venerdì 31 marzo 2017

I dazi di Trump
Il lato grottesco del protezionismo



Il protezionismo ha  un lato comico, se si vuole addirittura  grottesco, come ogni forma  di interazione sociale  spinta all’eccesso.  Si pensi alle anticipazioni del WSJ, riportate dalle agenzie di stampa, sui dazi che Trump vorrebbe imporre su alcuni marchi europei.  Per accontentare, si dice, i produttori americani di  manzo, delusi dal non rispetto  Ue di un trattato del  2009, che apriva al manzo Usa non trattato con ormoni  (*).
Comunque stiano le cose, si pensi, dicevamo,  ai milioni di   americani che  dovranno rinunciare all’acquisto di una vespa,  a non bere l’acqua San Pellegrino e sbocconcellare il formaggio Roquefort. Mentre noi invece continueremo  a mangiare il manzo, presuntivamente,  a chilometro zero, sovvenzionato dall’Ue con i nostri soldi. Che buffonata.
Purtroppo, la verità  è che la “qualità” non sempre la fanno le merci, come invece auspica il Presidente Gentiloni,  facendo il verso ad  Alice nel Paese delle Meraviglie. Magari.  Invece, spesso  la stabiliscono, o meglio la contrattano politicamente,  governi e produttori:  si chiamano coalizioni redistributive. E si sviluppano  sotto l’impulso del ciclo elettorale democratico, regolato dal voto di scambio.  Ciò non significa che i dittatori non abbiamo tali problemi,  di regola, condizionati, ancora più pesantemente, dal tasso di demagogia e autoritarismo  che innerva le dittature.  Regimi,  mai dimenticarlo, che non sono l'antitesi della democrazia, ma il prolungamento distorto in chiave plebiscitaria di quel culto della volontà generale, celebrata da Rousseau, radicato nella democrazia tout court,  paventato da Aristotele e Tocqueville.  
Tornando sul punto, il libero mercato si muove in un quadro di regole. Le regole sono oggetto contrattazione. E quanto più le regole diventano vincolanti, per accontentare i gruppi di pressione politici ed economici più forti, tanto  più ci si allontana dal libero (o quasi) mercato.
Giusto? Sbagliato?  Se il mondo fosse  regolato da economie chiuse, autosufficienti, il commercio e gli scambi  non avrebbero alcuna ragione di essere.   In realtà, però non è così: la moderna economia di mercato  incidendo su  regole millenarie, contraddistinte,  dal culto dell’autarchia, innescò una rivoluzione che, in chiave scalare,  ha finito per  mettere  tutti in contatto con tutti,  persone e beni.  E i risultati, innegabilmente positivi, sono sotto i nostri occhi.
In qualche misura,  il protezionismo  è un riflesso carnivoro di tipo arcaico,  mentre il libero mercato è un esperimento moderno,  che pur avendo poche centinaia di anni,   ha decisamente migliorato le nostre esistenze, dopo secoli e secoli di povertà, malattie e altri stenti. Che poi il protezionismo, modernamente reintepretato,  abbia svolto un ruolo fondamentale  all’interno della modernità, come dire, capitalistica,  favorendo un processo di accumulazione di risorse poi liberate dal mercato,  è un dato di  fatto.  Ma non è questa la situazione -   pre-decollo industriale -   in cui  versa l’America di Trump. Il protezionismo evocato dal presidente Usa, rimanda al ciclo elettorale democratico, con evidenti venature demagogiche:  il dover dare una qualche risposta, anche sbagliata, insomma “costi quel che costi”, a elettori emotivamente sequestrati. Il che non farebbe dormire sonni tranquilli al flemmatico  Aristotele come  all'irrequieto Tocqueville.  
Ecco perché il protezionismo di Trump ha un lato comico, addirittura grottesco. Ricorda  quei decadenti aristocratici, usciti dai sepolcri dopo la caduta di Napoleone, che pretendevano di restaurare integralmente il mondo pre-1789, anche nell'abbigliamento.  E come?  Indossando la settecentesca  parrucca  incipriata.   Che a dire il vero, secondo alcuni pettegoli,  il fulvo Trump, sotto l’aspetto di un ultramoderno parrucchino,  sembra non disdegnare.  Tra una bevuta e l’altra di acqua. San Pellegrino, of course.  Lui non vive in una roulotte.  

