che l’agenda della Rete - e mi riferisco in particolare alla Blogosfera e Social Network in genere - è fissata dai media tradizionali. Di regola post e commenti inseguono - commentando e indagando - i fatti accaduti così come sono comunicati da radio, televisione, giornali. Certo, le “reazioni” sono differenti, spesso più dure, o se si vuole, naive, anche perché vi scrivono tutti, senza magari avere alcuna preparazione specifica… Ma il punto non è questo ( o almeno non solo).
Le “reazioni” svolgono un ruolo di approfondimento? Difficile dire. Anche perché la Blogosfera è fortemente politicizzata, per non parlare di FaceBook e simili. Ma attenzione, politicizzata, non in senso strettamente partitico, ma in chiave schmittiana: sulla Rete si scrive sempre contro qualcuno… Deve esserci “un nemico”. Possibilmente da distruggere, per ora verbalmente.

La Rete è polemos per eccellenza. Spesso a livelli addirittura inenarrabili. Di qui il fascino estetico della violenza attraverso la parola. Ma di conseguenza politica ed estetica della parola, come nell' "incendio estetico-culturale prefascista e pre-guerra civile europea, rischiano di congiungersi con effetti esplosivi, come nel caso della campagna d’odio contro Berlusconi, successiva all'aggressione (benché anche prima...), fatta di immagini e parole di fuoco.
Di qui l’impossibilità di proporre qualsiasi ragionamento obiettivo, perché a un’estetica politica della violenza non si comanda: se non si è schierati, ci si deve schierare per forza... La Rete eleva al quadrato la faziosità e la terribile logica del colpo su colpo. La Rete non conosce avversari ma solo nemici: è la guerra di tutti contro tutti. Si va dal soggettivismo più spinto, del narciso che non vuole essere contraddetto, soprattutto se eterno adolescente, all’oggettivismo schmittiano delle categorie amico-nemico, professate dal complottista tipo…
In una parola, sulla Rete accade quel che non dovrebbe mai avvenire: la militarizzazione della cultura e di conseguenza dell'informazione. Un fenomeno, tra l'altro molto temuto dallo stesso Carl Schmitt: quello dell'estensione della dicotomia amico-nemico agli altri campi della vita sociale. In realtà la Rete, nonostante la sua tanto incensata postmodernità, è molto novecentesca.
Chiudiamo con una riflessione personale.


Che senso può avere proporre riflessioni pacate (così sono definite le nostre...) a chi crede di essere sempre in trincea? Perché attratto da un' estetica jüngeriana della mobilitazione totale dell'operaio della Rete, contro un nemico continuamente reinventato e "anatemizzato"... E dunque frutto, anch’esso, di un’estetica, probabilmente barbara, della politica…
Metapolitica e sociologia, in ultima istanza, non possono nulla contro la spada dei prepotenti. La ragione, purtroppo, finisce sempre per cedere il passo alla violenza.
Anche sulla Rete. Per ora verbale, poi chissà...


Carlo Gambescia 

mercoledì 23 dicembre 2009

A proposito di un post di Massimo Fini sul diritto di odiare Berlusconi...


