giovedì 29 febbraio 2024

Ilaria Salis e l’antisemitismo ungherese

 


È triste per l’analista, anche metapolitico, ritrovarsi in brutta compagnia. In questo caso di una sinistra che finora ha ignorato o coperto i violenti. La stessa sinistra che dipinge con i forti colori del martirio la figura di Ilaria Salis.

Martire (che in greco antico significa testimone) è chi si immola per un’idea, ma senza aver prima alzato un dito sui persecutori. Il martire è un testimone innocente. Un agnello sottoposto al macello. Sotto questo aspetto la Shoah fu un macello unico e inenarrabile. Frutto velenoso dell’antisemitismo. Il lettore prende nota del termine. Poi vi ritorneremo.

Al momento sull’innocenza della Salis, nessuno può giurare. Però neppure sulla colpevolezza. Tuttavia, ecco la differenza tra lo stato di diritto occidentale e lo stato di polizia ungherese. Per capire, bastano quattro paroline: “in dubio pro reo”. Quindi la Salis andrebbe assolta. Magari per insufficienza di prove, ma assolta. E invece in Ungheria, nuova culla del diritto sovranista,  rischia 24 anni. 

Pertanto, dal punto di vista del liberalismo giuridico, risulta ancora più ripugnante il trattamento carcerario al quale la Salis è sottoposta. Trattamento che non è sicuramente in linea con le idee del Beccaria.

Sia chiaro, non abbiamo cambiato idea sul principio di responsabilità individuale. La Salis, che non ha mai nascosto le sue idee anarchiche e antifasciste, forse poteva saggiamente restare in Italia: manifestare o testimoniare da lontano. Insomma, evitare di cacciarsi nel ginepraio ungherese: si chiama senso di responsabilità, virtù liberale (*).

Però, quando ieri sera, abbiamo sentito ai microfoni del Tg1, la “corazzata” informativa della Rai, per inciso “comandata, da un giornalista simpatizzante di Mussolini (sembra che a casa abbia il busto), le parole del Ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó, siamo rimasti di sasso.

Il ministro,  oltre a dipingere la Salis come una assassina (quindi già giudicata e condannata a parole in barba a qualsiasi presunzione di innocenza), ha detto qualcosa, al giornalista che lo intervistava in ginocchio, che a nostro modesto avviso rivela il vero volto del governo ungherese: che dietro le richiesta italiana di clemenza nei riguardi della Salis si nasconde una campagna di stampa internazionale. Organizzata – ecco il lato rivoltante della cosa – da alcuni nemici dell’Ungheria come George Soros. Antisemitismo allo stato puro.  E in diretta sulla tv pubblica,  come se nulla fosse.  La normalità.  

Insomma, ci risiamo, l’ebreo che trama nell’ombra, il maledetto stereotipo ideologico che condusse alla Shoah.

Soros è imprenditore, filantropo, banchiere, di origine ungherese naturalizzato statunitense, da sempre impegnato, come seguace della filosofia popperiana, in una grande battaglia di libertà contro ogni forma di totalitarismo. Che c’è di male? Nulla. Ovviamente per le persone politicamente normali.

Invece per l’antisemita, in particolare tra fascisti e neofascisti, Soros è la bestia nera. Come lo è per comunisti e post-comunisti. In Russia ad esempio è demonizzato come in Ungheria. Di qui le leggende complottiste, rilanciate dagli stessi movimenti neonazisti che celebrano ogni anno in Ungheria, sotto gli occhi benevoli del governo Orbán, le Croci Frecciate ungheresi che insieme ai nazisti difesero Budapest dall’assalto dell’Armata Rossa.

Non si dimentichi mai: i militi delle Croci Frecciate, l’equivalente delle SS tedesche, legavano con il filo spinato lunghe file di ebrei sulla banchina, che poi spingevano nel Danubio, dove affogavano. I primi a cadere nel fiume trascinavano tutti gli altri. Era una tecnica per risparmiare pallottole. Ne bastava una, per il primo della fila.

Secondo la giustizia di Budapest Ilaria Salis si sarebbe recata in Ungheria per contestare in modo violento, quindi con premeditazione, i rispettabili cittadini (il ministro Szijjártó  li ha definiti "poveri innocenti") che però  continuano  a celebrare una volta all’anno l’ultima grande battaglia dei nazisti tedeschi e ungheresi: gli stessi utilizzatori finali del filo spinato per economizzare proiettili.  Capito che aria tira a Budapest?  

A che servono musei e memoriali sul Danubio se poi Soros, “l’ebreo”, viene liquidato, alla stregua dei suoi avi, come nemico del “popolo” ungherese?

Ammesso e non concesso, che la Salis, non avesse buone intenzioni, come si può credere che verrà giudicata obiettivamente da un governo  e da  un sistema giudiziario  affetti  dal morbo antisemita?  In un paese dove l'aria per gli ebrei continua ad essere irrespirabile.

Pertanto la non proprio raccomandabile compagnia di sinistra continua a intristirci. Però, giù dalla torre, tra la Salis e Orbán, getteremmo Orbán. Dal comunismo si può guarire. Si pensi alla grande lezione di Silone e tanti altri.  Di antisemitismo si muore.

Carlo Gambescia

(*) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/01/ilaria-salis-pascal-e-i-pirenei.html .

mercoledì 28 febbraio 2024

Ucraina. Il rischio della guerra dimenticata

 


Nessuno conosce veramente la situazione militare in Ucraina. L’unico dato certo è quello di una guerra in stile primo conflitto mondiale che si trascina da due anni senza risolutive vittorie di una delle due parti in lotta. A parte la vittoriosa offensiva Ucraina nella primavera del 2022, come risposta all’iniziale invasione russa giunta quasi alla periferia di Kiev.

