giovedì 31 agosto 2023

Se viene meno il diritto di proprietà...

 


Che cosa ha fatto grande il capitalismo? Il diritto di proprietà, come potere di godimento e disposizione dei propri beni, senza temere alcuna improvvisa ordinanza reale capace di tramutare in un attimo i proprietari in nullatenenti.

Il diritto di proprietà sancito per legge e recepito dal costume ha permesso di investire, risparmiare, produrre, cambiare il mondo anche moralmente: una meravigliosa rivoluzione, probabilmente unica nella storia umana.

E invece che cosa sta accadendo?

Si pensi, per fare un esempio, alla cosiddetta transizione ecologica. In particolare a un problema che può apparire secondario come quello di costringere coloro che abitano nelle città a comprare una nuova autovettura. Perché farsi una vettura nuova? Perché altrimenti i “proprietari” – il lettore prenda nota – di autovetture definite inquinanti, in base a parametri fissati dallo stesso potere politico, non potranno più circolare.

La metafora non è un granché ma dovrebbe rendere l’idea. Si pensi a una partita tra due giocatori di carte, ad esempio a briscola, la stessa partita, dove di volta in volta, uno dei due giocatori nel momento in cui “cala” una carta ne decide, indipendentemente dal seme, il valore di presa, vincendo così facilmente la partita.

Ora è la volta della briscola-transizione ecologica, poi sarà quello della briscola-transizione economica, infine politica. Tutto è possibile, perché lo stato, non importa se oggi repubblicano, si comporta come la monarchia assoluta di un tempo, e perciò fa strame del diritto di proprietà.

Si dirà che la spesa per una automobile nuova è sopportabile, e che comunque, come si legge, stato e comune nel caso dei cittadini meno abbienti  finanzieranno in parte l’acquisto. Anche qui si gioca a briscola. Anche se venisse integralmente finanziato che differenza c’è tra chi gode di un reddito inferiore meno un euro, e chi gode dello stesso reddito più un euro, passando così alla categoria di reddito superiore?

Il punto non è l’aiutino o aiutone dello stato, ma il fatto che è in gioco il diritto di proprietà. Deve essere l’individuo a decidere quando comprare una automobile nuova non lo stato.

Ovviamente, la tesi ufficiale, dello stato-biscazziere, è che respirare un’aria più pulita è interesse comune, pubblico, sociale. Quindi l’individuo deve inchinarsi al “diritto” collettivo.

Ammesso e non concesso che sia vero, una volta scelta la strada dell’interesse collettivo sarà molto difficile arrestarsi, proprio perché di volta in volta saranno assegnati valori di presa differenti alla briscola-interesse collettivo. Li deciderà lo stato non il cittadino.

Qui vorremmo richiamare l’attenzione su quanto ha dichiarato il sindaco di Londra, città tra l’altro grandissima, dove da ieri  è scattato il divieto assoluto alle automobile inquinanti. Che cosa ha detto? Di “sentirsi dalla parte giusta della storia”.

Peccato che la storia, come dicevamo all’inizio, abbia invece  provato che  è il diritto di proprietà ad essere dalla “parte giusta della storia”, se proprio si vuole usare questa espressione. Fermo restando che nessuno può conoscere il senso ultimo della storia, né il sindaco di Londra, né chi scrive.

Si può soltanto dire che al momento il diritto di proprietà, esaltando la libertà dell’individuo, ha cambiato il mondo e in meglio. Nonostante ciò si vuole sostituire al diritto di proprietà individuale un diritto collettivo, imposto da uno stato biscazziere che pretende di decidere, di volta in volta, ciò che è bene per l’individuo, “calando” la “briscola giusta”.

Al potere assoluto del re si vuole sostituire il potere di uno stato, che rischia di essere ancora più assoluto, perché esercitato in nome “popolo”, questa entità misteriosa, oggi ritenuta quanto e più potente di dio.

Si rischia veramente. Potrebbe finire male.

Si rifletta. Non sarà per oggi, non sarà per domani, neppure per dopodomani, ma se cade il diritto di proprietà, cade il capitalismo, e se cade il capitalismo si torna all’età della pietra. Dove dinanzi al più forte il debole scompare.

Carlo Gambescia

mercoledì 30 agosto 2023

Cancel culture. Il bivio della sinistra

 


Questa destra, che ci governa, non conosce la libertà individuale. Si nasconde dietro gli abusi della cancel culture, ma poi quando prende la parola, prova di essere ben al di sotto dei normali standard liberali.

Generali omofobi e razzisti (Vannacci), Giornalisti casalinghe di Voghera (Giambruno), falangisti di riporto (Veneziani), eccetera, eccetera.

Questa destra è veramente impresentabile. Anche perché disprezza profondamente la libertà individuale. Anteporre dio, patria e famiglia all’individuo significa imporre una gerarchia di valori che non sono condivisi da tutti e che comunque, oggettivamente, limitano la libertà individuale. Semplificando: una cancel culture reazionaria, nel senso del boicottaggio dei valori opposti.

Il nostro articolo però non finisce qui. Perché si deve sempre andare alla radice dei fenomeni sociali.

Purtroppo la cancel culture, a destra come a sinistra, è il portato di un approccio culturale olista. Cosa significa questa parola? Che il tutto è superiore alle parti. Pertanto, la società (il tutto) viene giudicata superiore alla parte (l’individuo) (*).