Carlo Gambescia                                       


giovedì 30 marzo 2017

Iniziata ufficialmente la Brexit
Fumo di Londra



La vera notizia non è l'attivazione dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona,   bensì  il fatto che la Gran Bretagna  sia rimasta così a lungo  nell’Unione Europea.  Le tradizioni britanniche  sono prettamente  insulari. Uno “splendido isolamento”, frutto del dominio  sui  mari,  al quale però  si univa la costante attenzione  verso l’Europa: un atteggiamento rivolto  a impedire l’ascesa di potenze egemoni continentali.  Insomma, non diciamo  niente di straordinario dal punto di vista esplicativo: roba da terzo anno di Scienze politiche,  indirizzo internazionalistico.
Eppure i mass media, a più di un anno di distanza dal referendum  pro Brexit, sembrano ancora  cadere dalle nuvole.  Quanto alla politica,  la destra nazionalista, la stessa che  un tempo evocava la "Perfida Albione", pare  invece approvare, mentre  la sinistra universalista insiste nel condannare il cosiddetto  egoismo inglese.  Per farla breve:  una soap opera,  politica e mediatica.  
In realtà,  è difficile  fare previsioni. Sul piano economico  - al di là delle polemichette del giorno sulle ritorsioni reciproche -  la Gran Bretagna è sufficientemente  integrata nell’economia mondiale, per temere di non reggere ai contraccolpi europei, che comunque ci saranno. Su quello politico, molto dipenderà dal buon senso degli scozzesi e  dalla capacità di mediazione del governo  conservatore. Insomma,   grande è l'incertezza sotto il cielo di Londra.         
Nonostante ciò,  siamo convinti che la Gran Bretagna abbia commesso un errore. Se è vero che l’insularità è la regola e l’europeismo è l’eccezione, è altrettanto vero che dal punto di vista dell’equilibrio europeo, esistono ragioni storiche che avrebbero dovuto spingere Londra a rimanere in Europa  per contrastare l’egemonia tedesca, politica ed economica, come nel passato fece più volte, ma sul piano militare. In questo modo  il Regno Unito  avrebbe continuato a fare i propri interessi, ma anche quelli degli altri stati. Come dire, combattendo dall'interno. E in nome delle libertà, tradizionalmente germinate sul suolo britannico e  abbracciate  in tutto il mondo libero. Contro chi? Contro gli ormai  proverbiali (per alcuni, famigerati) burocrati  socialisti e prussiani di Bruxelles. Invece così, l’Europa viene abbandonata al proprio destino.
Ma non è tutto. Theresa May  ha dichiarato trionfalmente  che il  governo conservatore  obbedirà alla volontà del popolo.  Il che, seppure nobile dal punto di vista dell’etica  democratica,  in pratica cosa significa?  Fumo di Londra.  Che poco meno della metà dei votanti voleva rimanere in Europa. E che quindi la Gran Bretagna è confusa e  divisa.  E che si preparano tempi difficili: there's a bad moon on the rise... 
Concludendo, sarebbe buona regola, per evitare guai, non sottomettere le decisioni di politica estera al voto referendario. Ma così vanno le cose. Purtroppo.  

Carlo Gambescia                 

mercoledì 29 marzo 2017

 La Scozia  chiede il referendum
Europa, prove tecniche di guerra civile?