Questa stasi può avere le più diverse motivazioni: 1) incertezze  militari russe, capacità morale di resistenza ucraina, rinforzata materialmente dagli aiuti occidentali; 2) volontà politica di mandarla per le lunghe dell’Occidente euro-americano: a) per non umiliare la Russia, senza però cedere del tutto; b) per insufficienza di mezzi da fornire all’Ucraina sul piano dell’industria militare; c) per tirare comunque avanti, senza creare problemi di politica interna, perché, si pensa, “prima o poi la Russia si stancherà e/o si convertirà alla pace”.

Si dice ufficialmente – anche da parte russa – che si vuole evitare un conflitto tra Russia e Nato dalle proporzioni poco controllabili. In una parola si teme l’escalation atomica.

Cosa dire? Che, nonostante tutte le chiacchiere sui nuovi tipi di guerra, si continua a ragionare politicamente come ai tempi della Guerra Fredda, con le armi atomiche sullo sfondo, pronte ad essere impiegate.

Il che è molto comodo. Perché su queste basi – stasi  militare e pericolo di guerra atomica – la percezione generale in Occidente della guerra lunga, cioè della normalità nell’anormalità, sembra quasi una liberazione. O comunque una risorsa politica, per non impegnarsi a fondo.

Per quale ragione “risorsa politica”? Perché in questo modo si facilita la diffusione dell’idea di una guerra che può durare anni.  Insomma il problema (la guerra) diventa una risorsa (la soluzione):  meglio vivere, si pensa,  in una specie di limbo tra pace e guerra, che essere tutti morti a causa di una guerra atomica.

La cosa più  importante è che non muoiano soldati Nato. E gli ucraini caduti? Un danno collaterale.  

Una situazione spuria. Con la quale – cosa che si pensa ma non si dice – l’ Occidente può convivere. Una scelta che non spaventa di certo la dirigenza russa che da secoli (ben prima dell’arrivo di Putin) ha in pugno la pubblica opinione interna. E che perciò può restare in  sella, pur mutando i nomi,  quanto vuole.

Insomma l’Occidente come guarda alla Russia? Con fastidio. Però al di là delle dichiarazioni ufficiali di sostegno all’Ucraina, la teme, in quanto tuttora percepita, a torto o ragione, come grande potenza nucleare. Perché, come detto, si continua a ragionare, come ai tempi della Guerra Fredda. E la Russia? Come da tradizione, continua a scorgere nell’Occidente il più classico dei nemici storici.

Va fatta anche un’altra osservazione. L’appoggio occidentale all’Ucraina sembra perciò riflettere il modello indocinese dell’aiuto a termine. Si sostiene l’alleato ma senza grande convinzione. Ci si continua a muovere lungo le linee di una politica militare condotta controvoglia. E qui si pensi al coro di no, proprio di ieri, a proposito dell’ipotesi avanzata da Macron sull’invio di truppe di terra in Ucraina. 

Probabilmente il Presidente francese bleffa, però resta il fatto dello scarso impegno occidentale a dare una scossa risolutiva in Ucraina. Come? Insistendo pubblicamente sulla natura convenzionale della guerra in Ucraina. Mettendo così con le spalle al muro la Russia: guerra convenzionale per la difesa dei confini ucraini. Nessun uso armi di armi atomiche, nessuna invasione della Russia. In questo contesto l’invio di truppe sul terreno avrebbe un senso. Certo, ci si assume un rischio. Ma il rischio c’è, dove c’è un’opportunità. In questo caso  di chiudere una guerra e dare una lezione ai russi.

Alla base dell’attendismo – lo abbiamo scritto più volte – c’è l’incapacità, dopo il 1945, della mentalità occidentale, intrisa di pacifismo e welfarismo, di pensare la guerra. Alla quale si accompagnano due fattori: 1) la sopravvalutazione della forza russa frammista 2) al vecchio modo di ragionare secondo gli schemi mentali della Guerra Fredda.

Sotto quest’ultimo aspetto, e concludiamo, la sostanziale stasi tra Ucraina e Russia fa il gioco di una politica attendista soprattutto in Occidente. Purtroppo si comincia a guardare all’Ucraina, come a una guerra dimenticata, della quale parlare sempre  meno.

Per ora, la copertura mediatica, che rispecchia quella del discorso pubblico, si è fatta discontinua. Diciamo a frammenti, rapsodica.

Il che però fa il gioco della Russia. Che può fare a meno della libertà d’opinione. Per una dittatura, non diciamo nulla di nuovo, è molto più facile intraprendere e gestire la guerra di una liberal-democrazia. La Russia rispetto all’Occidente gode purtroppo di un superpremio di illegalità. Che, alla lunga, potrebbe essere decisivo.

A meno che l’Occidente non muti la sua politica. Come? Evitando di considerare l’ attendismo come una risorsa politica.

Carlo Gambescia

martedì 27 febbraio 2024

Voto in Sardegna. Che tristezza

 


Incipit che non c’entra quasi nulla con il resto del pezzo.  Quasi, attenzione.

Maurizio Belpietro ha stoffa del vero giornalista di regime. Si pensi, come esempio, ai direttori dell’ ”Unità” degli anni Cinquanta dello scorso secolo, abilissimi nel nascondere ogni notizia sfavorevole all’Unione Sovietica. Però dietro  “L' Unità”, c’era un partito totalitario.

Per contro dietro Belpietro, che nasconde la sconfitta della destra in Sardegna (micro taglio basso di prima, boxinato, quasi invisibile, con dubbi trumpiani sulla regolarità delle elezioni), non c’è nessuno. Se non il fantasma di Marat.
Livore puro. Frammisto, forse, a delirio di onnipotenza,  Si chiama giacobinismo giornalistico, poi perfezionato da Napoleone: si trasforma l’avversario in nemico assoluto. E ogni mezzo è buono per distruggerlo. Soprattutto la menzogna. La destra ha perso 1 a 0 , non si dice, però si avanza l’idea maligna che l’arbitro abbia truccato la partita (*).