Questo in teoria. Nella pratica, dal momento che l’unanimità sociale non è mai storicamente né sociologicamente esistita, il tutto rinvia a valori condivisi da maggioranze, quindi da “parti” o “blocchi” sociali manovrati, come è naturale da minoranze, per così dire, maggioritarie.  

Ora quanto più una maggioranza si considera come il tutto e giudica i propri i valori come sacri e fondamentali tanto più si fa opprimente per la libertà individuale. Tra gli strumenti di questo processo di legittimazione culturale fortemente limitativo della libertà individuale spiccano  la riscrittura della storia alla luce degli ideali vittoriosi, la ripulitura del lessico politico e culturale, il boicottaggio, addirittura preventivo, della cultura avversaria, come nel caso della cancel culture.

Si badi bene:  il fatto che  i valori siano quelli del dio patria e famiglia o dell’ecosocialismo non cambia nulla. Si tratta sempre di una visione olistico-maggioritaria nemica della libertà individuale e di ogni forma di dissenso.

Per fare un esempio, la destra che tanto critica la cancel culture, a sua volta, boicotterebbe volentieri, anche preventivamente, le associazioni gay, medici e marinai senza frontiere, eccetera, eccetera.

In questo quadro, l’individuo non è più libero di scegliere tra valori concorrenti posti su uno stato di parità, ma può solo schierarsi con uno dei due eserciti olisti, armati fino ai denti, in attesa dell’Armageddon culturale finale.

Il liberalismo moderno rappresenta, storicamente parlando, la via d’uscita dalle guerre di religione: micidiali guerre olistiche per eccellenza. Può funzionare soltanto quando per convincimento sociale diffuso invece di partire dalla società si parte dall’individuo. Insomma il liberalismo o è individualismo o non è.

Quando si perde di vista questo fattore fondamentale (la centralità dell’individuo), che significa lasciar fare ai singoli consentendo alla società di evolvere (per quanto possibile) pacificamente, si procede inevitabilmente a colpi di legislazione in chiave olistico-maggioritaria. Sicché l’individuo, come ripetiamo spesso, finisce per scorgere nello stato il  giustiziere, garante e realizzatore dei sui diritti, da quelli di dio a quelli del panda. 

Un individualismo, se ci si perdona la caduta di stile, da specie protetta: dal cattolico romano al panda rosso della Cina occidentale.

Come uscirne?  Un passo indietro.  In primo luogo dovrebbero farlo  lo stato e i diversi "partiti" culturali.
 

In realtà, il primo passo dovrebbe farlo la destra. Ancora ferma a schemi pre-individualistici. Detto altrimenti: su posizione reazionarie. Anche la sinistra però dovrebbe usare più “tatto”, non con la destra che va comunque incalzata, ma con la gente comune. La sensibilità verso il “diversamente” di qualsiasi tipo sta cambiando. Però occorre tempo. La memoria sociale ha i suoi ritmi e non può essere sradicata per decreto. Servono prudenza e pazienza.

Certo la destra, con le sue evocazioni reazionarie, non aiuta. Come pure non aiuta, a sinistra, il voler imporre il “diversamente” per decreto.

Pertanto la vera domanda è questa: la destra è olista, ormai lo sappiamo, ma la sinistra? È dalla parte dell’olismo o dell’individualismo?

Carlo Gambescia

(*) Da ὅλος (greco), olos,  che significa totale, intero.

martedì 29 agosto 2023

“Negazionismo” e “positivismo” climatico

 


Se i lettori hanno tempo diano almeno un’occhiata all’ articolo di Fabrizio Bianchi (*), un epidemiologo del CNR di Pisa, quindi uno scienziato che lavora per  lo stato (non si dimentichi il dettaglio, perché importante come vedremo).

Articolo interessante, paradigmatico diremmo, perché aiuta a capire, in poche battute, le amare radici cognitive e sociologiche dei sostenitori della tesi del cambiamento climatico e della necessità di un intervento immediato.

Si può parlare di tesi “positiviste”  in opposizione alle tesi opposte, di regola, oggi, liquidate come «negazioniste».

L’articolo non verte tanto sulle sue cause, supposte o meno, quanto sul ruolo della scienza e degli scienziati.

Dicevamo tesi positiviste. In che senso? Positiviste perché l’atteggiamento cognitivo di Bianchi, in sintesi, può essere definito positivista, proprio nel senso attribuito alla scienza dal padre della sociologia positivista, Auguste Comte: Savoir pour prévoir, afin de pouvoir. Detto altrimenti: il sapere come fonte di potere. Ovviamente per il bene dell’umanità.

Bianchi, non è così diretto, gira intorno alla questione: parla di complessità sociale e scientifica, di formulazione corretta delle ipotesi, di studi cumulativi, di comparazione tra i diversi scenari, della necessità di verifiche dei medesimi, eccetera, tutte cose condivisibili. Però ecco il punto, non deflette da due idee: 1) che la scienza o ha natura previsionale o non è scienza; 2) che i poteri pubblici, quindi dello stato, agiscono sempre a fin di bene. Con un pendant sociologico devastante per la libertà individuale: che i privati sono sempre prigionieri di conflitti e di interessi non dichiarati. Quindi non trasparenti in senso morale. In sintesi: pubblico è bene, privato è male.