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I nostri commenti sono in colore rosso.
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Silvio Berlusconi continua a cantare il refrain dell’odio che sarebbe stato seminato nei suoi confronti da alcuni settori dell’opposizione, da alcuni giornali, da alcuni opinionisti, da alcuni artisti.
Il primo a introdurre l’odio come categoria politica fu Pierluigi Battista dopo la grande manifestazione di piazza San Giovanni di qualche anno fa (quella organizzata da MicroMega e da Paolo Flores d’Arcais) che radunò un milione di persone contro una delle tante leggi “ad personam” volute dal premier per sfuggire ai processi che riguardano lui e i suoi sodali.
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Fini invece pure... Possibile che il nostro Ribelle non sappia che il clima di odio politico e sociale ha radici lontane. E che è in quella divisione tra rossi e neri che risale primo dopoguerra. E che è stata messa a fondamento della costituzione repubblicana. Non per niente, se Berlusconi, liquida i suoi avversari come comunisti, lui viene bollato come fascista, nemico della costituzione. Ed è da quella fratttura storica che si deve ripartire, per capire la vera matrice di "guerra civile" novecentesca della crisi attuale. E superarla, andando oltre il fascismo e l'antifascismo. Il Cavaliere e i suoi nemici sono appendici di un Novecento che non vuole finire... Ed eventualmente - le "due" appendici - dovrebbero cadere insieme...
E, tra l'altro, di queste cose Fini ne dovrebbe sapere qualcosa personalmente, perché due anni fa, lui e i suoi sodali furono cacciati via, sulla base della pregiudiziale antifascista, da una manifestazione organizzata dalla sinistra antiamericana.
E invece che fa? Prende la ricorsa e usa l’argumentum ad hominem. Il che prova ancora una volta che la sua non è un’analisi indipendente, ma da capetto di partito. Fini non è più il giornalista di una volta. Bisogna prenderne atto
E infatti cita Berlusconi, il "nemico numero 1" e Battista, giornalista del “Corriere della Sera”, ergo, si lascia intuire, un servo. E quindi entrambi inattendibili... Ai quali contrappone Paolo Flores d’Arcais: lui sì che è buono perché contrario a Berlusconi. Si tratta di un espediente argomentativo: Fini fa questi nomi all'inizio dl pezzo, per catturare subito l’attenzione del lettore, come insegnava Ortega y Gasset, grande scrittore, giornalista di lusso e conferenziere... Fini però è a caccia di voti, più o meno come Berlusconi. Anzi, per ora, di abbonamenti...
Inoltre Fini fa finta di non vedere... Fa il vago. Perché così può permettersi di non distinguere fra la Repubblica di Berlusconi, certo un furbetto, ma eletto dal popolo, e quella giudiziaria, auspicata dal d’Arcais, non eletta da nessuno. Ma del resto Fini non si è dichiarato Talebano? E, si sa, il Talebano non ama la democrazia tout court: né furbetta, né giudiziaria. E anche questa pulsione per la giustizia cotta e mangiata, lungo un arco scellerato che va dal titanismo giacobino al fondamentalismo antimoderno, potrebbe essere una chiave interessante per spiegare la deriva antidemocratica di un giornalista con un passato di tutto rispetto.
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Una manifestazione assolutamente pacifica dove non si respirava alcuna atmosfera d’odio, ma semplicemente si contestavano delle leggi che, violando il principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, relegava tutti gli altri a soggetti di serie B ledendo la loro dignità. Casomai era proprio Battista con l’apparenza di scagliarsi, in un’importante trasmissione televisiva, contro l’odio ad alimentarlo. Ma il punto non è questo.
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Tipica petitio principii. Si dà per dimostrato, quel che dimostrato non è: l’assenza di odio in quella manifestazione… Ovviamente Fini sorvola abilmente, sul clima, non proprio idilliaco, del No Berlusconi Day...
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L’odio è un sentimento, come l’amore , come la gelosia,
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Altra petitio principii. O come si dice a Roma: Fini "la butta in caciara". Esistono sentimenti pro-sociali e anti-sociali, basta sfogliare qualsiasi manuale di psicologia... E l'odio è tra questi ultimi. Inoltre accostare l’amore all’odio rinvia anche all' argumentum ad populum… Ci si rivolge al cuore della folla per blandirla. Qualche cattivo - direbbe - per fregarla...
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e nessuno Stato, nemmeno il più totalitario, ha mai osato mettere le manette ai sentimenti. Le ha messe alle azioni, le ha messe alle opinioni, non ai sentimenti.
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Nuova petitio principii. Invitiamo Fini a rileggere la storia del Novecento. In particolare le opere di Nolte, Furet e Besançon…
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Tanto più questo dovrebbe valere in una democrazia.
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Quale democrazia? Quella giudiziaria? Dove chi non confessa viene tenuto in prigione? Magari fino a quando non si decida a parlare? Salvo togliere il disturbo suicidandosi? Come ai tempi di “Mani Pulite”...
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Io ho il diritto di odiare chi mi pare e anche di manifestare questo mio sentimento.
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Giusto. Anche i nazisti rivendicavano il diritto di odiare gli Ebrei… Peccato però che il diritto all’odio non sia previsto da alcuna costituzione liberale e democratica. Ma Fini - lo dice lui - è Talebano, quindi…
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L’unico discrimine è la violenza. Io ho il diritto di odiare chi mi pare ma se torco anche un solo capello alla persona, o al gruppo di persone che detesto per me si devono aprire le porte della galera. Voler mettere le manette all’odio, come pare si voglia fare introducendo il reato di “istigazione all’odio”, significa in realtà mettere le manette alla critica. Perché l’odio è una categoria psicologica di difficilissima e arbitraria definizione.
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Quindi Tartaglia deve andare in galera.
Ma Tartaglia sembra sia psicolabile. Allora come la mettiamo? E come ci si può difendere dal "matto" che passa all’atto? Intanto, misurando "tutti" le parole. Una "bella calmata". O no? Cosa che Fini, "buttandola in caciara", non fa.
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Se io scrivo che il premier (si chiami Berlusconi o Pincopallo) è stato dichiarato corruttore di testimoni in giudizio da un Tribunale della Repubblica, istigo all’odio o riporto un fatto di cronaca? Se scrivo che in nessun altro paese democratico, e forse anche non democratico, un premier che si trovi in una simile situazione non potrebbe rimanere un giorno di più al suo posto (come fu per Collor de Mello in Brasile) istigo all’odio o esprimo una legittima opinione, giusta o sbagliata che sia? Se scrivo che un premier, si chiami Berlusconi o Pincopallo, fa delle leggi “ad personam” o “ad personas” che ledono il principio di uguaglianza, istigo all’odio o denuncio una grave anomalia del sistema?
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E quando si scrive che Tartaglia ha fatto bene? E che è un eroe? Anche qui come la mettiamo?
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Berlusconi raggiunge poi l’apice della spudoratezza quando, dopo l’inaccettabile aggressione che ha subito a Milano, dichiara: “Quanto è avvenuto deve avvisarci del fatto di come sia davvero pericoloso guardare agli altri con sentimenti che non siano di rispetto e di solidarietà.
Quindi da quest’ultima esperienza dobbiamo essere ancora più convinti di quanto abbiamo praticato fino ad oggi e cioè che è giusto il nostro modo di considerare gli avversari come persone che la pensano in modo diverso, ma che hanno il diritto di dire tutto ciò che pensano. E che noi dobbiamo difenderli per far sì che lo possano dire e che non sono nemici o persone da combattere in ogni modo, ma persone da rispettare. Lo facciamo noi con gli altri, ci piacerebbe che lo facessero gli altri nei nostri confronti”.
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Berlusconi sfrutta politicamente quel che gli è capitato, come qualsiasi altro politico. Né più né meno di quel che fa Massimo Fini, che sfrutta quel che è accaduto a Berlusconi per attaccarlo… Tipico di un atteggiamento – ripetiamo – non da analista indipendente, cosa che Fini non è più da un pezzo, ma da capopopolo… Inoltre con "il colpo su colpo" si corre solo il rischio di moltiplicare l'odio. E come abbiamo già scritto "l'odio non ha colore e non va mai giustificato. Proprio per evitare che una certa situazione precipiti lungo la spirale, spesso irreversibile, del terrorismo e della repressione. Una spirale del colpo sul colpo, dove rischia di restare questione puramente "mitologica" individuare chi abbia cominciato per primo. L'odio si combatte smettendo di odiare. Dando, insomma, il buon esempio, senza aspettare che l'altro faccia il primo passo, soprattutto prima - il famoso "attimo prima" poi studiato dagli storici - che una situazione precipiti completamente. Dal momento che - e sia chiaro per tutti - la guerra civile è male, la pace sociale è bene. Non esiste una terza via".
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Rispetto degli avversari? Chi da quindici anni bolla tutti coloro che non la pensano come lui o che non agiscono come lui vorrebbe, come “comunisti” con tutta la valenza negativa che questo termine ha assunto oggi e quindi appioppando loro tutti gli orrori del comunismo? Chi ha detto che i magistrati (quelli naturalmente che non si adeguano ai suoi desiderata) “sono dei pazzi antropologici”? Chi ha detto di Di Pietro, dopo aver tentato invano di farlo entrare nel suo primo governo, che “è un uomo che mi fa orrore”?Il diritto degli avversari di “dire tutto ciò che pensano”? Chi ha emesso l’“editto bulgaro” definendo “criminali” Luttazzi, Freccero e Travaglio, togliendo di mezzo i primi due e facendo additare, dai suoi mazzieri, Travaglio al ludibrio delle folle ed esponendo il giornalista che, a differenza sua, non è protetto da eserciti pubblici e privati, a pericolose ritorsioni?
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Argumentum ad populum. Buono per fans di Fini… Privo di valore analitico, per le ragioni di cui sopra. L’odio politico e sociale viene da lontano. E poi Berlusconi, “il dittatore mediatico” non è stato battuto elettoralmente due volte? E per due volte non se n’è stato buono buono seduto tra i banchi dell’opposizione? Di solito gli aspiranti dittatori, quando perdono, rovesciano le democrazie… O no? Ma forse è meglio, come sopra, "buttarla in caciara"…
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Se vogliamo metterci sul piano dei Battista e dei Berlusconi se c’è qualcuno che ha seminato e semina odio in questo paese è proprio l’attuale premier.
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Ecco, a questo punto, al posto di Battista, eviteremmo Piazza del Duomo e dintorni…