Roba da manuale delle vecchie marmotte della guerra civile. Altro che il fair play liberale… Che tristezza. Anche perché Belpietro ha la spudoratezza di definirsi liberale. Però, così è. Italia, anno di grazia, 2024.

Il lettore penserà, perché essere tristi? La destra ha perso le regionali sarde. Qui veniamo all’argomento di oggi.

E invece siamo tristi come prima, anzi più di prima. E per una semplice ragione. Assenza di sbocchi politici. Perché l’Italia è finita in un vicolo cieco. Infatti è vero che ha vinto la sinistra, ma si tratta della sinistra populista del Pd e del M5S: il “campo largo” è un impasto di autoritarismo, statalismo, giustizialismo. Solo per dirne una: sarà governatore della Sardegna, un ex ministro a Cinque Stelle.

Certo, una vittoria della destra avrebbe rafforzato la linea politica di FdI. Un nuovo successo da sbandierare in pubblico per i manganellatori riuniti di Palazzo Chigi. Però il vero punto della questione è che la linea politica della destra è altrettanto statalista, autoritarista e giustizialista. Per dirla  alla buona: “ammazza ammazza è tutta ‘na razza”.

Purtroppo, il problema di fondo è dettato da un fatto preciso: che ormai la scelta dell’ elettore italiano è tra il populismo di destra e il populismo di sinistra. Tra una destra razzista e una sinistra welfarista. Ad esempio, a proposito di welfare, l’unica differenza tra destra e sinistra in materia è nel fatto che destra vuole riservare il welfare solo agli italiani, la sinistra vuole invece estenderlo ai migranti. Comunque la si metta, l’utilità della costosa gabbia welfarista è condivisa dalla destra e dalla sinistra.

Ora il lettore, che già sta  facendo il conto alla rovescia, si aspetta i soliti tuoni e fulmini di Gambescia sul deficit italiano di liberalismo, eccetera, eccetera.

A dire il vero, avvertiamo solo una grande tristezza. Perché vedere l’Italia perseverare negli stessi errori è avvilente. Sicché Gambescia oggi non se la sente. Niente tirate. Solo va l’uomo in frack…

Carlo Gambescia

(*) Per il titolo de “La Verità” e per un raffronto di titolazione si veda qui: https://www.giornalone.it/ .

lunedì 26 febbraio 2024

Sogni d’oro per la Russia (nonostante “Il Fatto”)

 


La Russia può dormire tranquilla. Insomma, sogni d’oro. Nonostante “Il Fatto Quotidiano”  come suo solito drammatizzi (1) un accordo tra Ucraina e Italia che invece è "aria fritta " (2). Ovviamente  presentato da Giorgia Meloni come un trionfo politico.

E probabilmente l”ha capito anche Zelensky. Che, per dirla con un giovane cantautore italiano, sa che “la vita è breve e pure stretta, ma la tua mente è una gran sarta che cuce in fretta”. Quindi non va persa alcuna opportunità. Anche minima e allungata, come una mancetta al guardamacchine, da Giorgia Meloni. L’importante è resistere un minuto in più dell’ invasore russo. Così si vincono le guerre.

Ammettiamo pure che il termine appena usato – “aria fritta” – non sia proprio da raffinato analista, però non ne scorgiamo di migliori. Qual è il significato di “aria fritta”? Per dirla con il vocabolario si definisce in questo modo un enunciato, scritto o pensiero privo di contenuto, vuoto e inutile. Non ideologicamente però. Perché, per dirla fuori dai denti, per fare “casino”, titoli come quelli del “Fatto”, sono da manuale.

Aria fritta, per due ragioni

In primo luogo, la durata di dieci anni (art. 15.1) non significa nulla perché l’aria fritta, può durare anche un secolo, ma sempre aria fritta rimane. E poi, i trattati, soprattutto se bilaterali, come i titoli di stato, durante e dopo una guerra, possono essere, rifiutati all’incasso: carta stracciata. Come ha asserito Tajani, tradendosi: “Il nostro accordo – come quelli stipulati da Francia, Germania e Regno Unito – non sarà giuridicamente vincolante. Dal testo non derivano obblighi sul piano del diritto internazionale, né impegni finanziari. Non sono previste garanzie automatiche di sostegno politico o militare. Come quella dei nostri partner, anche la nostra intesa bilaterale non richiederà, quindi, la procedura di ratifica parlamentare” (3).

In secondo luogo, per venire subito al punto “caldo” dell’accordo, (art. 11), si legge che “nel caso di un futuro attacco armato da parte della Russia all’Ucraina”, Roma e Kiev “si consulteranno entro 24 ore per determinare le opportune misure successive necessarie per contrastare o contenere l’aggressione” (art. 11.1). Ciò significa che, in 24 ore (ma si sciali, anche 48), nell’assenza di forze italiane e Nato sul campo, quindi subito pronte per l’impiego – o comunque di un preciso riferimento nell’accordo a un ordine di mobilitazione. come si diceva un tempo – la Russia avrà tutto il tempo per il colpo di grazia.

Inoltre, si afferma che “ l’Italia, in tali circostanze, agendo nei limiti dei suoi mezzi e disponibilità, in accordo con le norme e i principi della sua costituzione e con le regole e leggi dell’Unione Europea, fornirà all’Ucraina un adeguato, rapido e congruo supporto nell’ambito della sicurezza e difesa, dell’ industria delle difesa, dello sviluppo della capacità militare, e dell’ assistenza economica” (art. 11.2). Perfetto, ovviamente per i russi. Perché  per bloccare tutto in Italia basta l’evocazione dell’articolo 11 della Costituzione sul rifiuto della guerra, in combinato disposto con l’articolo 52, che parla dell’obbligo di difesa del sacro suolo della patria: quindi dell’Italia non dell’Ucraina. Come dicevamo, "aria fritta".

