venerdì 29 gennaio 2016

Banca Etruria e dintorni
Giulio  Cesare e Maria Elena...
di Teodoro Klitsche de la Grange




La vicenda di Banca Etruria nella decozione (*)  della quale – oltre a tanti risparmiatori (nel ruolo di vittime) sarebbero implicati il padre e lo zio materno (l’avunculus direbbe un romano), del Ministro Maria Elena Boschi, da luogo a qualche riflessione sul comportamento dei governanti.
I sostenitori della ministra infatti argomentano che la stessa non è implicata perché, codici e costituzione alla mano, la responsabilità penale è personale e quindi la piacente ministra non può essere giudicata – e ancor meno condannata – per condotte, anche illecite, tenuta dai suoi (stretti) parenti.
Tale asserzione, giuridicamente condivisibile è politicamente errata; ed è frutto dello strabismo politico-giudiziario, il cui effetto è di confondere ed oscurare politica e diritto. E si sa, nell’oscurità, come scriveva il filosofo, tutte le vacche sono grigie.
Ma accanto – e al di sopra – di quella giudiziaria c’è una responsabilità – e un ruolo – politico, per cui né una condanna può comportare quella né un’assoluzione escluderla. Anche un assassinio - come tanti avvenuti nella storia – può essere politicamente salutare, come di converso le buone azioni dannose, a giudizio di Machiavelli.
In un’epoca di politicamente corretto e di buonismo prêt-à-porter invece tale distinzione fondamentale è occultata e/o dimenticata, com’è naturale se un popolo non ha – e gli si vuole ottundere – senso (o funzione) politica.
Facciamo, tra i tanti, un paio di esempi relativi a popoli dotati di senso politico.
Berlusconi dimenticò – in parte – il consiglio di Machiavelli che il Principe deve parere (più che essere) buono/pio, e così via.
Invece di curare la propria immagine di buon padre di famiglia, tutto casa e chiesa non nascondeva quella di femminiere incallito, dedito a feste descritte come orge. Risultato ne è stato uno stucchevole processo per fatti privati, che ha tenuto banco sui giornali per qualche anno, finito in una bolla di sapone. Ma il cui difetto fondamentale era che sul piano giudiziario era infondato e, ancor più, era del tutto irrilevante su quello politico.
Di converso circa mezzo secolo fa in Inghilterra si dimise un ministro della guerra, John Profumo (e poi il premier), perché andava a letto con una ragazza di facili costumi. Ma il fatto politico era che la fanciulla si spartiva tra il Ministro e l’addetto navale sovietico a Londra. Che attraverso le lenzuola non passassero anche informazioni molto sensibili?
Il popolo inglese mandò al governo, con le elezioni successive, i laburisti. E non perché il Profumo fosse femminiere ma per la responsabilità politica del governo conservatore e dei servizi segreti, che non avevano né impedito né sorvegliato.
Passiamo alla Roma di Cesare, la seconda moglie del quale aveva un amante assai intraprendente, Clodio. Questi s’infilò, vestito da donna, a casa di Cesare, all’epoca Pontefice Massimo e nella quale quella notte dovevano officiarsi riti celebrati da sole donne. Ma fu scoperto e cacciato a pedate dalla suocera dell’amante (cioè la madre di Cesare). Grande scandalo e gossip a gogò. Al processo che ne seguì, Cesare dichiarò di aver divorziato, pur credendo la moglie innocente, perché “la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto”. E il popolo romano, dotato di gran senso politico, lo ebbe sempre come proprio beniamino.
Per cui la ministra dovrebbe guardarsi da certe difese curialesche, le quali sono evidenti e corrette se si tratta di affari che non hanno rilievo (pubblico e) politico. Ma sono controproducenti ed irrilevanti quando da una parte ci sono dei risparmiatori abbindolati e rovinati e dall’altro dei parenti che (incautamente) prestavano soldi della Banca, anche tra loro. Un atto politico, in questi casi, vale più di una (difficile) condanna.

Teodoro Klitsche de la Grange


(*) Nel linguaggio  giuridico-economico, stato di dissesto o d'insolvenza; fallimento.



Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (  http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).



giovedì 28 gennaio 2016

Renzi, Grillo, Berlusconi: democrazia e polemiche politiche
Molto rumore per nulla





Esiste un limite alla polemiche politiche?  Si pensi  solo alla stampa di destra, berlusconiana o meno, che un giorno sì l’altro pure attacca Renzi, persino sul colore della cravatte. Oppure  agli insulti dei pentastellati contro tutto e tutti.   O infine al tiro al bersaglio  del Tg1 renziano su Grillo.
Un  lettore, un  telespettatore, un cittadino  quale  idea possono farsi della democrazia? Che destra e sinistra, negli insulti, pari sono; che la politica  consiste nell’urlarsi addosso; che, di volta in volta tutto va malissimo o  va benissimo; che vince chi denigra l'avversario nel modo più feroce.  E non è che negli altri paesi democratici le cose stiano andando meglio...
Insomma, la politica ridotta a risse tra caricature umane.  Si può fare qualcosa? E qui bisogna subito prendere atto di  un problema.   La democrazia,  proprio perché discorso pubblico,  si presta, essendo basata sulla forza numero,  alla  semplificazione: bianco e nero, buoni e cattivi, e così via.  L’importante è farsi capire da tutti i cittadini:  più cresce il potenziale numero degli elettori,  più il discorso politico pubblico  si  semplifica. Ecco la regolarità da tenere d’occhio.
Ovviamente,  esiste una corrente di pensiero interna alla democrazia che sostiene la possibilità di educare i cittadini, eccetera. I risultati finora sono stati scarsi. Per contro,  ne esiste un’altra, contraria alla democrazia -  giudicata  un lusso per poche menti elevate -  che vorrebbe limitare a pochi eletti  o cancellare del tutto.
Francamente, basta  leggere un qualsiasi quotidiano, seguire un talk show politico, assistere a una seduta parlamentare, per scoprire l’inconsistenza e l’incoerenza  del dibattito pubblico. Che, sembra consistere nell’individuazione ed elencazione, secondo un crescendo isterico, delle contraddizioni dell’avversario: “Dici questo, fai quello”. Salvo poi una volta agguantato il potere, incorrere negli stessi errori. E così via.
Pertanto, per rispondere al quesito iniziale,  le polemiche politiche, anche le più violente, sono consustanziali al discorso pubblico democratico: non è una problema di forma ( cioè non riguarda l’autocontrollo del linguaggio e dello stile politico) ma di contenuto: la democrazia, come lotta  per la conquista del numero,  implica automaticamente la  semplificazione del messaggio:  più un  messaggio deve  rivolgersi  a tutti,  più  deve colpire l’immaginazione.  Può non piacere, ma è così.
Ovviamente, oltre un certo limite, “molto" o "troppo"  rumore”  può provocare il discredito della democrazia e il suo rigetto.  Già un volta nel  Novecento politico  tutto questo  è avvenuto, con conseguenze catastrofiche.  Come contrastare, per così dire,  l'inquinamento sonoro della democrazia? Come opporsi alla logica del numero?  Se tale logica  è il punto di forza della democrazia? Ma anche, come abbiamo visto, di debolezza?      