Un’ultima notazione. Berlusconi è convinto, credo sinceramente convinto, che chi non lo ama “mi odia e mi invidia”. In termini psicoanalitici si potrebbe dire che “proietta la sua ombra”.
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Chissà invece quali saranno i contorni dell’ombra “proiettata” dall’odio di Massimo Fini verso Berlusconi… Probabilmente gli stessi di una certa statuina del Duomo di Milano...

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Carlo Gambescia
Termini Imerese e 
capitalismo “competitivo”


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“L’unico modo per risolvere il nodo Termini sarebbe spostare la Sicilia e metterla vicino a Piemonte o Lombardia. Se Lombardo è capace di fare questo, che Dio lo benedica", (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2009/12/22/visualizza_new.html_1648860796.html ) . Così, in due battute, Sergio Marchionne, ha spiegato al popolo come funziona il capitalismo “competitivo”: gli uomini come le merci non possono avere patria e sentimenti. Ma devono sottomettersi spazialmente a sua maestà il profitto. Andare dove il capitale chiama, senza riguardo per alcuno.
Ma facciamo un passo indietro. Cento anni fa gli operai di Termini Imerese, sarebbero finiti in mezzo alla strada e costretti a emigrare. Nel periodo fascista sarebbe intervenuto lo Stato. Ma anche durante la Prima Repubblica. Oggi, in piena Seconda Repubblica, i poteri pubblici invece restano a guardare. Sì, esistono gli ammortizzatori sociali (e questo in qualche modo è un progresso sociale). Ma hanno durata ridotta. E soprattutto non soddisfano un requisito identitario: quello della dignità che il lavoro conferisce all’uomo, a ogni uomo.