Un passo indietro. L’estensione della natura previsionale della scienza – per fare un esempio – dal moto dei pianeti al moto sociale è una vecchia idea positivista, ottocentesca, distrutta da Popper, nel suo famoso libro sulla Miseria dello storicismo, idea positivista che ha condotto a quel diabolico combinato disposto che ritroviamo ad esempio nella teoria sociologica di Marx sull’ “inevitabile” caduta del capitalismo o nella teoria eugenetica rilanciata dalla sociologia “applicata” del nazionalsocialismo.

 Il mix, chiamiamolo così, tra potere scientifico e potere politico è qualcosa di tremendo. Un vero scienziato dovrebbe sempre tenersi alla larga dalle istituzioni politiche, dal momento che il potere decisionale della politica, tramuta l’ipotesi dello scienziato, che è una congettura, in una verità, addirittura operativa. Si passa dal previsionale al predittivo. Cioè l’ipotesi diventa una risorsa politica e istituzionale di pronto impiego. 

Invece come ha mostrato Popper, in Congetture confutazioni, un conto è la congettura scientifica, un altro la presunzione politica. La differenza è costituita  dalla differente natura della confutazione, che in ambito scientifico, implica esperimenti di laboratorio, di natura reversibile, in quello politico esperimenti sociali di natura irreversibile. Detto altrimenti: la scienza non può essere confusa con l’ideologia, dal fascismo all’ecologismo. Perché si rischia grosso. E' in gioco la libertà di milioni di persone.

Ora, per concludere sul punto, che neutralità affettiva, ci si può attendere da uno scienziato come Bianchi che lavora per lo stato? Ci si perdoni la caduta di stile. Una vecchia battuta sulle osterie romane, recitava così: “Oste com’è il vino? Bono, bono, bono”.

Il professor Bianchi lavora per la madre di tutte le istituzioni politiche. Quindi il “vino” dello stato, come può essere? “Bono, bono, bono”. Al di là delle battute, la cosa più grave che connota l’approccio dei positivisti è che si dà per scontato che lo stato sia sempre dalla parte del bene mentre i privati dalla parte del male. Insomma, che lo stato sia moralmente trasparente, il singolo privato no.

Diciamo che si tratta di una petizione di principio. Si rifletta su tre punti: 1) almeno a far tempo dalle seminali riflessioni di Hume è noto che i singoli uomini perseguono i propri interessi, sono fatti così, che poi la cosa piacesse o meno a Marx, Lenin, Hitler e Mussolini resta materia per i sogni, anzi per gli incubi; 2) ne consegue, altro dato di fatto, che gli effetti compositivi ( finali), che possono derivare da una molteplicità di azioni individuali, sono imprevedibili; 3) perciò la sostituzione agli individui di un “macroindividuo” – lo stato – non può cambiare le cose. Probabilmente può solo peggiorarle. Perché lo stato è una macchina schiacciasassi. Che una volta messa in moto distrugge tutto. Si pensi ai guasti provocati dalla programmazione politico-sociale perfino nell’ambito del welfare state, per non parlare dei rovinosi esperimenti rosso-bruni dei totalitarismi novecenteschi.

A questo punto il lettore potrebbe comunque pensare che chi scrive non abbia voluto artatamente rispondere alla domanda sull’esistenza o meno del cambiamento climatico. E che quindi un atteggiamento del genere, di fatto, dia una mano ai “negazionisti climatici”. Quindi agli “oscurantisti”, come scrive Bianchi, usando lo stesso linguaggio di Auguste Comte.

Il vero problema, non è il presunto o meno cambiamento climatico, ma il metodo con il quale lo si vuole affrontare. E quello dei “positivisti” è più pericoloso di quello dei “negazionisti” che volenti o nolenti sono dalla parte di Hume. Mentre il positivista, per principio, si impone (e impone via  stato) di non tenere conto  degli effetti compositivi: dell’eterotelia, per dirla con Monnerot. Fenomeno, ripetiamo, che è un dato di fatto, almeno per ogni serio studioso di politica, sociologia e metapolitica. Si vuole un presunto bene e si ottiene un effettivo male. Si chiama anche eterogenesi dei fini.

Semplificando: di qui a qualche anno, a causa del Savoir pour prévoir, afin de pouvoir, condiviso da scienziati positivisti e statalisti, potremmo tutti ritrovarci, sotto la pioggia o sotto il sole,  in catene.

Per il nostro bene ovviamente.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/scienza-riduzionismo-negazionismo-oscurantismo-istruzione-clima-ambiente-sl20yga4 .

lunedì 28 agosto 2023

L’estate della tristezza e delle inutili letture…

 


Non c’è nulla di più triste che l’ occuparsi del libro del generale Vannacci. Magari di dover pure  leggere il prossimo libro di Giorgia Meloni. Si criticava, e si continua a criticare, talvolta ingiustamente,  la sinistra per i suoi piagnistei sulla giustizia sociale e sull’accoglienza. Però, a dire il vero, anche la lettura del  libro di Elly Schlein è deprimente.