Un ultimo punto, sugli aiuti, militari ed economici. Fino ad oggi sono stati semplicemente ridicoli. Quelli militari ammontano a 700 milioni di euro (4). Gli altri contributi a circa 2 miliardi. Roba da ridere… (5).

Come dicevamo all’inizio, con Giorgia Meloni, la Russia può dormire tranquilla. E “Il Fatto” fare “casino”.

Intanto a Kiev si muore.

Carlo Gambescia

(1) Qui  :  https://www.giornalone.it/prima-pagina-il-fatto-quotidiano/ .

(2) Qui:  https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Accordo_Italia-Ucraina_20240224.pdf

(3) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/02/22/tajani-presto-accordo-bilaterale-di-sicurezza-con-kiev_6a00f4a2-4e19-4dba-ae46-13aa9761800e.html .

(4) Qui: https://www.analisidifesa.it/2023/12/litalia-vara-lottavo-pacchetto-di-aiuti-militari-allucraina/ : “Secondo i dati recentemente resi noti dal Kiel Institute l’Italia si pone al 13° posto (700 milioni di euro) per forniture militari all’Ucraina, dietro a Stati Uniti (44 miliardi), Germania (17,1), Regno Unito (6,6), Norvegia, Danimarca, Polonia, Olanda, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca e Lituania ma davanti a Slovacchia, Francia e Australia.” Per un aggiornamento qui: https://www.ifw-kiel.de/publications/ukraine-support-tracker-data-20758/.

(5) Si veda art. 1.5 dell’accordo: “ Dall’inizio della guerra, L’Italia ha sostenuto l’Ucraina fornendo aiuti in vari settori. Tra i quali, 110 milioni di euro sono stati stanziati per il sostegno al bilancio, 200 milioni di euro per prestiti agevolati, 100 milioni di euro per gli aiuti umanitari, 820 milioni di euro per il sostegno ai rifugiati ucraini in Italia, circa 400 milioni di euro per il sostegno macrofinanziario, 213 milioni di euro per sostegno allo sviluppo, 200 milioni di euro a sostegno della sostenibilità energetica dell’Ucraina” e ha “fornito all’Ucraina 8 pacchetti di aiuti militari nel 2022 e nel 2023 e intende mantenere lo stesso livello di sostegno militare aggiuntivo nel 2024”. Al momento,  per gli aiuti, civili  e militari,  se non erriamo nell'interpretare i dati,  l’Italia  sembra essere  al decimo posto (Ue inclusa). Niente di che, insomma,. Si veda qui: https://www.ifw-kiel.de/publications/ukraine-support-tracker-data-20758/ .

 

domenica 25 febbraio 2024

Il simbolismo del manganello

 


Che, per dirla alla buona, la sinistra ci marci, è una vecchia storia. Esiste una tradizione di conquista violenta delle istituzioni che risale alla Comune di Parigi (1871) e ancora prima alla presa della Bastiglia (1789). Modalità di azione sociale poi riprese a specchio nel Novecento dalle piazze turbolente e rivoluzionarie.

Questo per dire che i  moderni  movimenti di protesta, addirittura a far tempo dal luddisimo operaio (la distruzione di macchine, come i telai meccanici ad esempio, tra Settecento e Ottocento), fino al Sessantotto e oltre, sono sempre stati corrotti dalla violenza, rapsodica o meno.

Il fascismo, storicamente parlando, fu una reazione altrettanto violenta della destra contro l’azione violenta della sinistra. Si sostituì alle forze di polizia, giudicate troppo permissive. E manganellò a tutto spiano.

Pertanto, anche la destra, soprattutto se dai natali fascisti, quando condanna la sinistra per gli incidenti di piazza, ci marcia, nel senso di giustificare l’uso della violenza oggi istituzionale ieri extra-istituzionale, in chiave repressiva.

Ovviamente nel primo caso, invece di violenza si parla di uso legittimo della forza da parte delle istituzioni. Il famoso monopolio statale legittimo della violenza, secondo la  definizione di Max Weber.  Però, il Maestro ci perdonerà, se si può dire, sociologicamente parlando,  che se non è zuppa è pan bagnato.  Sempre di violenza si tratta. Cambiano solo i direttori, non la musica. E secondo alcuni, neppure l'orchestra.

E qui veniamo al valore simbolico del “manganello”, usato ieri dalla forze dell’ordine (si noti: "forze" dell'ordine),  contro i manifestanti pro-Gaza, a Pisa e Firenze. Per quale ragione simbolico?

In primo luogo, perche riporta alla violenza fascista contro ogni tipo di contestazione sociale e manifestazione di opinioni contrarie al governo. Il manganello è segno di comando e di potere, si collega alla simbologia del fascio littorio, poi ripresa dal fascismo ( ma non solo, il fascio fu usato dai non teneri giacobini, sormontato dal berretto frigio). Una simbologia che risale all’antica Roma: il fascio di bastoni  legati con strisce di cuoio, di regola con la scure, rivolto a simboleggiare il potere di vita e di morte sui rei, confessi o meno.

Sotto questo aspetto l’uso del manganello rappresenta l’esatto contrario del principio liberale e garantista dell’ “in dubio pro reo”, cioè che nel dubbio si deve giudicare in favore dell’imputato. Si chiama presunzione di innocenza. Insomma, detto altrimenti, scendere in piazza non è reato.

Per contro, il discorso si fa diverso quando il manganello viene usato in modo indiscriminato dalle "forze" dell’ordine (ma si parla anche di "forza pubblica") contro colpevoli e innocenti. Se ci si perdona il latino maccheronico,, il principio del manganello è quello che “in dubio” pro (botte) reo”. Si chiama presunzione di colpevolezza. Nel senso che scendere in piazza è reato.