Il cassaintegrato, infatti, si sente inutile. E questo in una società, ripetiamo, dove il lavoro in qualche misura, è ancora fonte di riconoscimento e auto-riconoscimento sociale. Insomma, il problema non è quello del minimo vitale, o del puro sostentamento. Ma di creare per i lavoratori prospettive di vita, dignitose e socialmente accettabili.
Come concludere? Che ai lavoratori di Termini Imerese si potrebbero dare altre risposte, di tipo socialdemocratico, capaci di difendere la sostanza morale e sociale del vivere umano, come scriveva Karl Polanyi. Parliamo di politiche economiche pubbliche, dal lato della domanda. E perciò di provvedimenti (si pensi solo ai bisogni infrastrutturali della Sicilia) distanti anni luce dai torvi "istinti animali" di quel capitalismo selvaggio teorizzato da Marchionne. Che, non sappiamo se per un surplus di inopportuna ironia, l’Amministratore Delegato della Fiat definisce “competitivo”…
Ora la destra, almeno questa destra, non ne è capace, costitutivamente. Ma la sinistra, che pure negli ultimi anni ha governato, che cosa ha intenzione di fare? A parte proporre improbabili rivoluzioni "decresciste", o peggio ancora, involuzioni politiche di tipo sudamericano…


Carlo Gambescia 

martedì 22 dicembre 2009

Riflessioni
C'era una volta la  "piazza"  ( e pure il Palazzo d'Inverno...)



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Folla criminale. Così, senza mezzi termini, si esprimevano tra Otto e Novecento scienziati come Lombroso e psicologi come Le Bon. La “piazza”, ai loro occhi, richiamava subito l’idea di sommossa se non di rivoluzione. La folla, insomma, era per principio “delinquente”, come recitava il titolo di un celebre libro di Scipio Sighele, scrittore nazionalista e studioso di sociologia, all’epoca piuttosto noto.
E oggi? Le folle sono ben accette. Le piazze si riempiono di tranquilli pensionati con i bandieroni della CGIL. Oppure di giovani studenti che protestano solo perché desiderano fare carriera… Vogliono studiare, così dicono, per “realizzarsi”.
Quindi, per così dire, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. All’inizio del Secolo Ventesimo, la borghesia schierava la regia cavalleria, cento anni dopo, tutto finisce, soprattutto se si viene a Roma, con un’allegra gita ai Castelli.
Il problema è che nel frattempo è venuta a mancare l’ idea di rivoluzione. Il “Palazzo d’Inverno” a poco a poco è diventato un gigantesco centro commerciale. Dove uno, appena entra, vuole comprare e consumare. Perché, si chiedono le folle di oggi, strangolare la gallina dalle uova d’oro? Tradotto: il capitalismo che ci offre tutto questo ben di Dio?
Pertanto la questione di fondo non è più quella di levare di mano la torta al ricco, ma di ridistribuirla meglio a tutti. Quindi niente più rivoluzione, niente più regia cavalleria.
E in questo senso le piazze talvolta fanno tristezza. Perché la rivoluzione, era anche sinonimo di festa, di cambiamento improvviso e radicale, dove tutto poteva essere permesso. Oggi invece, le piazze si muovono a comando. Organizzatissime, fischietti e bandiere. E dopo il discorso del leader, tutti trattoria.
Ovviamente esistono delle eccezioni, ad esempio le folle no global, sparute per la verità. Che tuttavia in occasione dei vertici internazionali, rianimano le piazze. Ma anche lì, ormai ci si muove lungo un cammino sociologico scontato: si “gioca” alla rivoluzione per la gioia dei media mondiali. E poi tutti, se non in trattoria, al pub…
Ma se la situazione è questa hanno ancora un senso le grandi manifestazioni di piazza? Mah… Difficile rispondere in modo netto.
In Italia, nell’ultimo quindicennio, con il berlusconismo e l’ antiberlusconismo di massa o quasi, la “piazza” sembra aver riscoperto il fascino della rivendicazione politica. Ma anche della festa, dell’allegria, degli slogan pepatissimi, eccetera… In fondo, piaccia o meno, a Berlusconi si deve anche il risveglio popolare e popolano, oggi forse più evidente a destra che a sinistra…
Alcuni anni fa, un politologo notò quasi con fastidio, che il Cavaliere aveva riportato la destra in piazza. Non una destra golpista o fascistoide, ma una destra po-po-la-re.
Pertanto, anche se l’idea di rivoluzione è morta, la politica, nelle piazze italiane sembra ancora essere viva, e in chiave bipartisan. Diverso invece è il discorso per le manifestazioni sindacali. Che, ripetiamo, spesso, sembrano organizzate a comando.
Perciò anche il sindacato, da sinistra a destra ( pensiamo all’UGL), avrebbe bisogno di una overdose di politica. Non nel senso di andare contro o a favore di Berlusconi, ma di proporsi al Paese in chiave di grandi scelte politiche nazionali. E non solo di settore o di categoria. Ma non vorremmo qui farla troppo lunga, scivolando nel sindacalese.
Per rianimare le piazze sindacali serve quindi la grande politica economica. Quella torta cui accennavamo, non va strappata di mano a nessuno, ma va ridiscussa, se ci si passa l’arrischiata metafora “culinaria”, nei suoi ingredienti. Non è insomma solo una questione, anche se importante, di dimensioni, ma di qualità.
Si pensi solo alla grande questione della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Idea che non collide con il capitalismo e che per certi aspetti può democratizzarlo. E (perché no?) risvegliare anche le piazze sindacali. Ma i nostri sindacalisti sembrano più interessati al "Palazzo", da ultima la Polverini della UGL, prossima candidata alla Presidenza della Regione Lazio per il PdL. Che qualcuno ha definito, con slancio non eccelso di originalità, "una donna dalla parte dei diritti".
Sì, i suoi. Alla carriera. Come tanti uomini, s'intende.