Purtroppo, per chi studia, analizza, scrive, la documentazione sulle fatiche letterarie dei leader politici sulla cresta dell’onda o peggio ancora di un generale illetterato, è un dovere, ma anche  fonte di grande tristezza. Soprattutto perché si deve bere l’amaro calice fino alla feccia. Cioè sorbirsi il conseguente dibattito politico in cui i fans degli uni e degli altri si accusano a vicenda di difendere i ricchi e di ignorare i poveri, di odiare i gay, i migranti, come pure di farne degli eroi, eccetera, eccetera. Che tristezza. Sinistra snob, destra sociale, destra fascista, sinistra giustizialista, e così via.

Un modesto consiglio a chiunque si sforzi di capire e studiare. Lasciar subito perdere le deludenti chiacchiere politiche per concentrarsi sui fenomeni di fondo, di lunga durata.

Il primo è l’attuale concentrazione di potere nelle mani dello stato e delle sue amministrazioni. Il secondo fenomeno – riflesso del primo – consiste nella crescente scomposizione sociale in gruppi di interesse e influenza: gruppi – attenzione – che inevitabilmente finiscono per gravitare nella sfera di potere dello stato.

Si tratta di una precisa regolarità metapolitica, prodotta dalla dinamica tra forze centripete e centrifughe. Dinamica che finisce per schiacciare l’individuo, costretto a subire il do ut destra stato e gruppi di pressioni e di influenza.

Si noti la contraddizione di fondo. Più si blatera di libertà individuale, a destra come a sinistra, più la si sottomette al gioco dello stato e dei gruppi di interesse, costringendo l’individuo, se ci si passa l’espressione letteraria, “a darsi un padrone”. A incasellarsi, insomma. Oppure a formare, a sua volta, un gruppo di pressione in grado di competere con gli altri gruppi di pressione per ottenere i favori dello stato.

Il vero punto della questione è che quanto più si stringe la morsa stato-gruppi di pressione sull’individuo, tanto più si riduce la sfera individuale di libertà. Detto altrimenti: quanto più la società si struttura in organizzazioni, tanto più si organizza. E dal momento che organizzazione è sinonimo di oligarchia, a comandare sono sempre in pochi.

Ciò significa che se per un verso, l’esistenza di un ceto dirigente (un’élite) è una necessità sociale di natura fisiologica, per l’altro, in una società dove l’organizzazione prevale su tutto, l’individuo finisce per essere nulla: il che risulta patologico, socialmente patologico.

Di questo si dovrebbe ragionare non degli insulsi libri di Vannacci, Meloni, Schlein…

Un’ultima cosa: se esiste una nota distintiva delle nostre società, va individuata nel predominio dell’organizzazione. Il grande Schumpeter, sulla scia di Weber, parlò di burocratizzazione. Pertanto, allo stato delle cose, parlare di società individualistica è totalmente errato. Esiste invece una forma di individualismo protetto, burocratizzzato dalle organizzazioni, in primo luogo quelle dello stato e dei gruppi di interesse.

Come uscirne? Non è facile rispondere, perché le società, proprio perché tali, sono un fenomeno organizzativo, quindi sottoposto al governo delle élite. Tuttavia, poiché esistono limiti sociale (all’an-archia come alla macro-archia), pena la sparizione di una società storica, il punto fondamentale resta quello di evitare le esagerazioni. Ma come? Se oggi addirittura si ordina all’ individuo di appartenere o costituire una qualche forma di organizzazione?

Gli studiosi ricordano il consiglio di Tocqueville, che risale a quasi due secoli fa, di costituire libere associazioni, in tutti i campi, per resistere meglio ai poteri costituiti, in particolare dello stato. Ma se oggi è lo stato che impone di organizzarsi, per poi privilegiare meglio le associazioni in sintonia ideologica, cooptandone i dirigenti, anche il consiglio del grande Tocqueville sembra non avere più senso.

E qui torniamo al problema dei problemi, al quale gli insipidi libri di Vannacci, Meloni e Schlein mai risponderanno.

Quale? Che lo stato non è la soluzione ma il problema.

Carlo Gambescia

domenica 27 agosto 2023

Marcello Veneziani, il falangista…

 


Per Giorgia Meloni, probabilmente, José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange, è poco più di  un nome. Come pure poco o  nulla sa di Francisco Franco. Nonostante le vantate frequentazioni con Vox.

Però c’è chi, giocando sull’ignoranza  o sulla noncuranza  dei politici postmissini,  sdogana il falangismo con la scusa di combattere un altro dei miti dell’estrema destra, dopo quello della “sostituzione” (dei neri con i bianchi) in Italia e in Europa:  la “cancel culture”.

Accusata addirittura di voler riscrivere la storia, cancellando targhe monumenti, rimuovendo, come in Spagna i resti prima di Franco poi del fondatore della Falange dalla Valle de los Caídos: il grande sacrario, di e per tutti i caduti della guerra civile, voluto da Franco ma costruito dai prigionieri repubblicani con la pistola puntata  alla tempia.

Si chiama Marcello Veneziani, in questi giorni, scommettiamo, in preda alla rabbia, perché sta vendendo di più il generale Vannacci con un solo libro  che “Marcello Bello” (questo il suo pseudonimo quando scriveva sul “Secolo d’Italia”, negli anni missini, non aennini…), che di libri ne ha pubblicati non pochi.

Ma si legga cosa ha scritto in argomento: puro stile romantico-fascista.