Carlo Gambescia                  

mercoledì 27 gennaio 2016

La visita di Rohani in Italia
 L’immaginazione del disastro



Chi ci segue sa benissimo quanto apprezziamo il realismo politico, scelta che soprattutto in politica estera è necessaria.  Però, francamente, tutto questo servilismo verso Rohani, al punto di oscurare i monumenti,   sperando in chissà quali affari,  proprio  quando l' Italia  ricorda la Shoah, ci sembra cosa di pessimo gusto.  E che dire  dell’evocazione di Mattei? Gentiloni ha citato il  portabandiera del peggior avventurismo di sottogoverno,  democristiano: l’uomo dei "partiti-taxi",  che introdusse la corruzione politica nella Prima Repubblica. Mattei,  cercava di fare affari anche con lo Scià? Certo. Ma lo Scià era amico dell'Occidente, anche nei costumi. 
Ma parliamo pure di affari. Si dirà,  pecunia non olet.  Certo, ma l’Iran può essere definito un paese stabile con il quale intrattenere duraturi rapporti economici? Ed eventualmente su quali basi di continuità politica? Chi ci assicura, che una rivoluzione di palazzo, non  tolga di mezzo il “riformista” Rohani?  Oppure per dirla tutta, chi ci assicura che puntare sull’Iran sciita per stabilizzare la regione non sia un errore di   calcolo?  Come quello  commesso negli  anni  Trenta del Novecento? Quando   le democrazie  si  fidarono dei  nazionalsocialisti  per costruire la pace in Europa? Anche Hitler (e Mussolini) dichiaravano di volere la pace... 
In realtà,  l’instabilità in quell’area è iniziata con l’arrivo al potere degli  Ayatollah, lascito avvelenato dell'Islam sciita.  Così cadde  lo Scià di Persia. Dopo di che si scatenò il conflitto con l’ Iraq.  Il seguito lo conosciamo tutti.  All’ epoca era presidente degli Stati Uniti un altro  genio come Obama:  Jimmy Carter, che non alzò un dito per difendere Reza Pahlavi, alleato dell’Occidente.
Ma si sa, come dicono i nonni. acqua passata non macina più. E poi gli affari sono  affari. Certo. Però, il   realismo politico, come nota l' amico Jerónimo Molina,  è  "immaginazione del disastro"(*).  E quale peggior disastro prossimo venturo di  quello rappresentato dalla possibilità di  un attacco atomico contro Israele. E da ciò che si potrebbe scatenare, prima o dopo?   

  Carlo Gambescia

martedì 26 gennaio 2016

Una risposta a Roberto Menardo
Unioni civili e spirito liberale



A proposito delle unione civili, un arguto amico di Facebook, Roberto Menardo, mi ha posto la seguente domanda:

Lo Stato come organizzazione non dovrebbe permettere che la scelta individuale sia permessa ad ogni cittadino alle stesse condizioni? Se desidero sposare la donna che amo (o che mi farà vivere da re perché ricchissima, o che mi stirerà i calzini vita natural durante, non importa il motivo) perché posso farlo e se desidero sposare l'uomo che amo (o che ecc ecc) non posso farlo? Lo Stato dovrebbe essere laico, non pensa?


Domanda, come dire, in coda, credo, all' ottimo articolo di Corrado Ocone (*) da me ripreso.  Ocone rivendica giustamente, in nome di un liberalismo capace di rifiutare, non solo a parole,  ogni confessionalismo, laico o religioso, il diritto di non schierasi nel dibattito  sulle unioni civili: confronto, si far per dire,  che ha assunto  l’aspetto di una nuova  guerra di religione.  Una vera e propria battaglia, senza esclusione di colpi,  che vede da un lato  la  sinistra  schierata  a  difesa  dello stato laico  e del  progresso (o del libertinismo autorizzato, per gli avversari)  e dall’altro,  destra, cattolici (non tutti)  e Chiesa  a guardia  di Dio e della famiglia  (o dell’oscurantismo programmatico, per gli avversari).
Pertanto come rispondere all’amico Menardo?  Che la sua domanda racchiude già la risposta: chiunque non sia favorevole  alle unioni civili non può che essere un  "cattolicaccio"  nemico dello stato laico,  che,  per giunta  - orrore! -  non  crede  nella forza dell’amore.   
In realtà, le cose sono ben più complesse. Lo stato laico  è una conquista  dei moderni, come  risposta  allo stato confessionale. Tradotto:  non importa la tua religione, quel che interessa è  la tua fedeltà allo stato di appartenenza.  In conclusione:  tu sarai tanto più libero quando più obbedirai alla leggi dello stato che sono lì per tutelare la tua libertà, innanzitutto,  da qualsiasi intrusione di tipo religioso.
Pertanto il laicismo, nella versione statuale ovviamente, non è che una filosofia della società e della storia, che si oppone  a un’altra filosofia della storia e della società di tipo religioso.  E qui sarebbe interessante approfondire il confine tra  spirito  laico  e laicismo, difficile però da stabilire, come il limite   tra spirito religioso  e confessionalismo.  Non per nulla il laicismo è una forma di confessionalismo:  una  “confessione di fede” nella marcia inesorabile del progresso, consapevolezza che implica la messa in mora  politica di chiunque ne sia privo. Ovviamente, il discorso vale anche per gli avversari: il confessionalismo, di qualsiasi genere,  rinvia inevitabilmente, come ha ben scritto Ocone,  a una logica non argomentativa ma di schieramento:  logica  strutturalista o magica, per dirla con Boudon,  che  non aiuta a comprendere i problemi.  
Di sicuro, le unioni civili, se approvate,  non determineranno alcuna crisi della famiglia, come profetizzano i cattolici.   Perché  la famiglia monogamica,  così come si è sviluppata negli ultimi due secoli,  è  in crisi da un pezzo e  per ben altre ragioni:  in particolare,  per l’inevitabile assenza di simmetria sociologica sul piano temporale - indotta dall'estrema mobilità sociale, economica e culturale della vita moderna -  tra amore romantico (come fattore sentimentale, transeunte, di breve periodo), matrimonio (come fattore legale, produttivo di conseguenze  economiche di medio periodo) e famiglia  (come fattore educativo, fonte di responsabilità di lungo periodo). Pertanto, cari amici gay, se mi si perdona la caduta di stile,  benvenuti nel mondo del precariato formato famiglia...  
Insomma, qualsivoglia rivendicazione  delle unioni civili come coronamento  dell’amore romantico  -  si pensi allo slogan, "lo stesso amore gli  stessi diritti" -  indica la totale incomprensione dei processi sociologici in atto  negli ultimi due secoli.  Infatti,   per un verso  va registrata  l’ascesa dell’ individuo ( processo in parte benefico)  mentre per l’altro,  nell’inevitabile vuoto sociale determinato dal processi di individualizzazione (fenomeno previsto da Tocqueville), si è rafforzato il  potere di regolamentazione dello stato ( non sempre benefico, anzi…). 
Cosa voglio dire? Che  ogni movimento sociale, come insegna la sociologia,  si trasforma in istituzione ( oppure regredisce a setta: virtuisti di qualunque tipo, attenti a voi..).  Ciò significa piaccia o meno,  che  nelle moderne  società rette dalla forma-stato,  la lotta per i diritti, arma retorica pari ormai solo all'atomica, produce la crescita tendenziale della regolamentazione pubblica.  Sicché,  le unione civili -   accoppiamento poco giudizioso non di persone dello stesso sesso, ma di amore romantico e diritto alla reversibilità delle pensione -    non sono che un ulteriore passo verso quell’individualismo assistito  che  rappresenta l’esatto contrario di una società libera e dello stesso spirito liberale.                    