Perché meravigliarsi del referendum chiesto dalla Scozia? Quando la Gran Bretagna si è comportata nello stesso modo nei riguardi dell’Europa?  Inoltre, in ogni stato nazionale europeo (ma anche altrove), da secoli, esistono minoranze sempre sull'orlo della secessione. Va però anche sottolineato che la febbre referendaria che sta assalendo l’Europa sembra non promettere nulla di buono. Probabilmente parlare di  guerre civili annunciate può apparire eccessivo.  Ma il rischio esiste. Proviamo perciò a capire  meglio  le cose, magari proprio dal punto di vista sociologico e metapolitico.
Diciamo intanto che  non esiste un tasso preciso di conflittualità tra unità politiche in base alle dimensioni: quanto al “formato” politico, piccolo non è bello come non  è bello neppure grande e addirittura “medio”.  Inoltre, non c’è una relazione precisa tra regimi politici e tasso di conflittualità.  Non può però essere negata l’esistenza di una costante o regolarità egemonica, ossia  la naturale tendenza all’accrescimento delle unità politiche: un' azione centripeta cui corrisponde la reazione centrifuga delle unità minacciate di assorbimento, e così via. Perciò  ogni sistema - tendendo alla crescita - vive sempre  in uno stato di tensione politica, motivato dalla contesa tra forze centripete e centrifughe,     
Ora, fra tutte le formule, storicamente usate, per legittimare la costituzione di macro-unità,  la formula democratica dell’autodeterminazione dei popoli in base alla nazionalità è probabilmente la più instabile.  Non che le altre formule (impero, città-stato, comuni mercantili,  signorie e principati o comunque regni regionali, assoluti o temperati) non abbiano inconvenienti, ma  la dinamica democratica, unita a fattori come sovranità del popolo, lingua,  territorio,  rappresenta una sostanza, sociologicamente parlando, analoga alla nitroglicerina.
E per quale ragione? Perché non siamo di fronte, come negli altri regimi citati,  di privilegi e franchigie  che possono essere  revocati (certo, talvolta provocando conflitti), ma di diritti, perciò non di fattori volatili.  Siamo davanti alla proclamazione di un  principio di funzionalità deontologica che, a prescindere dal fatto che possa confliggere o meno con la funzionalità sociologica del processo di  accrescimento,  se richiesto da popolo, deve essere implementato.
Lo sviluppo  e il consolidamento  degli stati nazionali -  che non è altro che un processo di transizione dal micro al macro -  è  storicamente contraddistinto da questi episodi.  Perciò, perché credere che il  processo di unificazione europea, quindi un passaggio, anche storico,  dal micro al macro, sia  esente da reazioni centrifughe,? Reazioni,  che per giunta come nel caso scozzese,  hanno radici lontane e legate a precedenti processi di unificazione?    Se si accetta  una  formula politica imperniata sulla funzionalità deontologica, quindi all'insegna del "costi quel che costi" dell'etica dei princìpi,  non si possono  non mettere in conto le spinte centrifughe, addirittura appoggiate da élites,  anch'esse "dentologicamente" contaminate,  quindi   sempre sul  punto di dividersi.  
Insomma, il dover essere, quale principio e diritto all’autodeterminazione, rischia di incidere, e pesantemente,  sull’essere sociale.  Detto altrimenti:  sulla funzionalità sociologica del consolidamento di una macro-unità (a prescindere dal reale "formato" raggiunto);  funzionalità,  come abbiamo visto, dettata da una tendenza egemonica all'accrescimento, metapoliticamente naturale. Che insomma va al di là della forma di regime.
Ciò però significa che all’interno di una democrazia, la cui formula politica è  basata sul diritto all’autodeterminazione, il contrasto  tra  funzionalità deontologica e funzionalità sociologica (e metapolitica) non è facilmente risolvibile.  Se non con il buon senso da parte di tutti gli attori politici. E quando manca quest’ultimo, inevitabilmente,  con un atto di forza.  Che però può preludere alla guerra civile.

Carlo Gambescia         

                                      

martedì 28 marzo 2017

Il  neoconfessionalismo anti-ludico
Il gioco d’azzardo e i suoi nemici

Un paese di ipocriti, ecco il primo aggettivo che ci viene in mente. Oggi sul Corrierone, padre Gian Antonio Stella, sermoneggia, sciabolando, su una perizia di Paolo Crepet, dove si afferma che,

«non vi sono dati statistici completi ed esaurienti», che è impossibile «stabilire un serio e probativo rapporto di causa/effetto tra il gioco (quale? per quanto tempo?) e gli effetti psicopatologici (quali?)», che i Comuni danno dati imprecisi e insomma che la situazione d’insieme è così complessa e i giocatori così coinvolti in altri problemi che è «difficile sia capire qual è la patologia di partenza sia qual è la prevalente» 