“José Antonio era un mito per la gioventù europea, non aveva fondato alcun regime sanguinario, alcuna dittatura, si era solo battuto lealmente in una guerra civile per i suoi ideali e per la difesa della Spagna eterna contro il pericolo comunista, ateo e stalinista. Fu un capo carismatico, un oratore coinvolgente, un combattente intrepido, un sognatore politico. Era avvocato, padre di quattro figli, a sua volta figlio di Miguel Primo de Rivera, generale e dittatore col consenso del Re negli anni venti. José Antonio sognava una Rivoluzione nazionale che coniugasse i valori tradizionali della Spagna cattolica, con i valori popolari di giustizia sociale e difesa dei lavoratori. Mi innamorai di lui da ragazzo, ricordo il suo discorso testamento: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poeticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. A lui dedicò una biografia elogiativa Giorgio Almirante” (*).

Innanzitutto lo chiama per nome, come usavano e usano fare i militanti falangisti e i neofascisti di mezzo mondo, Italia inclusa. Poi lo romanticizza (le stelle, la bandiera, la poesia del combattentismo, dio, patria e famiglia al cubo), altro stereotipo fascista e neofascista. Dulcis in fundo cita la biografia di Giorgio Almirante, sicuramente divorata. Però attenzione:  non “elogiativa”, come scrive Veneziani,  ma apologetica.

Il falangismo fu un nazionalsocialismo ispanizzato, con al posto del pagano Hitler, un leader ultracattolico, fucilato dai repubblicani nel 1936. Franco, che era politicamente moderato, trasformò il falangismo in una specie di Inps, di ente previdenziale e assistenziale per i lavoratori. E nel dopoguerra fu costretto a mettere la manette a molti falangisti che nel frattempo avevano imparato a rubacchiare sulla lista della spesa.

Per contro, per i nostalgici del falangismo e del fascismo, José Antonio Primo de Rivera [nella foto] resta un specie di principe dormiente, che prima poi si risveglierà, o quanto meno si risveglieranno i suoi valori, però totalitari. Per i quali fa tuttora tifo Veneziani.

Se l’intellettuale di Bisceglie avesse letto la magnifica tetralogia di Josè Maria Gironella, grande scrittore, veramente al disopra delle parti, avrebbe scoperto i gravi limiti del falangismo, ammessa e non concessa la sua volontà di scoprirli: limiti insiti in ogni romanticismo politico. Prima o poi costretto, piaccia o meno, a fare in conti con la realtà, finendo così per farli anche troppo: o eccedendo in esecuzioni o in concussioni.

Pertanto le tesi di Veneziani (Josè Antonio era buono, i suoi valori buoni) sono  l’ennesima lancia spezzata in favore del fascismo come fenomeno politico eroico, eccetera, eccetera.

Veneziani, come sempre, scrive di cose che non conosce, o che conosce attraverso il filtro di Almirante e della subcultura fascista e neofascista italiana alla quale appartiene.

Perché, solo per dirne una, dal falangismo, dall’ultimo falangismo, proviene  Adolfo Suárez, nauseato di  tutta quella paccottiglia ideologica, che grazie all’opera di un grande giurista, Torcuato Fernández-Miranda e alla lungimiranza del re Juan Carlos, riuscì a portare a termine la transizione spagnola dalla dittatura di Franco alla democrazia: un capolavoro politico del governo Suárez, che nel febbraio del 1981, il tenente colonnello Tejero, altro probabile mito di Veneziani, tentò di rovesciare.

Si guardino i filmati dell’epoca: Adolfo Suárez, unico uomo in piedi al centro del Parlamento, che replica, disarmato, a uno pseudo caudillo che lo minaccia con la pistola: idolo di quei militari e falangisti, guardia bianca del “Bunker” franchista, riuniti intorno al quotidiano “El Alcázar”, evocatore del “golpe”. Per capire il clima, si rileggano titoli e articoli di quei giorni pubblicati dagli ultimi moicani della carta stampata falangista. La transizione non fu una passeggiata…

Ovviamente Suárez, capace uomo di stato, scomparso alcuni anni fa, resta il nemico principale di tutti coloro che rimpiangono, come Veneziani, José Antonio Primo de Rivera: il miracoloso falangismo rivendicato, in articulo mortis da una marionetta come Tejero.

Questo maledetto romanticismo politico, evocato da Veneziani, che rifiuta di storicizzare la dittatura franchista, errore, attenzione, commesso anche dal passato governo socialista, resta il peggiore veleno che impedisce, non solo alla Spagna, di proseguire nel cammino della democrazia liberale.

Ammesso e non concesso che la “cancel culture” sia pericolosa (non concesso perché come ogni estremismo romantico, prima o poi dovrà fare i conti con la realtà), non la si può combattere con dosi industriali di falangismo romantico, come fa Veneziani.

A sua volta Giorgia Meloni che fa? Boh… Forse se lo conoscesse, preferirebbe  il falangismo dell’Inps. Forse.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/la-macabra-barbarie-contro-i-morti-sepolti/ .

sabato 26 agosto 2023

Generali, sindacalisti e individualismo protetto

 



La destra è una cultura dell’autorità che sfocia regolarmente nell’autoritarismo, la sinistra rinvia  invece a  una cultura dell’uguaglianza che si tramuta inevitabilmente in ugualitarismo.

A destra si evocano i generali, capaci di tramutarsi in dittatori, a sinistra il sindacalisti, pronti a trasformarsi in burocrati (o i burocrati in sindacalisti) .