Carlo Gambescia

lunedì 25 gennaio 2016

Quando si dice il caso... Dopo di noi,  anche "Il Tempo" ha riscoperto  le cattive condizioni  in cui si trova la parte più antica del Verano    
Ladri di merendine?




Quando si dice il caso... "Il Tempo"  ieri ha rilanciato,  addirittura in prima (*),  quanto denunciato, appena una settimana fa nel nostro "Michels ritrovato",  sulle  cattive condizioni in cui si trova la parte più antica del Cimitero Verano (**).  A dire il vero, il quotidiano romano si era già in occupato in agosto della questione, con altro articolista. Però, come diceva Andreotti?  A pensare male...  Non ricordiamo...  Comunque sia, va bene così.  Anche perché al massimo si tratterebbe di un furto di merendine… Manca il corpo del reato. E poi, per citare un avvocato più sfortunato di Paperino, per noi conta, l’utilizzatore finale: il lettore.  Quindi non ci dispiace. In fondo il sole è di tutti, per dirla con Marino Balestrini, il grande Nino Manfredi dell'indimenticabile Straziami ma di baci saziami.  Grazie.
Invece, meno gradita, la compagnia. Diciamo pure che l'abbiamo scampata bella. Ad esempio, ieri, sempre in prima,  quel multiforme ingegno di Chiocci magnificava le candidature a sindaco di Meloni e Storace ( scelte non proprio in sintonia  con il liberalismo di Renato Angiolillo…). Ora,  su Giorgia  Meloni  no comment.   Siamo all’antica, per le signore solo fiori.  Ma Storace…  Sarebbe come nominare -  battuta vecchissima, ammettiamo, ma efficace -   Dracula il vampiro  a Presidente dell’Associazione nazionale donatori di sangue.
Un’ultima cosa, nel servizio sul Verano,  si spara a zero  su  Marino. Giusto. Ma Alemanno? Dove era?  Come ci dicono,  Roberto Michels, grande ammiratore di Mussolini,  per la destra sociale o con panna,  era ed  è un mito.  Per fortuna.   



Carlo Gambescia e Carlo Pompei.

domenica 24 gennaio 2016

Famiglie arcobaleno in piazza
Diritti o diritto? 



L’Arcigay ha parlato di un milione di persone in piazza. Nei resoconti si parla di cento  piazze  con più o meno  duemila persone l'una: il tutto fa duecentomila...  Non è serio, però la politica nelle democrazie  si regge sulla forza del numero,  quindi  si tratta di un peccato veniale…     
Invece i diritti sono una cosa seria,  ma il diritto ancora di più. Cosa vogliamo dire? Che la modernità liberale, e giustamente, ha  indicato nell’espansione  dei diritti individuali la sua meta più importante. Senza però tenere adeguatamente conto - con alcune eminenti  eccezioni -  di una cosa:  gli effetti di ricaduta del diritto come fatto sociologico e quindi organizzativo, all'interno della modernità democratica.  Effetti non proprio piacevoli.  Sicché, come vedremo, anche nel caso delle unioni civili, i conti potrebbero non tornare.  E perché?    
In primo luogo, perché  i diritti, sociologicamente parlando,  dipendono dal diritto, ossia dalla loro trasformazione in leggi, che ne  consentono l’esercizio, ossia in diritto positivo. Il che nelle democrazie rinvia alle maggioranze politiche, che approvano  le leggi  sulle basi di un consenso maggioritario, ma comunque parziale.  Per contro,  quanto meno una legge divide la pubblica opinione, tanto più è  facile  approvarla.  Il che,  tuttavia,  è un’ arma a doppio taglio: perché una legge liberticida -  parliamo in generale -  resta tale anche se approvata dalla totalità dei cittadini. Pertanto il consenso totalitario va temuto ancor più di quello maggioritario.      Però,   come si sente dire: "le cose vanno così", "tutti fanno così", "funziona così",  "in fondo, la democrazia eccetera, eccetera".  E si va avanti.   Si chiama, inerzia politica.
In secondo luogo, dopo le leggi, vengono i regolamenti, che, a loro volta, per l’attuazione dipendono dalle burocrazie,  il cui rendimento economico,  sociale e morale  è scarso o nullo. Quindi ritardi, costi elevati, conflitti,  corruzione, eccetera.  Però, nessuno protesta, perché, come si sente dire, "le cose miglioreranno",  "tanto a me non capita” eccetera, eccetera.  E così si tira avanti.   Si chiama,  inerzia sociale.
Riassumendo, la  nobilissima lotta liberale  per  i diritti, una volta trasformata in diritto a colpi di maggioranze democratiche, rischia di trasformarsi  in  sottomissione ai tempi, ai costi, alle prepotenze delle burocrazie  pubbliche. Poi, figurarsi in Italia, paese statalista...     
Qual è il succo di tutto questo?  Che la risposta è nella libertà negativa. Meno lo stato legifera, più il cittadino è libero.  Il che implica rischi. Certo. Ma quale libertà, vera libertà, ne è priva? Ciò significa - e finalmente veniamo al punto -  che  i manifestanti per le unioni  civili,  puntando sulla libertà positiva e consegnandosi  all'abbraccio tentacolare dello Stato, rischiano di farsi del male da soli.  
E poi, una domanda:  ma la sinistra, alla quale preme tanto la legge  sulle unioni civili, una volta non era per l’amore libero? 


Carlo Gambescia

sabato 23 gennaio 2016

È esistita o  no l’egemonia culturale del Pci?
Una sinistra vedova  di Scola,  ma non del virtuismo  giacobino...