Padre Stella, anzi cinquestelle,  nel  suo sermone  fa  ricorso all’argumentum ad hominem,   perché, come si legge,  il giudizio periziale di  Crepet  sarebbe di parte,  in quanto commissionato  da Lottomatica.  E perciò rivolto a contrastare davanti ai giudici le misure restrittive introdotte dal Comune di Bergamo, il cui sindaco è l’ ex manager televisivo, Giorgio Gori, oggi uomo politico, tutto d'un pezzo, Law & Order. Insomma, secondo il priore  di via Solferino, di regola,  lo scienziato-perito, smette  di essere scienziato,  per indossare l'uniforme del perito e fare  il gioco  del committente...  Che dire?  Purissima scuola del sospetto, falsa coscienza a gogò:  viva Marx, abbasso Max Weber. Continuiamo a farci del male.
Don  Stella, infine, da buon agit-prop pentastellato (per dirla all'antica),  ricorda ai fedeli (lettori) la proposta legislativa  grillina di vietare la pubblicità, misura veramente illuminata,  purtroppo,  “bloccata  da quasi due anni”. Amen. 
Non è di un mezzo prete pentastellato che oggi desideriamo  parlare,  bensì  di un'Italia, dove fino a quando si dicono cose mainstream, come il Crepet Televisivo, si è  celebrati, o comunque invitati, appena però si prova a dire qualcosa controcorrente, anche se scientificamente giustificato, come il Crepet Lottomatica,  si viene trasformati  in nemici del popolo.  E questa è la prima osservazione.
La seconda, per dirla con  il grande Bartali, è che il dibattito pubblico sul gioco d’azzardo è tutto sbagliato, tutto da rifare.  Perché i proibizionisti difendono una visione paternalistica, dal sostrato culturale  cattolico trasmigrato armi e bagagli nel socialismo,  che considera l’individuo  un peccatore che deve essere salvato da se stesso.  Se ci si passa l’espressione: il giocatore è  un pollo da redimere.
E gli antiproibizionisti? In Italia, semplicemente, non esistono. C’è  lo stato  che vuole regolamentare, per ragioni fiscali. Quindi guadagnarci sopra. Regolamentare però  non è liberalizzare: significa tollerare e tassare. Perciò  il giocatore è un pollo da spennare, due volte. Una di troppo diciamo: da parte dello stato biscazziere.
E in mezzo a  questa battaglia  tra missionari, assistenti sociali, agenti delle tasse,  finisce per essere stritolato  non tanto il  Crepet Lottomatica, dalle sette vite dei gatti televisivi, quando il libero agire individuale. Perché il vero problema, fatti salvi i gravi reati penali,  rimane quello di lasciare l’individuo libero di fare ciò che desidera della propria vita.  E poiché la società, nel bene e nel male, si fonda sui meccanismi emulativi, occorre che, se e quando ritenuto nocivo, il  giocatore d'azzardo sia messo ai margini, spontaneamente, dalla società stessa. E come? Attraverso gli effetti selettivi, se e quando  si registreranno,  degli esempi negativi e cumulativi.
Si chiama  "lasciar fare lasciar passare".  In fondo, è un gioco anche questo, ma terribilmente serio.  La società è un meccanismo ludico con vincitori e vinti.   Sicché, la stima è sempre sociale, cioè sono gli altri ad attribuirla,  sanzionando  collettivamente  la  natura di perdente o vincente di ogni singolo. Perciò  se esclusione ci deve essere,  che  il “verdetto”  sia sociale ex post,  sulle reazioni selettive, non  ex ante, pre-selettivo e per giunta di tipo moralistico. La società è di tutti i giocatori “della vita” e, piaccia o meno,  comanda a  se stessa ed emette il verdetto.  Ex  post, così funzionano le cose, sociologicamente parlando.  Le "cappe" morali, quando e se necessarie, è la società stessa a stabilirle, concretamente, in modo autonomo (interno), non il "legislatore" socialista, cattolico, welfarista, eccetera,  sulle basi di astratte ed eteronome (esterne) necessità sociali fissate da questo quel codice ideologico.
Si dirà: ma dilapidando, il giocatore coinvolge altre persone, mogli, figli, amici, eccetera.  È la libertà, bellezza. C’è  sempre un prezzo da pagare. La libertà individuale non mai è gratis. Del resto,  qual è  l’alternativa?  Vietare tutto ciò che può essere pericoloso secondo il prete, l’assistente sociale,  il medico?  Cioè ex ante?   Magari ricorrendo al braccio secolare dello stato?   E che vita sarebbe,  una vita  regolata  dal confessionalismo anti- ludico?