Carlo Gambescia

lunedì 21 dicembre 2009

Suonare il piffero per complottisti, catastrofisti e antiberlusconiani viscerali? Mai



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Fanno veramente paura le modalità con cui l'area più verbalmente violenta della Rete, quella che si propone come una specie di "Partito Nuovo" rivoluzionario, ha respinto qualsiasi addebito culturale e morale sulla preparazione di quel clima di odio che ha comunque condizionato, se non determinato, la grave aggressione subita dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
"Modalità", poi... Una scrollatina di spalle ("E' colpa sua, se lo merita") e via di nuovo con il mantra del "Berlusconi che deve finire in prigione" se non "morire" (il che poteva accadere...). Il tutto condito con quel complottismo ("Si è ferito da solo") e quel catastrofismo ("Ultimi sussulti di un regime morente"), che tanto piacciono a quelli che Marx e Engels chiamavano argutamente "gli spostati sociali": quei "teorici" del tanto peggio tanto meglio, che sembra abbiano trovato sulla Rete una nuova casa. Ovviamente, non parliamo di tutta la Rete. Ma si sa chi grida più forte, eccetera, eccetera.
Ora sarebbe facile, strappare consensi, unendosi al coro complottista e catastrofista. Ma fin dall'inzio lo scopo del nostro blog è stato quello di proporre, per quanto umanamente possibile, riflessioni al di sopra delle parti. E in chiave sociologica. Il che significa sostenere che l'odio è odio, anche a proposito di quel che è capitato a Berlusconi. L'odio non ha colore e non va mai giustificato. Proprio per evitare che una certa situazione precipiti lungo la spirale, spesso irreversibile, del terrorismo e della repressione. Una spirale del colpo sul colpo, dove rischia di restare questione puramente "mitologica" individuare chi abbia cominciato per primo. L'odio si combatte smettendo di odiare. Dando, insomma, il buon esempio, senza aspettare che l'altro faccia il primo passo, soprattutto prima - il famoso "attimo prima" poi studiato dagli storici - che una situazione precipiti completamente. Dal momento che - e sia chiaro per tutti - la guerra civile è male, la pace sociale è bene. Non esiste una terza via.
Ma dobbiamo però spiegare il perché di questa nostra posizione au-dessus de la mêlée. E come al solito la prendiamo da lontano. Ma crediamo valga la pena seguire fino in fondo il nostro ragionamento.
Ormai la cultura politica italiana è così messa male che siamo sicuramente in pochi a ricordare la polemica tra Togliatti e Vittorini, divampata nell' anno di grazia 1946. Che invece sarebbe utile rievocare. E chiariamo perché.
In buona sostanza, Togliatti, all’epoca segretario del Pci, rimproverò allo scrittore siciliano, uomo di cultura e direttore de “Il Politecnico”, un eccesso di indipendenza culturale nei riguardi del partito. Libertà difesa invece in modo appassionato da Vittorini, profondo estimatore della letteratura americana. In tempi in cui il Pci, pendeva culturalmente, e non solo, dalle labbra di Stalin .
Ora, di quella polemica alcune questioni sono oggi superate. Resta invece attuale il modo in cui Vittorini difese il suo diritto a non “suonare il piffero” per il partito comunista. Ma lasciamo a lui la parola:
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“Il diritto di parlare non deriva agli uomini dal fatto di “possedere la verità’. Deriva piuttosto dal fatto che “si cerca la verità’. E guai se non fosse così soltanto! Guai se si volesse legarlo ad una sicurezza di ‘possesso della verità’! Lo si legherebbe alla presunzione del possedere la verità, e non parlerebbero che i predicatori, i retori, gli arcadi, tutti coloro che non la cercano”
(Elio Vittorini, Politica e cultura. Lettera a Togliatti, in M. Forti e S. Pautasso, “Il Politecnico”. Antologia, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1975, p. 122).
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Ecco, oggi in Rete, molti di coloro che si arrogano il diritto di parlare in nome, di ciò che si potrebbe chiamare sulla falsariga del Pci togliattiano, il “Partito Nuovo” del Social Network, parlano come se già possedessero la verità. E ci riferiamo in particolare ai seguaci delle varie teorie complottiste e catastrofiste e agli antiberlusconiani viscerali. Non facciamo nomi. Basta fare un giro in Rete.
Di conseguenza viene subito censurato chiunque non sia in linea con le più demenziali tesi politiche, anche se non schierato con americani, israeliani, banchieri, berlusconiani, eccetera.