Nell’articolo scritto su Scola abbiamo parlato di “egemonia culturale” del Pci (*).   Insomma, c’è stata? Non c’è stata? La risposta, per chi abbia tempo e pazienza,  è  in due libri di Nello Ajello dedicati al rapporto tra intellettuali e partito comunista (**). Si tratta ovviamente di leggere tra le righe (altrimenti avremmo subito rinviato alle analisi di Del Noce, Melograni, Galli della Loggia: ma non ci piace vincere facile).  
Secondo Ajello, pur tra contraddizioni e ripensamenti,  la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani  scorgeva nel Pci l’unica forza politica laica e illuminata  in grado di opporsi  all’ oscurantismo della  Democrazia cristiana, sul piano politico e culturale: oscurantismo,  madre e padre per così dire,  di tutti i mali  e compromessi italiani, dal liberalismo moderato di Cavour e Giolitti al fascismo di Mussolini. Un passato, di cui vergognarsi, da cancellare.  Di qui, la forte componente antifascista e antiliberale (nel senso  del liberalismo prefascista).  
Sicché il fatto che  democristiani  e liberali  avessero  mille sfaccettature  politiche era cosa che non poteva riguardare un giacobinismo culturale dalla ghigliottina facile, sempre in cerca di  capri espiatori. Pronto però a stendere (con qualche eccezione e contrasto, ovviamente)  un velo pietoso sulla sudditanza da Mosca, sul centralismo anti-democratico, sull’opportunismo politico del Pci.  E, poi, si pensava,  gli americani non finanziano anche la Dc? Quindi.  
Diciamo che - semplificando -  il fascino intellettuale del Pci discendeva dal suo virtuismo giacobino che sapientemente gestiva, distillava e di cui si riteneva amministratore unico. Alla base dell’egemonia culturale del Pci, c’è l’ atto di fede  in quel  Partito della Cultura che rimpiangeva, per l’Italia, la mancata riforma protestante e  la perduta rivoluzione giacobina.  
Tirando le fila,  se  si sottovaluta  - parliamo sempre del lato concettuale -   il sostrato religioso laicista-autoritario ( frutto avvelenato di una certa interpretazione della modernità) che ha motivato l’adesione degli intellettuali di sinistra  al Pci,  non si comprendono le ragioni della sua egemonia culturale sulla cultura italiana.  Per sposarsi, se ci si passa la metafora (bruttina) si deve essere in due: da un lato c'era  il Pci, con la sua struttura politica importante, dall’altro l’intellettuale orfano e nostalgico della rivoluzione protestante e giacobina (politicamente intese). E fu subito amore,  poi nozze.  Certo,  esistevano anche gli interessi concreti (case editrici, incarichi, visibilità eccetera),  che però andavano a saldarsi con la pseudo-fede religiosa nell’Italia giacobina, come dire,  con una predisposizione intellettuale all’atto (rivoluzionario, almeno a parole).  Naturalmente, il discorso sulle motivazioni economiche andrebbe approfondito a livello storico-statistico (quanti editori, quanti intellettuali, quanti incarichi accademici, quali libri, eccetera).
Però qui interessa la questione concettuale. Ecco perché  nell’articolo su Scola,   parliamo dell’assenza di anticorpi liberali,  nel senso  di una cultura del “giusto mezzo”, priva di eccessi,  a destra come a sinistra.   Lontana da ogni forma di estremismo culturale ( e politico). Tradotto: Vincenzo Cuoco e Benedetto Croce contro Gobetti e Gramsci.  E qui il liberalismo moderato, dovrebbe fare mea culpa (ma questa è un’altra storia, almeno per oggi).  E sul punto specifico  anche il libri di Ajello sono utili.  
Il furore dottrinario,  giacobino-religioso - sempre sul piano concettuale  -  una volta scomparso il Pci è  trasmigrato nel giustizialismo penale,  nell’  antiberlusconismo,  in qualche misura nel puritanesimo pentastellato, nonché  in quel giuridicismo motorizzato alla Rodotà,  ben colto ieri  da Ocone (***). Ma che abbraccia - attenzione - anche i  tifosi di Papa Francesco (si pensi ai "laiconi" di "Repubblica"), elevato a  grande riformatore democratico  della Chiesa…
Quindi non è finita. Parliamo di un virtuismo che continua a governare la cultura  attraverso l’egemonia del politicamente corretto, così caro alla sinistra post-comunista, la stessa, e concludiamo, che parla  per bocca  delle vedove ideologiche di Scola.

Carlo Gambescia


(*)   http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/01/la-scomparsa-di-ettore-scola-non.html

(**) Nello Ajello, Intellettuali e Pci (1944-1958), Editori  Laterza 1979; Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991, Editori Laterza 1997.  


(***)  http://formiche.net/2016/01/22/le-unioni-civili-e-la-giuridicizzazione-della-vita-morale/

venerdì 22 gennaio 2016

Draghi, “possibili  nuovi interventi di Eurotower a marzo”
Non ci resta che pregare…





Fino alla crisi economica del 1929 il denaro era considerato un bene come un altro,  era il  mercato a fissarne il prezzo,  nel senso che l’andamento dei tassi doveva  seguire non precedere i desiderata del mercato, né tantomeno il governo poteva  intervenire nella vita della banche.  Poco denaro, e solo ai meritevoli.  E le interferenze politiche, che pure esistevano,  erano  giudicate  come  la classica eccezione che confermava il principio del laissez faire, che aveva trionfato, e giustamente, nel XIX secolo.    
Questo sistema, teoricamente perfetto,  aveva  però un inconveniente: i tempi di riaggiustamento potevano essere lunghi e le conseguenze sociali  ingestibili.  Di qui, la “rivelazione” keynesiana della natura non neutrale del denaro e  la conseguente importanza attribuita al credito a buon mercato come fattore di crescita economica e, cosa più importante, di stabilità sociale. Tanto denaro, (quasi) a tutti. Che poi, il troppo denaro iniettato nel sistema,  fosse fonte di corruzione, inflazione, e speculazione, era visto come un prezzo da pagare alla stabilità sociale.   Inconveniente, anche questo (soprattutto quello del denaro facile),  che ha condotto alla crisi della fine anni Duemila.
Ora, quando Draghi ribadisce come ieri  che "non ci sono limiti" all'azione della Bce entro il suo mandato, ragiona  da banchiere keynesiano. 
Chi ha ragione? Chi ha torto?  Saranno i fatti a dirlo, che non sono né liberisti né keynesiani.  L'unica cosa certa è che il paziente-economia non gode di buona salute. E, comunque sia,  se la  Banca  Centrale facesse un passo indietro, le banche indebitate  potrebbero fallire, con tutte le conseguenze economiche e  sociali del caso, insomma, il paziente potrebbe morire.  Ma anche il continuare a pompare denaro nel sistema bancario significa  spostare il traguardo dell’uscita dalla crisi sempre più avanti,  rischiando di cronicizzare malattia e paziente.   
I difensori della tesi del passo indietro  - non molto ascoltati sul piano politico -  sostengono che il mercato, una volta eliminate le imprese in perdita,  troverà un nuovo  punto di equilibrio, tornando a crescere eccetera, eccetera.  Sì, ma quando? 
I sostenitori delle iniezioni a gogò -  molto ascoltati sul piano politico -   ritengono invece, che si debba mettere in sicurezza il sistema, favorire l'inflazione e  attendere fino a quando  il cavallo dell’economia non tornerà a bere. Sì,  ma quando?
Come si può  intuire, la scienza economica, per alcuni triste, non fornisce risposte sicure, ma, per dirla tutta, impone  atti di fede.  Perciò, non ci resta che pregare…                        