Ed è quel che sta avvenendo. Vannacci, il generale dalle idee reazionarie, sembra voglia scendere in politica. A sinistra, Schlein, Conte e Landini si battono per il salario minimo: il mondo “non in senso contrario” e il “salario minimo” incarnano rispettivamente i brutti volti dell’autoritarismo e dell’ugualitarismo contemporanei.

Però, in realtà, nonostante queste e altre dichiarazione di principio, i governi, ieri di sinistra oggi di destra, si somigliano tutti: welfare e buone intenzioni, “buone” in base alla cultura di riferimento (autoritarismo e ugualitarismo).

La sensazione che prova l’elettore medio è di impotenza. Un’epidemia morale che in particolare infierisce su imprese e libere professioni. La sensazione provata è quella di non riuscire a farcela: di perdersi nell’intrigo di leggi, leggine, regolamenti, cavilli, schiacciati dalla forza di gravità di una pressione fiscale insostenibile. Parliamo di sei sette milioni di elettori che annaspano, tra regole e regolette inquisitorie. Che sopravvivono, e male, a se stessi.

Il resto dell’elettorato, pensionati, dipendenti pubblici, sindacalizzati o meno dei vari settori, e altri soggetti inerziali, parliamo di alcune decine milioni di elettori, subisce, dando per scontato il do ut des con i poteri pubblici (dal governo alle amministrazioni locali).

Il che si risolve di fatto nella passiva accettazione del mix welfare-buone intenzioni. Una cultura sostanzialmente contro il mercato. Sicché, la battaglia politica (si fa per dire), si restringe al rifiuto (destra) o all’ estensione (sinistra) ai migranti una zuppa sempre più allungata e insapore, quasi una brodaglia. Invece di lasciare che il mercato crei posti di lavoro per tutti, migranti e non.

Insomma, ai magniloquenti conflitti di principio tra cultura dell’uguaglianza e cultura dell’autorità si sovrappone una routine, distinta dal crescente debito pubblico al quale tiene dietro una altrettanto crescente pressione fiscale. Un oceano  di  mediocrità economica che alla lunga rischia di inghiottire  tutto e   tutti.

In definitiva, l’economia italiana e di riflesso la politica si reggono su questo perverso equilibrio tra un dare e un avere di tipo assistenzialistico.

Si rifletta su un punto. La cultura dell’autoritarismo e la cultura dell’ugualitarismo non sono culture liberali. Opprimono l’individuo. Che nel caso italiano, come detto, resta passivo, e in molti casi persino felice che altri pensino per lui. Si chiama, individualismo protetto o di stato, come abbiamo più volte scritto. Un combinato disposto, di cattivi servizi pubblici e di buchi nei controlli,  che lascia all’individuo l’illusione di poter scappare dalle maglie del welfare state.

Come uscire da questa situazione? Scorgiamo tre possibilità.

La prima più remota, quella di una rivoluzione liberale, vista però come il fumo negli occhi dalla maggioranza dell’elettorato, cloroformizzata dall’individualismo protetto. Si dovrebbe tornare all’individualismo vero, dei corsari, dei commercianti per mare, degli imprenditori e degli inventori, degli edificatori di imperi coloniali, dei grandi politici liberali del XIX secolo (e alcuni del XX). Tutti attori storici non consapevoli di creare ciò che i suoi nemici avrebbero chiamato capitalismo. Ma lasciamo perdere i sogni. Oggi l’Occidente euro-americano si vergogna delle sue grandi conquiste liberali.

La seconda ipotesi, più concreta, consiste nel fatto che le culture dell’autoritarismo e dell’ugualitarismo, a prescindere dal vincitore, puntano entrambe, anche se per ragioni culturali differenti, ad accrescere i controlli. Però in questo modo, piaccia o meno, i margini di libertà dello stesso individualismo protetto ne risentirebbero.

Semplificando il concetto : “più welfare” ma anche “più controlli”. Ciò però significa che il “più welfare”, stante un debito pubblico enorme e crescente, resterebbe sulla carta, mentre il “più controlli” in nome dell’autoritarismo o dell’ugualitarismo potrebbe essere esteso fino a soffocare ogni residua libertà. Una catastrofe per l’individualismo protetto.

La terza ipotesi, più realistica, rimanda alla prosecuzione del tran tran attuale fino alla crisi fiscale dello stato. Che si tradurrebbe nell’ impossibilità di versare bonus a cittadini e imprese, come pure di pagare le pensioni. Ma anche, per ricaduta, nell’ inflazione da costi, non più fiscalizzati, nonché in stagnazione produttiva per il calo di consumi non più finanziati via bonus sociali. Un’ altra catastrofe per l’individualismo protetto.

Riteniamo che quest’ultima ipotesi sia la più probabile. Di una cosa però siamo sicuri: l’individualismo protetto, con la complicità dei governi di destra e sinistra, sta segando, il ramo che lo sorregge.

Carlo Gambescia

venerdì 25 agosto 2023

Omicidio politico e ciclo politico

 


L’omicidio politico è uno degli strumenti della lotta politica e in particolare del ciclo politico, che è una precisa regolarità metapolitica. Il ciclo politico rinvia alla conquista, conservazione e perdita del potere.