Carlo Gambescia               

         

lunedì 27 marzo 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 27 marzo, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 666/2, autorizzazione CONCISTORO DEGLI INCAPPUCCIATI 7932/3a [Operazione “GRANDE INQUISITORE” N.d.V.] è stato effettuata in data 26/03/2017, ore 8.31, la registrazione delle seguenti conversazioni, tenutesi presso il Cimitero del Verano (Roma).
[omissis]


MORTO UNO: “Cos’era tutto ‘sto baccano, ieri? Chi è morto? Doveva essere un funeralone…”
MORTO DUE: “No, c’era l’Europa.”
MORTA TRE: “Chi?”
MORTO DUE: “L’Europa.”
MORTA TRE: “E’ morta?”
MORTO DUE: “Mannò, compie sessant’anni…”
MORTA TRE: “Be’? Io sono morta a quarantasei…”
MORTO QUATTRO: “Possibile che dobbiamo sempre farci conoscere?”
MORTA TRE: “Alfredo, ricominci?”
MORTO QUATTRO: “No, cara. Come vuoi tu.” [tra sé]: “Manco da morto, oh! Manco da morto mi dà tregua…”
MORTO DUE: “Sessant’anni dai Trattati di Roma. L’Europa unita, sai…”
MORTA TRE: “Ah, ecco. E quelli che facevano baccano, erano pro o contro?”
MORTO DUE: “Contro.”
MORTO QUATTRO: “Pro.”
MORTA TRE: “Insomma: pro o contro?”
MORTO UNO: “Pro e contro. E’ la democrazia, no?”
MORTO QUATTRO [sottovoce] “…è mia moglie…”
MORTA TRE: “Cos’hai detto?”
MORTA TRE: “Niente, cara.”
MORTO UNO: “Ai vivi gli piace, la democrazia, ci si divertono. Uno dice bianco, l’altro dice nero, e così, ridendo e scherzando…”
MORTO DUE: “…finiscono qua.”
[i Morti ridono]
MORTO QUATTRO [sottovoce] “…dove si ricomincia.”
MORTA TRE: [a MORTO QUATTRO] “Ti ho sentito, sai?” [agli ALTRI] “E voi? Siete pro o contro?”
MORTO DUE: “Io contro.”
MORTO QUATTRO: “Io pro.”
MORTA TRE: “Perché?”
MORTO DUE: “Perché scusa, ma chi lo vuole vicino un morto bulgaro, polacco, ungherese? Lituano, finlandese, rumeno? Come fai a scambiarci due parole? Dice, vabbè, in inglese…ma se l’inglese non lo sai? Se non lo sa lui? E se anche lo sapete, è una conversazione in basic English, perdi le sfumature, se fai una battuta quello non ti capisce e viceversa…insomma, finisce che dopo un po’ si resta zitti.”
MORTA TRE: [a MORTO QUATTRO]: “E tu, Alfredo? Tu perché sei pro?”
MORTO QUATTRO: “Per la stessa ragione.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...


sabato 25 marzo 2017

Trattati di Roma,  25 marzo 1957-25 marzo 2017
Viva l’Europa unita!