Carlo Gambescia

giovedì 21 gennaio 2016

Ecco un grande regista, altro che Scola...
Centochiodi di Ermanno Olmi



Ieri si è discusso  di Ettore Scola, oggi invece si parla di Ermanno Olmi.  E c’è un motivo:  abbiamo molto apprezzato  un suo film, Centochiodi,  ripescato  su Tv2000  qualche sera fa.  A dire il vero, non ne condividiamo, come dire, il messaggio. Però rispetto a Scola  siamo su un altro piano. E spieghiamo perché.    
Prima la trama. Un docente di filosofia della religione, abbandona improvvisamente la sua Alma Mater,  università cattolica, bolognese (forse), dotata di una magnifica biblioteca,  per andare a vivere in povertà sulle rive del Po. Dove viene subito cooptato in una piccola comunità, che egli affascina, ammaestra, aiuta.  Ma scompare di nuovo, questa volta, come Pinocchio, tra due carabinieri...  E per sempre. Cosa  c'è sotto? I cento  antichi incunaboli , dai lui nottetempo inchiodati, l’uno dopo l’altro, con furore distruttivo crescente…  Per poi darsi alla fuga. Il che spiega,  chiudendo il cerchio, il sopravvenire della Benemerita.
Abbiamo semplificato, forse troppo e irrispettosamente, un ricco  tessuto  narrativo   che   lascia il segno sotto l'aspetto visivo,  grazie all'eccellente fotografia.  Un film  filosofico ( senza la pretesa di esserlo) che avvince, recitato nella affricata  koinè della Bassa,  da attori non professionisti, a parte Raz Degan, il professore:  perfetto, anche fisicamente (rispetto all'iconografia tradizionale),  nell'interpretare un personaggio complesso, dallo sguardo  che taglia e benedice,  più vicino al Gesù apocrifo che sinottico.
Al centro del discorso concettuale di  Olmi c’è il  famoso  contrasto  tra natura e cultura. Nulla di nuovo  neppure per il regista,  dal momento che si tratta della  cifra  cognitiva che  contraddistingue la sua opera cinematografica, fin dagli inizi come documentarista.  Parliamo del  conflitto tra una  vita reale che si confonde con la  natura e  una  vita  artificiale, contro-natura (molto vicina, così pare, alla zivilisation spengleriana).  Il dilemma -  che  il professore risolve  scegliendo il Po -   è tra la verità delle cose che si scopre vivendo, e la verità sulle cose, che l'uomo crede di perseguire, leggendo o studiando.  Di qui, la rivolta contro il libri  e  la cruda  crocifissione  nelle prime battute del film,  cui segue il viaggio, per così dire,  al centro della terra. Che poi è un viaggio al centro di  noi stessi.
Il tutto narrato con una semplicità e una sincerità sconvolgenti, lontane anni luce dal  dottrinarismo sociologista, a sfondo marxista,  di Scola, sempre in cattedra. Naturalmente, chi scrive, come detto, non condivide le tesi di Olmi. A voler essere rigorosi, tra la crocifissione degli incunaboli e i roghi nazionalsocialisti c’è una differenza di  grado, non di specie.   Però, la capacità narrativa di Olmi, la sua bravura nello spiegare poeticamente per immagini, quindi per atmosfere, lascia senza fiato (  il suo, in fondo, è un cinema puro,  autosufficiente,  perché  non  necessita di grandi attori).  Senza trascurare,  la capacità maieutica di favorire la riflessione,  a prescindere. Un grande regista, veramente.  Altro che Scola.  
Carlo Gambescia  
                                         

mercoledì 20 gennaio 2016

La scomparsa di Ettore Scola
Non c’eravamo tanto amati

Ettore Scola (il primo a sinistra),  Antonioni, Fellini, Rosi,  Maselli alla veglia funebre in onore di  Enrico Berlinguer

Appena i media hanno dato la notizia della morte di Ettore Scola è subito partita la compagnia di giro dell' "è scomparso  uno dei protagonisti del cinema italiano, della cultura italiana, e via  col vento" ( film che l’antiamericano  Scola odiava, si veda, tra gli altri, Permette? Rocco Papaleo).
Ma quale cultura? Ma quale cinema? Tutto il discorso concettuale di Scola si svolge all’interno della cultura comunista, quella più istituzionale e trinariciuta. A parte la produzione documentaristica, che lo è scopertamente,  film, rivolti al largo  pubblico,  come  C’eravamo tanto amati (sul mito dei comunisti come unici interpreti della Resistenza),  Una giornata particolare (sul fascismo ridotto a macchietta maschilista),  La Terrazza ( sul pericoloso imborghesimento dell'intellettuale post-togliattiano), La Famiglia (sui tormenti di coppia del professore falce-e-martello) descrivono l'Italia immaginaria dei comunisti   e delle loro   polemiche sotterranee, giudicate da Scola  con criteri etici da Comitato Centrale. Per capirne la faziosità, si  pensi solo ai personaggi negativi dei suoi film,  sempre ridotti a caricature, degne dei rozzi  corsivi di Fortebraccio :  il costruttore paternalista, corrotto e  corruttore  di C’eravamo tanti amati; il marito fascista, rozzo e imbecille al punto giusto di Una giornata particolare eccetera, eccetera.  E per questo settarismo non abbiamo mai amato Scola.  
Il vero punto, allora, diventa capire perché  un cinema fazioso, come il suo,  si sia imposto e soprattutto perché lo si debba tuttora  considerare,  in modo servile,  patrimonio collettivo. Di chi? Dei comunisti e dei loro nipotini, culturali,  quelli della "meglio gioventù"...  Probabilmente, per le stesse ragioni perché  non è mai esistito nell’Italia nel dopoguerra  un cinema alla Frank Capra. Mancanza di anticorpi liberali.
Carlo Gambescia        

                 

martedì 19 gennaio 2016

Il  titolo imbecille del “manifesto”
Gli egualitaristi. 
quattro gatti, presi a sberle dai fatti