O di qua o di là. I "Nuovi Togliatti" della Rete non scherzano. Senza però possedere la cultura e il senso dell'opportunità politica dello storico segretario comunista. E così riprendono in home page solo chi parli male degli Stati Uniti o di Berlusconi… Oppure epurano dalla rassegna stampa chi osi avanzare qualche dubbio sulla reale democraticità di alcuni dei cosiddetti avversari del "pensiero unico".
Ma i "duri e puri" della Rete sono fatti così. Si atteggiano ad anticapitalisti (come se l'anticapitalismo fosse un programma politico...), ma strizzano l'occhio ai peggiori dittatori; inneggiano alla pace , ma intanto avvelenano le menti dei giovani, già stordite da pessimi studi scolastici e universitari, con dosi massicce di odio sociale. E in che modo? Veicolando post violenti e teorie assurde. Complimenti. Continuate così a farvi e a fare del male.
Sotto l'aspetto argomentativo le tesi complottiste-catastrofiste, rivolte a giustificare la dipendenza della cultura dalla politica ( o per dirla fuori dai denti: della libertà culturale dalla “giusta causa politica”, la “loro” s’intende), sono perciò simili a quelle evocate da Togliatti. In sintesi: a) esistenza di un accerchiamento imposto da un crudele nemico esterno, il capitalismo; b) inevitabilità, quasi ad orologeria, del suo crollo; c) obbligo, quindi, per l’uomo di cultura, visto che la politica ha il monopolio della verità, di sottomettersi ai voleri del “Partito Nuovo”.
Come si vede, Nihil sub sole novum… Semplificando: non c’è più un “Partito Nuovo” comunista, ma ne sopravvive la pericolosa mentalità totalitaria. E proprio all’interno del presunto “Partito Nuovo” del Social Network. Che per giunta, a differenza del Pci di Togliatti, scorge accerchiamenti dove invece non ci sono.

Inoltre questa cultura dell'odio on line - ripetiamo basta fare un giro - sembra purtroppo essere finita nelle mani dei peggiori “predicatori, retori e arcadi”. "Spostati", appunto. Personaggi di mezza tacca, spesso totalmente irresponsabili, che non sarebbero piaciuti, non solo a Marx, ma neppure a Togliatti, per non parlare di Vittorini. E quindi in certo senso il "Partito Nuovo" del Social Network, è molto più pericoloso del Pci togliattiano, perché, come dire, l'odio a tutto campo, tipico dello "spostato sociale" ha sostituito l'odio mirato della "vecchia guardia" comunista": l'odio disordinato dell'avventuriero sociale ha così preso il posto dell'odio ordinato del funzionario e del militante inquadrati... Per dirla con Hobsbawm il ribelle ha sfilato la poltrona al rivoluzionario di professione. Certo, entrambi odiano, ma l'odio illimitato è ancora più pericoloso. Perché si manifesta attraverso quell ' "assoluto diritto di odiare", rivendicato, proprio in questi giorni, dai peggiori avventurieri della tastiera.
Una pericolosità, infine, che nasce anche dal fatto - e questo va riconosciuto - che dall'altra parte non ci sono uomini, come nel 1946, della levatura di Croce, De Gasperi, Einaudi.
Per tale ragione, costi quel costi, mai suoneremo il piffero per questa gente. Come non lo abbiamo mai suonato - ma è un’altra storia… - per l’Arcadia Neoliberista.
Noi cerchiamo la verità, pur sapendo umilmente che in questo mondo sarà difficile raggiungerla. E comunque sia, non riteniamo di possederla per scienza infusa come “loro”, i "duri e puri". E questa ricerca non possiamo appaltarla né agli amici né ai nemici dell’attuale sistema politico, economico e sociale.
Su questo blog non si fanno sconti. A nessuno.


Perciò i nostri venticinque lettori stiano pure tranquilli.

Carlo Gambescia 

domenica 20 dicembre 2009

Onorare Craxi? Sì, ma “storiograficamente”


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Come ha notato Antonio Di Pietro, con la delicatezza che gli è propria, Craxi è morto da “latitante, condannato per corruzione e illecito finanziamento ai partiti”. Il che è vero. Sbaglia perciò la Moratti a proporre di intitolare una via di Milano all’ex segretario socialista, (http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2009/12/29/visualizza_new.html_1649934294.html ). Va però anche detto che non si parla di un terrorista, ma di un politico, e di alto livello, che provò a costruire un socialismo democratico, sganciato nettamente da qualsiasi condizionamento marxista-leninista. Certo, con metodi italiani, elemosinando tangenti a destra e manca. Del resto, a differenza del Pci, i socialisti italiani non godevano di finanziamenti internazionali.
E’ pure nostra convinzione che "Mani Pulite", a un certo punto, si convertì in un vero e proprio regolamento di conti tra la sinistra rimasta fedele al Pci, pesantemente condizionata negli anni Ottanta dall’onda lunga socialista, e Craxi. Contro il quale la vendicativa sinistra paleocomunista, rispolverò addirittura l’epiteto di socialtraditore.
Ora, per una volta, siamo d’accordo con Di Pietro. Non si può dedicare una strada di Milano a un "latitante"… Ma, pur condannando il “metodo Craxi” - che non crediamo sia scomparso con lui - non possiamo non rispettare, se non ammirare, il suo grandioso progetto di rinnovamento del socialismo italiano. Una vera svolta che guardava lontano, verso la costruzione di quella socialdemocrazia di stampo europeo, che si fatica a ritrovare nell’attuale Pd, che di socialista e democratico ha veramente poco.
Craxi, nel caso, andrebbe perciò “onorato”, non con misure di tipo toponomastico, ma con un serio lavoro storiografico, rivolto a indagare le ombre e le luci, non poche, di un Psi che testardamente guardava a Turati. Il vero padre del socialismo riformista italiano.
Craxi forse non ne fu all’altezza. Ma devono essere gli storici a stabilirlo, non i giudici, o peggio ancora, gli ex giudici passati alla politica come Antonio Di Pietro.