In secondo luogo, oggi, grazie alle tecniche di riproduzione digitale, l’uso del manganello, è roba da età della pietra. Per capirsi: ieri sarebbe bastato contenere i quattro gatti di dimostranti, isolare digitalmente i pochi violenti, per poi identificarli ed eventualmente trasmettere gli atti al magistrato. Limitarsi a una tecnica funzionale, sicuramente di tipo liberale, perché rispettosa del principio garantista della presunzione di innocenza.

Il che significa che l’uso del manganello a Pisa e Firenze rinvia ad altre ragioni, di tipo simbolico come si diceva. La polizia, sentendosi con le spalle politicamente coperte dai  nipoti e  bisnipoti degli squadristi oggi al governo, ma anche come omaggio, per così dire, al Nuovo Ordine, ha voluto usare il manganello, in memoria dei vecchi tempi fascisti. Di qui il valore simbolico della violenza istituzionale, pardon “forza”, che ha avuto la meglio sul valore funzionale e garantista, favorito dalle tecniche digitali. Insomma, si poteva evitare.

Concludendo, brutti tempi.

Carlo Gambescia

sabato 24 febbraio 2024

A due anni dall’aggressione russa. Sull’ “ammuina” di Giorgia Meloni e altre cose

 


Sarà pure un nostro pregiudizio ma la proclamata vicinanza di Giorgia Meloni all’Ucraina a reti unificate non ci convince. E Salvini a parte, almeno per tre ragioni.

In primo luogo, perché l’Italia, pur inviando aiuti, anche militari, all’interno della Nato o meno, non ha la sufficiente forza, come del resto gli altri paesi Ue, per favorire la vittoria dell’Ucraina. Precisazione: vittoria nel senso di espulsione delle truppe russe dal territorio ucraino (con una forte opzione militare sulla reintegrazione della Crimea). Insomma come stop, o schiaffone, all’imperialismo militare russo. Senza però penetrare di un centimetro in territorio russo.

Pertanto, in secondo luogo, l’ attivismo italiano, più nei principi che altro, sembra essere un’ “ammuina” diplomatica, nel senso di agitarsi per attrarre la benevola attenzione dei superiori: gli Stati Uniti.

In terzo luogo, perché la debolezza militare – di questo si tratta – unita ad altre debolezze militari, quelle Ue e Nato (con gli Usa con il freno tirato), non fa la forza, ma produce una debolezza moltiplicata per il numero degli alleati. Oltre, ovviamente alla normale presenza, in un’alleanza militare, di problemi inerenti alla direzione tattica, strategica , alla coesione ideologica, al bilancio economico, eccetera, eccetera.

In realtà, nonostante la vigorosa propaganda anti-Zelensky dei russi e dei filorussi europei, l’Ucraina ha ricevuto aiuti americani ed europei (militari, finanziari, umanitari) mediocri e intermittenti: circa 110 miliardi di euro all’anno (*). Per capire i valori: al 15 gennaio 2024, secondo la Banca d’Italia, il debito pubblico italiano è circa 2.855 miliardi di euro. Se ci si passa il termine, all’Ucraina  hanno inviato i bruscolini. Se Kiev finora ha retto all’aggressione russa il merito è del valore dei suoi soldati e della manifesta e ridicola incapacità dei generali russi. Ovviamente alla lunga l’Ucraina, vista la sproporzione di forze, soprattutto economiche e demografiche, non potrà farcela.

Sono tre aspetti della situazione che Giorgia Meloni conosce molto bene  e sui quali conta per sviluppare una politica verso l’Ucraina di alleanza passiva, e conseguentemente di mani libere in caso di vittoria russa e di cedimento americano. Più che probabile nel caso di vittoria elettorale di Trump, che sul disimpegno statunitense nell’Est europeo, a partire dall’Ucraina, sta costruendo la sua campagna elettorale.

In qualche misura l’ “ammuina’ meloniana”, inclusa la sua presenza oggi a Kiev, alla presidenza del G7 (ma non come pare di 5 leader su 7, compreso Biden in videoconferenza da Washington), va collegata all’attesa dei risultati, prima della campagna l’elettorale (se Trump, verrà condannato), poi eventualmente, dei risultati di novembre (se Trump parteciperà, vincendo come molti osservatori danno quasi per scontato).

Pertanto, in particolare per il passato, culturalmente, missino, parlare dell’atlantismo della Meloni, è come parlare della castità di Don Giovanni. Si tratta di un attesa, tattica diciamo, per gustare meglio, strategicamente, le grazie del Cremlino. O comunque per non gustarsi con nessuno, soprattutto se Trump, che alla destra piace più del “moscio” Biden, dovesse vincere le elezioni e ritirare le truppe. Come in Vietnam e Afghanistan, per fare due esempi.

Purtroppo, a due anni precisi dall’aggressione russa, considerate le limitate risorse militari europee, la responsabilità di una guerra condotta di mala voglia, ovviamente non dagli eroici soldati ucraini, è tutta degli Stati Uniti, che per parafrasare (al contrario) il titolo di un celebre libro di Kipling, non vogliono, da almeno un secolo, farsi re. La corona imperiale è a portata di mano, là in terra, ma niente da fare: Washington non vuole raccoglierla. Esita, si avvicina, la prende, la prova, per poi di nuovo posarla in terra. Tutto il Novecento per capirsi, è distinto da questa politica dei due passi in avanti, uno indietro.

Ciò non significa che, storicamente parlando, non esista una comunità atlantica, culturale, politica, economica, persino militare. La comunità esiste. Ma perché sia tale ci si deve credere.