Per fortuna sono quattro gatti, presi a sberle di fatti.  Di chi parliamo?  Degli egualitaristi, of course. I nipotini di Babeuf,  fanatici  non dell’eguaglianza formale, ma di quella sostanziale. Che è tutt'altra cosa. 
Sono pochi, dicevamo, però... Purtroppo c’è sempre un però.  Si guardi ad esempio il titolo imbecille del “manifesto” di oggi. Che la ricchezza sia  nelle mani di  pochi è una costante storica e sociale, che riflette differenze di intelligenza e  di capacità. Certo, anche  le posizioni di partenza incidono. Chi è ricco tende a diventare sempre più ricco, salvo non abbia  le qualità giuste, talvolta il sangue non basta:  a quel punto  i patrimoni passano di mano, le carte si rimescolano, eccetera, eccetera.  Si osservi  il flusso storico della ricchezza dai Romani a oggi.   Ogni tanto, vi s’infila qualcuno, proveniente dalle classi inferiori, ma il numero dei veri ricchi, in cima non può non restare ridottissimo: dai cavalieri romani ai finanzieri di Wall Street. Dipende dalla natura umana,  non dipende dal capitalismo. Anzi, negli ultimi tre  secoli, proprio grazie all’economia di mercato - che per ricaduta ha prodotto il  welfare (per alcuni  anche troppo...) -   si è potuto redistribuire di più, sicché  la piramide si è trasformata in fiasco dalla pancia molto grossa: il ceto medio dei moderni. Il nerbo dell’attuale sistema economico e sociale. E secondo Aristotele di ogni saggio regime politico.   Un ceto -   quando si dice il caso - di cui gli egualitaristi  teorizzano  lo sfaldamento,  pronti a sottolineare  ogni  minimo segnale di cedimento,  fedeli alla difettosa lezione di Marx su proletarizzazione e caduta del saggio di profitto. Inciso: da quarant’anni tento di studiare sociologia e  da quarant’anni sento blaterare di dissoluzione del ceto medio, l’ultimo è Piketty, grande romantico politico (si capisce dal primo capitolo del suo libro),  già  smentito dagli economisti seri.
Sul passaggio dalla piramide al fiasco, esistono montagne di studi: inutile annoiare i lettori ( ma consiglieremmo di partire da Pareto). Il rischio vero,  però,  resta  quello  di tornare indietro: alla piramide. In che modo?  Cedendo al pessimismo. Ideologico, attenzione. Ossia, dando retta alle prefiche  egualitariste che  predicano la  distruzione del fiasco, magari ad opera  dello stesso capitalismo, che, come si sostiene, mentendo,  creerebbe, per un verso  sempre più poveri, per l’altro sempre più ricchi.   In realtà, come abbiamo detto accade l’esatto contrario: i ricchi, come numero, più o meno sono sempre quelli, mentre il  ceto medio  è cresciuto.
I ricchi sono più ricchi di un tempo?  Cosa difficile da dire e soprattutto provare. Ma, ammesso e non concesso che sia così, si dovrebbe guardare piuttosto che alle distanze di reddito allo stile e al tenore di vita di chi un tempo era sotto nella scala della ricchezza:  stile e tenore,  che non può essere assolutamente paragonato  a quello di  due o tre secoli fa.  Chi oggi parla di “macelleria sociale” e altre amenità, dovrebbe rileggere il saggio di Engels, anno di grazia 1845, sulla classe operaia inglese: quanta strada si è fatta da allora. Per contro, in Russia, dove i comunisti  sono  riusciti a distruggere la borghesia, oggi la distribuzione delle ricchezza è  tornata  di tipo piramidale. Niente fiasco.  Ma dopo il comunismo, non dopo il capitalismo.
Dietro l’egualitarismo c’è la vecchia ideologia comunista con il suo odio sociale, duro a morire, contro la “razza borghese"  ben descritto nei libri di Nolte”. E infatti, sopra la testata del "manifesto”, cosa c’è scritto? Quotidiano comunista.
Carlo Gambescia

lunedì 18 gennaio 2016

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2016, lunedì 18 gennaio, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 765/2, autorizzazione COPASIR 8932/3a [Operazione NATO “ASCOLTO FRATERNO” N.d.V.] è stata registrata, in data 17/01/2016, ore 11.32, una conversazione intercorsa S.E. FINZI MATTIA, Presidente del Consiglio dei Ministri, e BERNASCONI SILVANO, ex Presidente del Consiglio. La conversazione si è svolta all’esterno di capanno sito sull’isola di Montecristo (Mar Tirreno), ed è stata registrata a mezzo microfono direzionale posizionato sul peschereccio “Bella Gina”. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]

S.E. FINZI MATTIA: “Ci ho un freddo nelle ossa…”
BERNASCONI SILVANO: “Eh, tira una bella brezza.”
S.E. FINZI MATTIA: “No la brezza, Silvano. La storia con l’Europa.”
BERNASCONI SILVANO: “Tunker?”
S.E. FINZI MATTIA: “No, hai sentito cosa mi dice quello? Che ‘vilipendo continuamente la Commissione’? ”
BERNASCONI SILVANO. “Però ha anche detto che ti ama molto.”
S.E. FINZI MATTIA: “Per l’amordiddio! Quello ama solo la bottiglia.”
BERNASCONI SILVANO: “E i soldi. Sai che Tremonti è un tributarista, no? Mi ha raccontato certe storielle, su Tunker e il Lussemburgo…”
S.E. FINZI MATTIA: “Secondo te come va a finire?”
BERNASCONI SILVANO: “Vuoi sapere se ti fanno fare la mia stessa fine? A casa e poi la Troika?”
S.E. FINZI MATTIA [pausa] : “Be’, sì.”
BERNASCONI SILVANO: “No. Io ero solo, tu no.”
S.E. FINZI MATTIA: “Come solo, Silvano? Avevi un partito grande come il mio, una maggioranza più stabile…”
BERNASCONI SILVANO: “Non c’entra niente. Cosa vuoi che contino i parlamentari, quelli lo sanno bene chi è il più forte, e tra me e l’Europa non c’era partita.”
S.E. FINZI MATTIA: “Allora, scusa ma non capisco.”
BERNASCONI SILVANO: “Io sono stato un coglione, Mattia. Credevo di essere forte perché avevo il partito, la maggioranza, e tanti soldi. Invece ero solo. Tu hai il partito, la maggioranza…”
S.E. FINZI MATTIA: “…i soldi non ce li ho.”
BERNASCONI SILVANO: “Sì che ce li hai, e tanti più di me. Ancora meglio: non sono soldi tuoi, Mattia. “
S.E. FINZI MATTIA: “Cioè?”
BERNASCONI SILVANO: “Le grandi banche italiane, Mattia. Concordia Sanremo, Unirisparmio…Secondo te perché il ‘Corriere del Mattino’ ti sostiene contro Tunker? Perché hanno capito che stavolta, la campana suona per loro.”
S.E. FINZI MATTIA: “Il bail-in.”
BERNASCONI SILVANO: “Il bail-in, bravo. Dal primo gennaio, se c’è una crisi bancaria pagano gli azionisti, e lo Stato non può ripianare i debiti. In Germania sì, qua da noi no. Sono pieni di sofferenze, lo sai anche tu, con la crisi che c’è in giro… E di chi è il ‘Corriere del Mattino’ ?”
S.E. FINZI MATTIA: “Delle grandi banche italiane.”
BERNASCONI SILVANO: “Ecco. Quindi vai tranquillo.”
S.E. FINZI MATTIA: “Grazie, Silvano. Hai un’esperienza, tu, che andrebbe usata meglio. Purtroppo, sai com’è…”
BERNASCONI SILVANO: “So, so. Non ti preoccupare, ho già dato.”
S.E. FINZI MATTIA: “Insomma, tu mi dici di stare sereno.”
BERNASCONI SILVANO: “Sì. [pausa] Be’, proprio sereno…”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler


(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...




sabato 16 gennaio 2016

Gli  Indiana Jones delle  scienze sociali, ovvero  alla ricerca del sepolcro perduto…
Il Michels ritrovato
di Carlo Gambescia e Carlo Pompei