Carlo Gambescia 

venerdì 18 dicembre 2009

Cara Italia ti scrivo...
di Roberto Buffagni *



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Cara Italia, c'è qualcosa di nuovo nel sole, anzi d'antico.
Fuori nevica, ma stamattina, guardando il calendario, ho visto che segna il 24 luglio.
Prima o poi, verrà il 25, e poi, certo, anche settembre; lo stupendo, inevitabile settembre italiano: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7...et voilà, 8!
Qui ti volevo, bella mia!
Stavolta come andrà?
Scusami, cara, se dubito di te; ma sai come si dice, "puttana una volta, puttana sempre."
Sta' tranquilla: non chiederò il divorzio, perché quando si è amata sul serio una donna, non la si pianta con la scusa che è diventata una troia (sarà anche colpa mia se sei come sei, no?).
L'altra volta, fra te e l'indecenza dello sfacelo e della vergogna, c'è stato per qualche ora un povero stilista costretto dal destino dinastico a vivere da impostore il ruolo di Principe Azzurro: e ha sciaguratamente toppato per non disubbidire a mamma e papà.
Stavolta, tra te e la solita, vecchia solfa (te che ti svendi a prezzi di saldo al primo che sventola un assegno e ti promette di fare di te una donna onesta, ti crei un bel kit di falsi ricordi e, conforme l'idealtipo della troia, ti pavoneggi con il tailleurino della sciuretta di buona famiglia) c'è un mediocre barzellettista da avanspettacolo milanese, un ballista compulsivo, un patetico vecchietto coi capelli tinti e il parrucchino, uno che ha fatto un sacco di soldi e li spende come li spenderebbe un venditore di auto usate che ha vinto alla lotteria di Capodanno.
Però guarda, cara: devi smetterla di sognare il rombante arrivo in MegaSuv o in Ferrari del Vero Signore, che ti carica sui profumati sedili in Vera Pelle e ti fa finalmente entrare nella Vera Vita della Vera Signora.
Rovista, cara, in mezzo a tutte le balle che custodisci come reliquie nel cassetto, e cerca di trovare un briciolino di sincerità, una formichina di verità, un ricordo non inventato della tua vita vera, e renditi conto di chi sei, tesoro bello: di chi siamo, te e noi che ti vogliamo bene.
Non siamo dei signori, mia cara: perchè come diceva il vero, unico e solo Principe Ereditario Italiano, signori si nasce, e noi, modestamente, non lo nascemmo. Questo il Vero Signore lo annusa a miglia e miglia di distanza, e non te/ce lo perdona, né ieri, né oggi, né mai.
Il Vero Signore, cara, ti caricherà in macchina, si farà fare un p***, si farà prestare i soldi per la benzina con il pretesto che i Veri Signori non portano denari con sé in quanto ne aborrono il volgare contatto, e ti scaricherà alla fermata del 12 barrato con il tailleurino tutto macchiato e il collant a pezzi ("Ti telefono io..."): perché il Vero Signore è un Vero Pezzo di Merda, cara, e sarebbe anche ora che lo capissi, nonostante tutti i fotoromanzi di cui ti sei foderata il cervello. Capito, cara? Stai in campana!
Con immutato affetto, tuo Popolo Italiano.
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Roberto Buffagni

(Scrittore e commediografo )
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* Oggi preferisco lasciare la parola all' amico Roberto Buffagni. Più bravo di me, soprattutto quando si tratta "cantarle e suonarle"... Diciamo però che la "musica" del post è condivisa da tutti e due, mentre il "testo" è interamente suo...
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giovedì 17 dicembre 2009

Libri al telegrafo...


Un must per chiunque studi il mimetismo animale. In natura non esiste alcuna specie, anche all'interno di quella umana, che possa competere o riprodurre i livelli di perfezione raggiunti dal mimetismo di Gianfranco Fini.
Un libro che avrebbe affascinato Konrad Lorenz.


                                                                                                                       Carlo Gambescia



mercoledì 16 dicembre 2009

Divagazioni sociologiche sull’odio



Secondo Sant’Agostino “l’ira è un'erbaccia, l’odio un albero”. Come dire: l’odio è un’ira "stabilizzata". Un’ira fredda: una disposizione non temporanea ma permanente a danneggiare colui che si odia. Non è un buon sentimento: l’ira si può sradicare come un’erbaccia, grazie alla calma di una ragione ritrovata. L’odio meno, soprattutto quando assume l'aspetto di una quercia secolare.