Si uccide un avversario, anzi un nemico, per conquistare, conservare, quindi evitare di perdere il potere. L’Impero Bizantino, cioè quel che rappresentava storicamente lo sviluppo dell’Impero Romano d’Oriente, di cui la Russia, anche quella post-sovietica si dichiara erede, fu una monarchia assoluta molto accentrata. Che, a detta degli storici, fu temperata dall’omicidio politico: due terzi degli imperatori, parliamo di un ciclo storico durato più di mille anni, furono eliminati in modo violento. Un attivismo omicida esteso agli avversari politici sfortunati, aspiranti eredi al trono, avventurieri, generali, ministri ambiziosi, eccetera. Un’ecatombe. Tuttavia, il sistema funzionava. A suo modo, anche per altre concause, forniva, pur tra alti e bassi, stabilità politica, come del resto prova la sua durata.

Perciò se in Russia, come pare, si usa ancora il “metodo bizantino”, non c’è da meravigliarsi. La politica, anzi la metapolitica è contrassegnata da regolarità di comportamento. Cioè da comportamenti che tendono a ripetersi nel tempo. E qui parliamo, inclusa la Russia zarista e comunista, di un periodo “reiterativo” di quasi millesettecento anni su cinquemila anni di storia umana documentata dal punto di vista metapolitico.

Si dirà, giustamente, che le democrazie liberali, che però rispetto all’Impero di Bisanzio ed eredi hanno poco più di duecento anni, hanno rinunciato all’eliminazione fisica dell’avversario politico.

Va riconosciuto che, principalmente nell’Occidente euro-americano, nonostante due guerre mondiali, le democrazie liberali, dotate di quella pubblica camera di compensazione dei conflitti politici che si chiama parlamento, hanno limitato il fenomeno. Anche se i parlamenti sono stato assaltati, in alcune fasi soppressi, re, presidenti e ministri uccisi, diciamo che, ufficialmente, esiste il rifiuto di ridurre la lotta politica all’eliminazione fisica dell’avversario. E in qualche modo lo si è interiorizzato. Cioè, per far un esempio, nessun membro dell’opposizione pensa di avvelenare Giorgia Meloni. Insomma, al Quirinale e Palazzo Chigi, non esiste, semplificando al massimo, come al Cremlino, un assaggiatore ufficiale di cibo.

Oggi nell’ Occidente euro-americano, il ciclo politico fa il suo corso, senza ricorrere, in linea di massima,  all’omicidio politico. Il che non significa che non si registrino attentati, scontri di piazza, eccetera, ma che l’omicidio politico dell’avversario non è tra le principali opzioni. Anche perché a differenza della Russia, nell’ Occidente euro-americano, il potere politico non è particolarmente accentrato: cosa fondamentale. Quindi basta avere pazienza. E questo – la promessa quasi sempre mantenuta dell’alternanza – è uno dei principali meriti della liberal-democrazia. Che però, ripetiamo, ha appena due secoli di vita. Dal punto di vista metapolitico, è poco più di un neonato, nella fase di svezzamento.

Concludendo, nonostante i piagnistei degli eterni scontenti, dei disfattisti e le accuse dei mitomani politici, il modello occidentale, rispetto a quello russo-bizantino, è più equilibrato, soprattutto verso l’uso della violenza come strumento di lotta all’interno del ciclo politico. Il che promette un mondo migliore per tutti e una lunga vita a chi in particolare desideri occuparsi di politica.

Anche se, ripetiamo, la liberal-democrazia, dal punto di vista metapolitico,  è solo agli inizi. Altro che pensiero unico...

Per capirsi: se fosse una pianta sarebbe ancora piccola e fragile. 

Carlo Gambescia

giovedì 24 agosto 2023

Chi ha ucciso Prigozhin? Le “Orsoline”…

 



Si dirà che sono dettagli e che magari siamo troppo severi, armati addirittura di “pregiudizi”. Ma si osservi la prima pagina de “Il Fatto Quotidiano”. Parliamo della versione cartacea, diretta da Travaglio.

Chi può avere fatto fuori Prigozhin? Le “Orsoline”, per parafrasare la celebre battuta di Vittorio Gassmann in un celebre film  sulla Grande guerra? 

Infatti come titola il giornale “che non riceve finanziamenti pubblici”? Buio o quasi. In sintesi: “Cade l’aereo, ma lui dov’è?”. Tradotto: aereo caduto, non abbattuto o esploso. Dopo di che la goccia di veleno. Ma era a bordo?

Certo, è cosa nota, per fare un titolo del giornale in uscita si aspetta la prova del Dna…

Diciamo che piacerebbe a Mosca. Anzi piace, di sicuro.

Ora la domanda è: perché questo titolo a dir poco cauto, se non addirittura ricusatorio dei fatti?

Quali fatti? Che Prigozhin l’aveva fatto grossa, che era un nemico di Putin, che nella Russia della Terza Roma, i nemici politici si incarcerano e si uccidono come ai tempi della Prima e della Seconda ( Roma e Bisanzio)?

Parliamo di un giornale che quando si tratta di un avversario si arma di machete.

Ieri criticavano “La Verità”, nel senso che certe campagne stampa, oggi si direbbe in stile social (ma in realtà stile “Action Française”), assecondano i peggiori spiriti animali della gente. Ma che dire de “Il Fatto Quotidiano”, i cui redattori si dichiarano democratici laici e antifascisti? Fra Travaglio e Belpietro che differenza c’è? Nessuna. Non informano, deformano secondo un preciso dettato ideologico. Che, al momento, è quello di stare dalla parte di Mosca.