E gli americani, per primi, tentennano. Il che spiega, di riflesso, l’atteggiamento ondivago o comunque ambiguo di molti alleati europei, che magari ne condividono valori e interessi, ma non si fidano, Figurarsi perciò quando, come nel caso del governo Meloni e di Fratelli d’Italia, si sia ancora rivestiti di embrici missini e neofascisti: Se non si fidano degli Stati Uniti i liberal-democratici,  figurarsi i nipoti dei grandi sconfitti del 1945.

Un atteggiamento ondivago, di tutti a questo punto, anche all’interno della Nato (per non parlare dell’utopistica idea della conversione militare europea dalle rsa per anziani alle caserme militari…).Siamo purtroppo davanti a una pericolosa frammentazione morale e psicologica, prima che politica, sulla quale i russi contano per allungare gli artigli, prima sull’Europa orientale, poi, se dovesse presentarsi l’occasione, sull’Europa occidentale. Si pensi alla Russia, come alla classica valanga di neve che ingrossa precipitando a valle, schiacciando ogni cosa che trova sulla sua strada. Fermarla non sarà facile. Ma si dovrà pur cominciare.

Pertanto l’ ”ammuina” di Giorgia Meloni, a due anni dall’aggressione russa, è patetica e pericolosa per le libertà europee, quindi politiche, culturali, sociali, economiche. Perché si rischia di essere sommersi dalla forza cieca dell’imperialismo militare russo.  Insomma, altro che i giochini alla bella lavanderina di Giorgia Meloni.

Ai tempi della guerra del Vietnam  nei circoli americani si sorrideva di Bob Hope, l’attore comico,  che nicchiava. Poi però andò Saigon. Si diceva scherzando che Hope, noto per il suo impegno nell’intrattenimento delle truppe durante il secondo conflitto mondiale, si sarebbe mosso solo per una World War III.

Ecco, gli Stati Uniti sembrano soffrire della sindrome di Bob Hope. Alla fine vanno. Però prima quanta fatica…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ucraina-stella-senza-aiuti-157634 . E qui: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/quanti-aiuti-allucraina-131627 (2023) ; https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ucraina-a-due-anni-dallinvasione-164678 (2024).

venerdì 23 febbraio 2024

Modernità e dintorni. Il nuovo numero del “Corriere metapolitico”


 

Iniziamo dalla fine. “Il Corriere metapolitico” deve diventare una lettura assidua  per quanti si occupino, e in modo serio, dell’argomento. Il suo direttore Aldo La Fata, oltre ad essere un fine studioso di filosofia e cultura della religione (si spera che l’amico Aldo sia d’accordo con questa nostra definizione, forse troppo “generalista”), riprende, sviluppa e rilancia la lezione, di un pensatore metapolitico per eccellenza, Silvano Panunzio (1918-2018).

Un geniale filosofo, dal sapere enciclopedico (non “enciclopedista”) che scorgeva nella metapolitica un ponte verso la metafisica cristiana, non chiusa però alla lezione del fatti. Resta fondamentale, comunque la si pensi, la sua tripartizione concettuale, tra metapolitica (il lato alto e direttivo della politica), politica (il lato medio diciamo della politica, basato sulle dure repliche della storia e dei fatti), criptopolitica (il lato basso, se non infimo, della politica come corruzione e pervertimento delle cose umane).

Di qui la particolare importanza, per venire al punto, dell’ultimo fascicolo del “Corriere”, il numero 21 (dicembre 2023, anno VII), che si distingue, tra l’altro,  per la nuova bella veste grafica.

Il nuovo numero ruota riccamente intorno, per più della metà delle sue pagine, alla figura di Silvano Panunzio (“Forum di metapolitica”, pp. 7-93). Risplende di luce propria grazie agli eccellenti saggi di Giuseppe Palomba (riproposizione di un testo uscito nel 1979), Aldo La Fata, Roberto Russano (nuovi di zecca). Ai quali si aggiunge il pirotecnico scritto di Alberto Buela sul dissenso come strumento di una metapolitica dell’azione, testo tratto dal suo Epítome de Metapolítica, uscito in Argentina nel 2022. A chiusura del “forum” la riproposizione di due voci enciclopediche su e di Panunzio, uscite in Brasile.

Tra i vari contributi, distribuiti nelle sezioni che seguono, ricordiamo quello, molto brillante, di Bruno Bérard sul rapporto non del tutto scontato, talvolta conflittuale, ma necessario per alzare il tono euristico, tra metafisica e teologia (pp. 94-101). Non meno interessante il dotto contributo di Vincenzo Nuzzo (pp. 102-129). Uno scritto che si muove, pur come sottotesto (così crediamo), sui sentieri cognitivi del rapporto, da molti giudicato  innaturale ( ma non da chi  scrive), tra idealismo e realismo, incentrandolo su due figure, apparentemente lontane, anche nel tempo, come quelle del fisico Wolfgang Smith e di un filosofo, cognitivamente, problematico come Malebranche, al quale Augusto Del Noce, dedicò giustamente tempo e intelligenza, in cerca  delle tracce  nel mondo cartesiano e postcartesiano  di una modernità filosofica alternativa, ma modernità.

Su quest’ultimo argomento, ricordiamo il nitido saggio, diremmo addirittura metodologicamente esemplare, di Nuccio D’Anna. Dedicato a un Gabriel Marcel padre del novecentesco esistenzialismo cristiano (pp. 148-162), filosofo capace di tornare alla lezione dei fatti. Marcel, almeno così crediamo di intuire, taglia in due, concettualmente, il nodo della modernità: carcere e libertà dell’uomo di oggi. Marcel sembra però propendere per il carcere. Perché la vera libertà è in Dio. Il suo  Homo Viator, viaggia e vola altissimo.

Facendo un passo a ritroso, visto che siamo giunti a pagina 162 del fascicolo, consigliamo la lettura dell’ ”Intermezzo” di Dario Chioli sull’importanza di ragionare e argomentare (pp. 136-139), facoltà ricondotte a Logos e Sophía, come giusta lotta a “una mente asservita alle consuetudini”. Un dato sociologico, quest’ultimo, sul quale riflettere.