Anche le scienze sociali hanno una componente archeologica, non proprio all’Indiana Jones, ma quasi.  Detta così, la frase risulta incomprensibile. Dobbiamo perciò cominciare dall’antefatto.
È noto agli studiosi - o almeno dovrebbe -  che Roberto Michels, grandissimo scienziato politico,   morto nel 1936 all’età di sessant’anni,  è sepolto al Cimitero  del Verano  di  Roma. Ma dove esattamente? A una nostra “formale richiesta a mezzo e-mail agli uffici preposti”, come si dice in burocratese,  " i suddetti uffici"  rispondono, piuttosto rapidamente e gentilmente indicando un “riquadro”: l’area di sepoltura,  delimitata da siepi, alberi, manufatti, che in genere accomuna, per data o periodo,  le tombe.   È fatta,  sappiamo dove cercare.  Perfetto:  cosa rapida e indolore. Non è vero, pensiamo soddisfatti,  che in Italia eccetera, eccetera...
Di mattina presto, muniti di piantina, magari non proprio abbigliati come Indiana Jones ma con lo stesso spirito, penetriamo  - è il verbo giusto -   nella nostra ideale Valle dei Templi…  Inciso,  il Verano e così antico e suggestivo da meritare una visita, a prescindere.
Arriviamo al  riquadro indicato. Piuttosto ampio.  Un rapido sguardo alle date indicate sulle tombe, prato all’inglese (diciamo, "tentativo" di...),  con qualche bel manufatto, ma  quasi tutte in cattive, se non pessime condizioni, un rapido sguardo dicevamo,  conferma che il periodo è quello: gli anni Trenta.   
Tomba Malatesta - Verano Roma - Foto Carlo Pompei copyright
Errico Malatesta  (foto di Carlo Pompei ©)

Qui c’è Malatesta (l’anarchico), lì Buonaiuti, (il  prete modernista in rotta con la Chiesa), poi  giudici, prefetti (non si sa mai), cavalieri, uno schermitore (bellissima la statua funeraria), qualche bel bambino. Appena fuori, discosto, a un crocicchio, Ugo Spirito. Ma il Nostro non c’è… Andiamo su e giù almeno tre volte, il “riquadro” non grande ma neppure piccolo. Niente.  Contrordine: tirare fuori la  piantina… 
E subito le cose  si complicano . Perché, ci accorgiamo che di riquadri con quel numero  ce ne sono altri tre… Due nella parte, alta, nobile, antica, uno in quella ebraica. Che fare? Ci guardiamo, anzi scrutiamo: siamo in condizioni pietose,  le zanzare, numerosissime e assatanate ci hanno letteralmente vampirizzato, quasi ai limiti del colpo di grazia anafilattico. Decidiamo di continuare la ricerca. Altrimenti, che Indiana Jones saremmo?
Tomba Buonaiuti - Verano Roma - Foto Carlo Pompe copyrighti
Ernesto Buonaiuti (foto di Carlo Pompei ©)

Si sale: gli spazi si  fanno più ridotti, la nostra automobile, arranca per vialetti, viottoli, circondata, peggio assediata, da  pini altissimi e cipressi smisurati (a Roma “alberi pizzuti”; da qui: “andare agli “alberi pizzuti”, ossia morire), la temperatura, anche se di settembre, sale  e non perdona.  Per quattro volte, sudatissimi, e sotto i colpi di una Dresda di zanzare,  ripercorriamo su è giù i due “riquadri nobili”,  perlustrando  tombe, ormai allo stato di rudere, ricoperte di foglie e rampicanti,  veri e propri polverosi cespugli di tufo,  dai nomi illeggibili.  Niente. Il Nostro  sembra svanito nel nulla…
Ultima tappa, la parte ebraica. Non si sa mai.  E qui, misteriosamente, pur non trovando nulla, ci sentiamo come in comunione  con i nostri Fratelli Maggiori. Pace, di dentro. All’improvviso, sotto  la Stella, lo sguardo cade sulla foto di un bambino in uniforme Balilla, scomparso nel 1932: le infami leggi  razziali erano ancora di là da venire.
Comunque, niente. La grigia e malinconica cappa della spedizione “archeologica”  fallita inizia a  scendere su di noi… All’improvviso,  si decide -  forse potevamo farlo prima – “di porre la questione  agli uffici preposti”, per dirla di nuovo in burocratese. Prima però, chiediamo qualche informazione, a un gruppo di “seppellitori” -  così definiti da un giardiniere in canottiera spuntato all’improvviso da dietro un albero (“Chiedete ai ‘seppellitori’, sanno tutto”) -   incontrati lungo la strada: fumano e parlottano tra di loro.   E tra  una tirata e l’altra (quanto tempo è trascorso dai monatti manzoniani…),  ci indirizzano all'Archivio, con  autorevolezza degna di  Ponzio Pilato. 
Verano Roma - tomba Spirito - Foto Carlo Pompei Copyright
Ugo Spirito (foto  di Carlo Pompei ©)

Qui, appare il nostro Angelo Custode. Un  “responsabile”, come si dice, garbato, attento, fiero del suo lavoro. Un vero  burocrate di  razza (sarebbe piaciuto a Weber). Si immerge subito nell’archivio, non  quello elettronico:  tra giganteschi tomi, incartapecoriti e minacciosi. Riemerge, una boccata d’aria, e di nuovo  sotto. Alla terza immersione il mistero è risolto: “Sì, Roberto Michels, eccolo qui”, indicando, sulla pagina ingiallita di un librone alla Harry Potter: colpisce la bella grafia d’epoca,  stile di cui si sono perse le tracce. “Sì,  morto il due maggio 1936, ma da noi è giunto il 5, come potete vedere”. Sgraniamo gli occhi davanti al miracolo. “Dove è sepolto?”.  “Dunque, sepoltura speciale: per quasi  un anno è rimasto in un loculo, per poi essere trasferito nella erigenda tomba di famiglia. Ecco è qui i dati precisi, anche delle proprietà confinanti…”.  Sorpresa! Si tratta di   uno dei riquadri da noi attentamente esplorati, così almeno credevamo… Come possibile? Colpa nostra: non siamo laureati in archeologia.
Abbracciamo ( o quasi) il nostro caro Angelo… E torniamo sui nostri passi. 
Eccoci di nuovo: parte nobile del Verano, abbastanza antica,  riquadro piuttosto piccolo. Già visitato. Ora però abbiamo  alcune informazioni più precise sulle tombe  accanto a quella del Nostro. 
Verano Roma - Tomba Michels  - Foto Carlo pompei copyright
Roberto Michels (foto di  Carlo Pompei ©)
Sudatissimi (e con l’emocromo  massacrato dalle zanzare) ci aggiriamo, come zombi tra  stele  funerarie aggredite dall'umidità,  cappelle in rovina, anch’esse sul punto di tirare l’ultimo respiro, palme polverose  e piegate dal vento e dal tempo, cartelli con indicazioni di pericolo: ovunque si stende e protende  una  gelatinosa trama di rampicanti e fogliame verdastro da Capitano Nemo.  Niente. La nostra ricerca sta diventando un'impresa disperata.  All’improvviso,  appare una tomba, dal nome inciso quasi illeggibile, uno di  quelli riportati nel librone di Harry Potter,  che dovrebbe confinare  con il  sepolcro del Nostro.   Ma dove?  Ci guardiamo intorno.  Vediamo solo un cespuglio. Sotto non può esserci una tomba… E invece sì. Scostiamo le foglie. E subito si legge“ Figlio di Colonia”. È lui. Roberto Michels.
Che emozione! Da archeologi. Delle scienze sociali.