Belpietro, addirittura,  ha quasi nascosto la notizia: si noti l’impercettibile taglio basso. Travaglio, invece, tutto sommato, la riporta, con evidenza, anche se in modo fuorviante. Diciamo che quest’ultimo ha scelto la foglia di fico.

Certo, e per fortuna, il resto della stampa italiana ne parla oggi senza tanti peli sulla lingua ( però la destra, più filorussa della sinistra, resta più abbottonata ), quindi controbilancia (*).

Però, ecco, due quotidiani (uno che addirittura la “Verità”, con la maiuscola, la porta nel titolo), con discreta diffusione, nascondono o avanzano dubbi sulle cause della morte più che annunciata di Prigozhin.

Va anche sottolineato che oggi la gente si informa in Rete. Il che non sempre è un bene. Perché non pochi siti di “controinformazione”, ne siamo quasi certi, incolperanno Biden della morte di Prigozhin, assolvendo Mosca. Un inciso: anche la versione online del “Fatto” diretta da Gomez, avanza dubbi (stiamo scrivendo, intorno alle 7.50).

Però la domanda rimane. Perché?

Abbiamo parlato di scelte ideologiche. Se dettate o meno direttamente da Mosca, non è possibile provarlo. E neppure avanzare ipotesi precise. Diciamo che un sospetto c’è. Però un sospetto non è una prova. Perciò il lettore consideri i nostri dubbi immotivati. Anzi non li tenga in alcun conto. Insomma, come non detto.

Carlo Gambescia

(*) Qui:  https://www.giornalone.it/ .



mercoledì 23 agosto 2023

“La vecchia merda sta ritornando a galla”

 


Oggi “ La Verità” che si spaccia per quotidiano liberale (che tristezza la sorte del liberalismo in Italia: quattro spocchiosi professori e una sinistra populista, di complemento, che si spaccia per liberal), in piena prima pagina, secondo il classico copione dell’ “Action française”(quotidiano nazionalista e di estrema destra, diretto da Charles Maurras, poi finito nelle braccia di Hitler), sostiene nell’ordine alcune tesi che non sarebbero dispiaciute né ai redattori né ai lettori dell’“Action française” (*).

1) Si appoggia un generale che potrebbe tornare politicamente utile (Vannacci) per qualche Lega in stile 1934 (sempre Francia, studiare la storia del “non conformismo” nelle piazze parigine anni Trenta, prego).

2) Si attacca Mattarella, insinuando “manine” contro Vannacci, e si evoca la rivolta contro il “pensiero unico”.

3) Si criticano gli ebrei usando un' ebrea eterodossa, Simone Weil, vecchia tecnica della polizia zarista.

4) Si rispolvera la storia del Pasolini corruttore di giovani.

Tutte accuse,  ovviamente rivolte contro nomi e cognomi differenti, presenti quotidiamente nel giornale diretto da Maurras: screditare e ingiuriare gli avversari.  La stessa tecnica oggi usata da Charles Belpietro.

Il giornalismo tipo “Action française” non è citato a sproposito. Si veda l’editoriale, impressionante, sempre di oggi, dove si scrive che in fondo il generale dice cose ovvie di buon senso, ignorate dalla politica, e invece condivise dalla gente comune. Charles Maurras era un maestro in questo: imputava alla classe politica francese (tutta: liberali, radicali, socialisti e comunisti ) di ignorare il buon senso del popolo, dal momento che era ovvio che odiasse gli ebrei, gli omosessuali, i capitalisti, le istituzioni parlamentari. Era ovvio. Capito?

Il discorso – oggi si dice narrazione… – de “La Verità” è lo stesso. Si evoca il buon senso per far circolare, ieri come oggi, un grumo di pseudo idee. Che allora confluirono nel fascismo. Che Norberto Bobbio liquidò come “il bacino collettore” di "tutte le correnti antidemocratiche"  fino a quel momento sotterranee :  frutto velenoso di pericolosi giochini da intellettuali frustrati (**). Diciamola tutta, perché non siamo educati come Bobbio: il fascismo fu una specie di collettore fognario dei peggiori liquami culturali tra otto e novecento.

E oggi, per dirla con Marx ed Engels  (e rinunciando una tantum a inarcare il sopracciglio), sta ritornando “per forza tutta la vecchia merda” a galla (***). La situazione è grave. Anche perché mancano, come allora, referenti affidabili.

La sinistra è più populista della destra. I liberali italiani, quelli che ancora non hanno abbracciato il Meloni-Pensiero, guardano il proprio ombelico. La gente comune crede, come ha furbamente intuito “La Verità”, che osannare i generali e lapidare tutti gli altri sia ovvio. Le stesse tesi dell’ “Action française” che poi si mise agli ordine di Pétain, altro generale, salvatore della patria…

Oggi come allora, gli anticorpi sembrano essere ridotti a zero. Chi fermerà, per dirla con Ortega, liberale vero, esta gentuza?

Carlo Gambescia

(*) Qui:  https://www.giornalone.it/prima-pagina-la-verita/ . 

(**) N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, in E. Cecchi e N. Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano 1979, vol. IX, p. 173. 

(***) K. Marx e F. Engels L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958, p. 31.