Seguono infine la rubrica delle recensioni e della novità editoriali (pp. 163-181).

Come il lettore può intuire non sono poche le buone ragioni per ricevere e leggere con assiduità “Il Corriere metapolitico” (alafata@yahoo.com). Non ultima, certamente, la motivazione esposta da Aldo La Fata nel suo editoriale, citando, immeritatamente, la nostra ultima fatica, il Trattato di metapolitica, nonché, più che giustamente, l’ Epítome de metapolitica dell’ intellettualmente instancabile Alberto Buela.

Scrive La Fata, riferendosi ovviamente anche al grande lavoro di ricerca svolto dalla rivista: 

“L’insieme di tutti questi studi apre così nuovi orizzonti interpretativi ai ricercatori e comprova l’importanza di prospettive di vetta che sanno guardare senza timore oltre le colonne d’Ercole della finitezza e della storia, spingendosi verso gli estremi limiti del mondo conosciuto e inerpicandosi sulle sue maggiori alture. È là che fiorisce rigogliosa la metapolitica” (p. 6).

Questo obiettivo, ci permettiamo di aggiungere, non può non passare attraverso un serrato confronto, che quindi non può essere di radicale rifiuto, con quella modernità, che più sopra abbiamo definito carcere e libertà dell’uomo di oggi. Il che può apparire contraddittorio. Ma, per dirla banalmente, senza carcere non c’è libertà. E senza libertà c’è solo carcere. Si dirà pure che senza carcere, esiste solo la licenza. Qui però resta lecito chiedersi che cosa sia la libertà. Difficile, se non addirittura impossibile, dare disposte definitive in argomento. Anche perché, per usare il lessico teologico-religioso, le società di santi per forza sono pericolose quanto quelle di peccatori per obbligo.

Lasciamo allora che ognuno decida liberamente. Del resto vi sarà sempre un margine di errore, di imperfezione criptopolitica, per dirla con Silvano Panunzio. Le società, pur tra alti e bassi, trovano da sole il proprio equilibrio, per selezione istituzionale. Non esistono società perfette, costruite dall’alto, qualunque sia la fonte della sovranità in senso lato: la tradizione  o la democrazia .

Esistono però società meno imperfette di altre. Il vero problema cognitivo è che lo si capisce solo secoli dopo.  Passeggiando  tra le  rovine...  

Di qui però l’importanza della metapolitica, come scienza dei limiti, delle regolarità e dell’ironia.

Carlo Gambescia

 


giovedì 22 febbraio 2024

Il Ponte sullo Stretto, nostalgia canaglia…

 


Il lettore sia clemente. Il pezzo di oggi è uno sfogo piuttosto che il solito editoriale di analisi. Purtroppo la nostalgia è canaglia. Non aiuta a ragionare.

Chi scrive, diciamo così, è un “ragazzo” degli anni Cinquanta che sente parlare di Ponte sullo Stretto dall’età di sette-otto anni (per non risalire ai progetti dei Borboni e della Destra storica dopo l’Unità…).

Un amico di famiglia, un ingegnere, alto, magro, mani ossute, grande ciuffo di capelli scuri – che adoravo perché mi aveva regalato il gioco del Meccano – ne parlava come di un capolavoro. Qualcosa di meraviglioso. Ogni volta si accendeva come un bambino. Insomma, ci credeva.

Quell’ ingegnere è morto più di vent’anni fa. E visto che era fervente cristiano (quindi credeva nell’Aldilà), di Lassù ora potrebbe finalmente vedere il suo sogno realizzato. Potrebbe. Ma quando? Certo, dinanzi all’eternità, che sono trenta, quarant’anni? O addirittura un altro secolo?

Ricordo che con mio padre, l’ingegnere (che tra l’altro aveva costruito ponti in Africa) parlava politicamente male di Enrico Mattei, da lui conosciuto personalmente. Mattei, in tutt’altre faccende affaccendato, da buon democristiano, sul ponte nicchiava. Ma questa è un’altra storia.

Da allora, anno di grazia 1961, di Ponti sullo Stretto, se ne potevano costruire almeno sei.

Ora sarà finalmente edificato ? Difficile dire. Per Salvini, come a suo tempo per Berlusconi, è una cambiale elettorale da pagare ai costruttori nostrani (che si preparano a recitare la parte del leone). Forza Italia, con in mano il santino del Cavaliere, si accoda. Fratelli d’Italia lascia fare, tanto al momento opportuno “ce ripigliamm’ tutt’ chell è ‘o nuost”.

Per la sinistra invece la costruzione del ponte è un maledetto aiutone alla mafia. E poi, si dice, c’è il rischio sismico che incombe. Il che è vero. Però, per buttarla in metafora da quattro soldi, ognuno di  noi si può ammalare, eccetera, eccetera, e allora che si fa si rinuncia a vivere? Quindi, fuor di metafora, a costruire?

Ecco il basso livello della classe politica italiana: divisa tra dilapidatori  di denaro pubblico (destra) e moralisti antimoderni (sinistra). E attenzione: il "partito" dei giudici, ancora non è partito…

Riusciranno  i nostri  eroi?  Bah…

Carlo Gambescia

mercoledì 21 febbraio 2024

Salvini e l’ora dell’estremismo

 


Salvini è veramente una figura tipo. Da indagine sociologica sui leader di estrema destra. O meglio un “caso di studio”. Per quale ragione? Perché innanzitutto i suoi comportamenti sono prevedibili. Cioè si potrebbe stilare un formulario di domande-riposte sulle sue reazioni politiche.