Carlo Gambescia e Carlo Pompei               
                 


venerdì 15 gennaio 2016

Le polemiche su  Quarto/ E se alle prossime politiche lo spareggio fosse tra  Renzi e Grillo?
Che disgrazia essere 
di destra (e liberali). In Italia




Lo scontro al calor bianco  tra   Pd e M5s  sul sindaco di  Quarto,   non è che un anticipo di ciò che avverrà alle politiche nel caso, molto probabile, di spareggio tra i due partiti. Dal momento che  una cosa deve  essere chiara: la destra  è totalmente fuori gioco,  perché frammentata,  priva di idee e uomini credibili, ridotta  a inseguire Renzi con un occhio a Grillo.  Pietoso.
Perciò,  i moderati e liberal-conservatori che hanno il cuore  a  destra, saranno costretti  ad astenersi  o a votare Renzi.  Salvo, certo elettorato neo-fascista, non grande cosa comunque,  che, di sicuro, si dividerà  tra i micro-cloni di Alba Dorata e le truppe pentastellate. E che, in caso di spareggio,  potrebbe convergere su Grillo e farlo vincere ( logica dello "scemo + scemo").
Del resto, si tratta di una disgrazia politica toccata all’elettorato moderato e liberal-conservatore,  costretto in assenza di meglio a votare in modo innaturale fin dalle origini della Prima Repubblica. Si pensi  solo a Montanelli, persona  intelligentissima, che tuttavia, secondando questo disgraziato trend,  negli anni Settanta del secolo scorso,  consigliava pubblicamente  di turarsi il naso e votare la magmatica Democrazia Cristiana, come barriera contro il comunismo, che, in effetti,  allora era un pericolo reale.  Insomma, semplificando, pensiamo  al  famoso  richiamo della foresta, quello comunicativo  del salto nel buio, che risale alle elezioni del 1948. Un appello forte,  dai contenuti mitologici e reali (purtroppo, il mondo era diviso in due), che però ha continuato a funzionare, elettoralmente, anche con Berlusconi, sempre pronto ad agitare, dinanzi al toro elettorale moderato e liberal-conservatore, lo straccio rosso di un comunismo, ormai però, politicamente, immaginario. 
Purtroppo, il richiamo della foresta, contro la forza antisistemica di turno, potrebbe funzionare, anche con Renzi, facendo vincere, nel  caso dello spareggio con  Grillo,  non  la destra, ma, in chiave putativa, un partito con radici di sinistra, il Pd,  che,  ovviamente, di liberal-conservatore non ha nulla.  Che sia preferibile, allora, astenendosi,  far vincere Grillo? Forse. Anche perché, come accaduto con  Berlusconi, la prova di governo è una specie di giudizio di dio. E anche Grillo, potrebbe fallire.
Certo,  però dovremmo  aspettare altri venti anni.            

Carlo Gambescia     


giovedì 14 gennaio 2016

La miniserie di Negrin e l’ Argentina di Videla
Tango per la libertà?
No, per la società civile



Alberto Negrin è un regista intelligente, che sa fare il suo mestiere, però in Tango per la libertà, fiction  comunque coinvolgente e ben recitata, lo schematismo sembra  prevalere sull’analisi.  Sotto questo aspetto, evidentemente,  non  ha giovato alla miniserie televisiva l’essere tratta dal toccante libro del console italiano Enrico Calamai (Niente asilo politico, che consigliamo di leggere). Un uomo coraggioso e intraprendente, mai dimenticarlo. Che ha impedito, nonostante la "melina" delle autorità diplomatiche italiane, che circa trecento argentini di origine italiana (uomini, donne, bambini) andassero ad allungare la  triste lista dei desaparecidos.  Perciò, una volta scelta la pista narrativa offerta da Calamai,  la fiction  non poteva non essere focalizzata sui lati drammatici e personali.    
Però, forse,  si poteva fare qualcosa di più. La società argentina, con le sue contraddizioni e vuoti sociali, resta troppo sullo sfondo, l'immagine è sfocata. Evidentemente, il pur nobilissimo modello Perlasca (Negrin, tra l’altro ha diretto anche una miniserie sullo Schindler italiano), sul piano dell’analisi, se  si vuole della comprensione sociologica dei fatti, non funziona, ossia, avvince, commuove ma non spiega.  E per quale ragione? Perché trasforma, regolarmente, i cattivi di turno in più o meno perfette incarnazioni del  male assoluto: un male che non avrebbe spiegazioni se non nelle profondità  abissali della cattiveria e follia umana. E la demonizzazione e la banalizzazione del male (Arendt docet) non spiegano un bel  nulla.
Ovviamente, il  volo della morte per eliminare i dissidenti politici - torniamo ai generali argentini -  non è  atto patriottico.  È  cosa terribile, come  imprigionare, per giunta ingiustamente,  e peggio ancora,  torturare le persone.  Però, la critica, anche durissima del "prodotto finale" - il golpe militare in Argentina -  doveva e  dovrebbe essere occasione per indagare o  comunque  per fornire ai telespettatori  qualche spunto di riflessione, su una questione, sociologicamente, “basica”. Quale?  Che nelle società moderne,  in particolare quelle in via di sviluppo,   il predominio dei militari bilancia la debolezza  della società e dei poteri civili. L’Argentina di Videla, non era altro che il sottoprodotto della dittatura peronista e della cultura politica autarchica e populista che aveva impedito, grosso modo, nella seconda metà del Novecento, il rafforzamento  della società civile. Pensiamo a un irrobustimento in grado di veicolare tra  il ceto medio, ancora in formazione, valori liberali. E quindi capace di  fare da lievito alla crescita politica, sociale, economica.  Perciò, il grande desaparecido della società argentina   è  il  borghese moderno.  Insomma,  c’era un vuoto di potere sociale, colmato dai militari, ovviamente a modo loro…  
Il che non significa assolutamente assolvere i generali, ma più semplicemente, evitare fughe nell’emotività e fornire un inquadramento sociologico del sincero  dramma dei desaparecidos, che altrimenti rischia di  risultare incomprensibile  nelle sue radici storiche e sociologiche, se non come frutto avvelenato delle scellerate azioni  commesse da  una banda di criminali (il che non significa, che i generali non lo fossero, “anche”).
Concludendo,  tango per la libertà? No, per la società civile.

Carlo Gambescia