Per Freud l’odio racchiude una pulsione di morte. E in questo senso si trasforma sempre in fonte di angoscia e sofferenza mentale. Colui che odia, insomma, non vive bene. L'odio si nutre di pregiudizi: dal momento che come insegna la psicologia, chi odia, come il fondamentalista di qualsiasi colore, attribuisce preventivamente all’altro sempre intenzioni negative. Probabilmente anche perché, per dirla con Hermann Hesse “quando odiamo qualcuno, odiamo nella sua immagine qualcosa che sta dentro di noi". Chi odia, e non è un gioco di parole, odiando maledice sempre se stesso.
La sociologia invece non ha mai studiato adeguatamente l’odio. Pochi studiosi si sono occupati dell'argomento. Max Scheler, sulla scia di Nietzsche, ha individuato nel risentimento la causa principale dell’odio sociale: un brutto "sentire di nuovo" o "sentire sempre" che sorgerebbe da quell' irrefrenabile volontà di possesso che pervade l’uomo moderno, affamato di beni materiali. Se l’unico valore apprezzato è quello “economico”, allora inevitabilmente ci si "risente" per quello che “non si possiede”. E di riflesso si finisce per odiare “colui che possiede”.

Non per niente Julien Benda, acuto filosofo sociale, parlò del Novecento, come del secolo fondato "sull' organizzazione intellettuale dell’odio politico”. E, infatti, se ci si pensa bene, il liberismo resta fondato sull’invidia, quale molla che spinge a emulare i consumi altrui, anche a costo di privarsi di una vita interiore. Mentre il marxismo ha trasformato l'invidia in odio di classe, e l'odio di classe in strumento di lotta politica e di ferreo e ingiusto dominio delle coscienze. Infine, fascismo e nazionalsocialismo si sono "limitati" a sostituire all'odio di classe quello di nazione e razza...
Per contro il grande Pitirim Sorokin provò per primo - studiando ad esempio le vite dei santi - che chi ama vive più a lungo. Di qui il suo straordinario disegno teorico volto a studiare le metodologie positive per “produrre e diffondere” tra gli uomini, l’amore al posto dell’odio... E naturalmente liberisti, marxisti, fascisti e nazisti lo presero per pazzo.

Per tutte queste ragioni, mai rivendicheremo alcun "diritto di odiare”: una specie di diritto alla cattiva vita. Eventualmente può esistere il "diritto di amare". Quello sì. Come diritto alla buona vita e non all'autolesionismo. Ma con moderazione, perché se non santificato da una fede sincera e tollerante in Dio o negli uomini, anche l'amore rifiutato, può trasformarsi in odio. Di qui l'importanza, per dirla con la Arendt, che ognuno si comporti "da amico di molti, ma fratello di nessuno” . E nella speranza che nessuno mai ci scelga - perché può capitare - come nemici.
Probabilmente la nostra è la strada più difficile, irta di ostacoli, perché per dirla con Bernanos, “odiarsi è facile, la grazia è dimenticare” .

E quindi pochi ne sono capaci. Ma perché non tentare?

Carlo Gambescia

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martedì 15 dicembre 2009

Berlusconi, l’Italia e il ciclo dell’odio sociale



Sarà molto difficile tornare indietro. Il clima di odio sociale tra i sostenitori di Berlusconi e i suoi avversari ha praticamente superato il punto di non ritorno. Nonostante la sanguinosa aggressione di Piazza del Duomo, gli uni e gli altri insistono nel “farsi del male”, per ora, verbalmente. E’ singolare come un popolo - parliamo di quello italiano - tenda, come attratto da una specie di magnetismo storico e politico, a commettere sempre gli stessi errori. E a muoversi, da novant’anni, nell’alveo di una mai sopita "guerra civile" tra rossi e neri…
A questo punto riteniamo che il ciclo dell’odio dovrà fare il suo corso completo. E potrà fermarsi solo con la completa vittoria politica degli uni o degli altri. Salvo poi essere "travasato" (e veicolato) dai vincitori in una formula politica di legittimazione. Come è stato per l’antifascismo, e prima ancora per il fascismo… Purtroppo per liberarsi dalla "propria storia", se mai un popolo vi riesce, occorrono secoli e secoli.
Si preparano perciò tempi molto difficili. Con o senza Berlusconi.
In questo quadro, pur compromesso, quale dovrebbe essere l’atteggiamento dei media? Sicuramente quello di un richiamo pressante alla ragione politica. E come? “Ammorbidendo” subito il linguaggio. Ma purtroppo la magnetica forza delle cose (politiche e storiche) e degli interessi (economici) sembra spingere i media altrove.
Diverso potrebbe essere il discorso per la Rete. Dove la forza delle cose e degli interessi di cui sopra, non ha ancora assunto un ruolo determinante. Soprattutto perché vi prevalgono i giovani, in teoria non ancora corrotti dal "modello" storico-antropologico della “guerra civile”… Invece anche on line sembra prevalere il più insulso estremismo. Spesso promosso da terze e quarte file della politica e della cultura, oggi ingrigite: un atteggiamento narcisistico e irresponsabile che non promette nulla di buono.
Dal momento che l’apologia di reato resta apologia di reato, anche se ultramodernamente veicolata attraverso FaceBook. E con la libertà di pensiero non c’entra nulla. Inoltre la “celebrazione” del gesto di Tartaglia, nella sua bieca stupidità, può favorire l'adozione di provvedimenti punitivi da parte del ministro Maroni.
Misure che possono solo appagare la “voglia” di rivoluzione o di ordine che affascina i pericolosi imbecilli del tanto peggio tanto meglio che vivacchiano sulla Rete. E ce ne sono tanti, a destra come a sinistra. Basta fare un giro.


Carlo Gambescia