I tossicodpendenti? In galera. I migranti? A casa loro. L’Unione Europea? Fuori dalle palle. Gli studenti che protestano? A lavorare. Il negoziante dalla pistola facile? Un eroe. E così via.
Siamo davanti a un specie di vocabolario vivente dell’estrema destra. Si noti che usiamo quest’ultimo termine. Perché l’estrema destra è una cosa, il radicalismo di destra un’altra.

L’estrema destra siede in parlamento, il radicalismo di destra rinvia invece ai gruppi extra parlamentari. I primi  fingono di accettare  le regole del gioco, i secondi no. L’estrema destra in qualche misura è legalitaria: vuole introdurre nuove regole, ma puntando sul parlamento (per poi ovviamente snaturarlo); la destra radicale, sogna invece il colpo di forza fuori dal parlamento, guarda alla piazza arrabbiata. Ovviamente non vanno esclusi collegamenti politici nascosti tra estrema destra e radicalismo di destra.

Il che spiega, perché Giorgia Meloni ambisca a ridefinire Fratelli d’Italia un partito conservatore: per prendere le distanze, a parole ovviamente, dagli uni e dagli altri, dalla Lega, come dai gruppi extraparlamentari.

In realtà Fratelli d’Italia assomiglia a un  pentolone di brodo pseudo-conservatore, con dentro tagli di cattivo manzo missino, di allevamento neofascista, in continua ebollizione, perché, mescolando e rimescolando, si tenta di tenere insieme gli scarti,   dall' estrema destra al  radicalismo di destra. Diciamo pure una missione impossibile, perché tra Winston Churchill e Giorgio Almirante corre la stessa differenza tra Franco Battiato e Mario Merola.

Oggi però desideriamo parlare di Salvini. I lettori si saranno accorti che tra gli esempi di reazione citati manca quello relativo la Russia di Putin. Ne parliamo da ultimo. E per una semplice ragione: l’esempio serve a spiegare bene il comportamento tipico del leader di estrema destra. Almeno per quanto riguarda la situazione italiana.

Prima però la dichiarazione di Salvini sulla morte di Navalny. “Bisogna fare chiarezza, ma la fanno i medici, i giudici, non la facciamo noi” (*).

Salvini usa gli strumenti garantisti dello stato di diritto, da estrema destra legalitaria, per difendere un leader e un paese che di regola fanno strame dello stato diritto. Si appella a principi che però egli non evoca quando si tratta di tossicodipendenti, migranti, studenti, eccetera. Un radicale di destra, parlerebbe invece senza mezzi termini di un complotto dell’ Occidente rivolto a mettere in cattiva luce Putin e la Russia. Sotto questo aspetto l’estrema destra, che cavilla sullo stato di diritto, resta più insidiosa sul piano politico del ridicolo complottismo del radicalismo di destra.

Altro caso esemplare: la possibile candidatura di Vannacci all’Europee tra le file della Lega. Salvini, come ogni leader di estrema destra, sogna lo stato di polizia, addirittura militarizzato. Non lo dice apertamente, ma vuole candidare un generale, fin troppo noto per le sue idee reazionarie. Ora, a prescindere al fatto che riesca o meno nella candidatura, Salvini vuole usare la democrazia parlamentare, per far eleggere un nemico della democrazia parlamentare.

Oggettivamente, ripetiamo, un politico come Salvini è più pericoloso per la liberal-democrazia dei finti conservatori alla Mario Merola e dei radicali di destra.

Come disinnescarlo, per così dire? Intanto dovrebbero pensarci gli elettori: non votandolo. Inoltre, si dovrebbe mettere Salvini con le spalle al muro: politicamente, ma se occorre, anche giudizialmente. Costringerlo a uscire dalla sua ambiguità, rivelando il suo vero volto di nemico della democrazia liberale per giunta alleato, quanto meno di fatto, di Mosca. Una nazione nemica dell’Occidente euro-americano, con la quale, piaccia o meno, siamo in guerra. Si chiama anche “alto tradimento”.

Qui però vanno fatte due considerazioni.

La prima, che i voti perduti da Salvini prenderebbero in larga misura la strada dell’estrema destra e in piccola parte quella della finta destra conservatrice. L’elettore di estrema destra o vota o agisce. Di regola, se non vota può passare rapidamente dallo stato letargico all’attivismo sfrenato: è politicamente ciclotimico. Il che non depone a favore del mantenimento- perseguimento della stabilità politica, anche ( o proprio) nel caso dello sfacelo elettorale della Lega.

La seconda, che, comunque sia (quindi a prescindere dalla sua direzione politica), il possibile travaso di consensi bidirezionale tra destra conservatrice alla Mario Merola (per così dire), estrema destra alla Salvini, radicalismo di destra, tipo Forza Nuova, rischia di confermare la polarizzazione della sistema politico. Anche a sinistra.  Infatti parliamo di un fenomeno emulativo già in atto, considerato l’infittirsi di rapporti, anche elettorali, tra Partito democratico e Movimento Cinque Stelle.

E qui andrebbe aperta una riflessione su Giuseppe Conte, un specie di Salvini ma posizionato all’estrema sinistra. Dando per scontata, anche a sinistra, la stessa suddivisione, tra una destra progressista ma non liberale, anch’essa alla Mario Merola, sinistra estrema, per l’appunto rappresentata principalmente da Conte, e radicalismo di sinistra, costituito dalla variegata galassia neocomunista e anarchica con frange gravitanti ai limiti, per usare un termine giornalistico, del “rossobrunismo”: del né destra né sinistra di stampo anarco-fascista. Si pensi al  Sansepolcrismo e alle mitologie della "sinistra" fascista. 

Comunque la si metta, per liberali e moderati i margini di manovra politica sono molto limitati.

Sembra, purtroppo, scoccata l’ora dell’estremismo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/02/20/putin-litalia-sempre-vicina.-scoppia-il-caso-salvini-su-navalny-faranno-chiarezza_1592c44c-9745-4954-91ce-877c1cd40a91.html .