A Roma nel 1957 erano in sei, come dire,  gli amici al bar.  Anche allora i britannici non c'erano. Oggi invece sono in 28,  anzi 27,  gli stati che, piaccia o meno,  credono nell’Europa.  E che accade?  Invece di essere fieri del miracolo della moneta unica, dinanzi a  secoli di guerre, anche economiche intraeuropee,  si torna a brandire nelle piazze "blindate", come si legge,  la spada  rugginosa del nazionalismo.
Nel “regno della quantità”, per dirla con un tradizionalista intelligente,  la quantità di stati, notevole, che sta dalla parte dell’ Europa unita, sembra invece non contare. Ma allora che "regno della quantità" è?  Contano, si dice, solo i popoli: entità, a dire il vero,  romanticamente mutevole, secondo le ideologie di moda.  E sia pure: "Avanti popolo!".  Però in questo modo si  ritorna al pericoloso e sguaiato linguaggio della nazione armata, prima giacobino, poi fascista e nazista. 
Nel 1945 un’Europa, in macerie, era percorsa da 40 milioni di profughi.  Quanta  strada è stata percorsa da allora?  Tanta.  Di questo si dovrebbe essere consapevoli. E orgogliosi, collettivamente orgogliosi. Soprattutto,  per non  entrare  nel panico ogni volta, come nell'estate del 2015, per due o trecentomila profughi respinti dalla Turchia. 
Si faccia un passo indietro, anzi avanti,  concettuale.  L’Europa si scioglie, ognuno per sé e dio per tutti. Si torna alla stato-nazione dei popoli.  Forse cesserebbe di colpo l’egemonia economica della Germania? No.  Probabilmente,  il marco invece dell’euro,  tornerebbe a contare più di prima.  E per gli altri stati  non resterebbe che tornare a fare la voce grossa, Tradotto:  prima  guerre  monetarie e doganali, poi ammassamento di  truppe al confine...  La nostra situazione economica  - dell’Italia, come degli altri paesi -   non migliorerebbe affatto. All’economia,  purtroppo, non si comanda, se non  - cosa gravissima per quei popoli, così tanto difesi dal sovranismo populista -  sostituendo al ciclo economico del commercio pacifico il ciclo bellico delle conquiste, puntando sui cannoni per rubare il burro degli altri, o peggio ancora, tentando di rubarselo a vicenda. In realtà,  l’alternativa burro o cannoni è falsa: pura merce pacifista. Però, nessun pasto politico è gratis.   Il che significa che il burro, se e quando occorre, va difeso con i cannoni.  E nel caso europeo, pensando in grande, non in piccolo.
Purtroppo, il punto è che l’Europa così com’è,  resta una specie di ibrido politico:  una via di mezzo tra uno stato, con burocrazia comune, catto-socialista,  assai oppressiva, che si occupa, e male, del burro,  e una confederazione a maglie larghe, con le polveri dei cannoni bagnate,  perché   priva  di potere politico decisionale, vero, in politica estera e  difesa comune. 
In realtà, l’Unione Europea, se riuscisse  sul serio  a unirsi politicamente - si pensi  a una  federazione di stati secondo il modello presidenziale della repubblica statunitense, capace di "ingabbiare" politicamente  un presidente tedesco, come ora sta accadendo con Trump -   potrebbe costituirsi come potenza regionale:  una nuova unità,  in chiave globale,  di un  neo-sistema vestfaliano basato non sulle nazioni ma sui blocchi geopolitici. Certo sono processi lunghi, complicati, competitivi,  Ma, come dire, è la democrazia procedurale  e rappresentativa, bellezza!  
Certo,  se alle prime difficoltà, anche serie, si rispolvera il linguaggio di Hitler e Mussolini, all'Europa come potenza vestfaliana non si  giungerà mai.  Se non dopo altre disastrose micro-guerre interne, dove attenzione, come nella spezzettata  Italia  fine XV secolo, ci rivolgerà inevitabilmente "allo straniero":  allora Ludovico il Moro chiese aiuto  a Carlo VIII di Francia, oggi madame  Le Pen e altri ambigui politici populisti rischiano di  andare a prostrarsi  davanti  allo Zar Putin di tutte le Russie.    
Infine,  mai  dimenticare,  che nel neo-sistema internazionale, per blocchi vestfaliani, che  va comunque formandosi, un’Europa frammentata in ridicoli staterelli -  Germania esclusa -  non sarebbe presa sul serio. Per dirla brutalmente: di quale neo-sovranismo degli stati nazionali si va blaterando? Quello della polverizzazione politica europea? Del ruggito dei topolini? 
Viva l’Europa unita! Freude, schöner Götterfunken,/Tochter aus Elysium,/wir betreten feuertrunken,/himmlische, dein Heiligtum!/Deine Zauber binden wieder/was die Mode streng geteilt,/alle Menschen werden Brüder/ wo dein sanfter Flügel weilt. 
                                                                                                                                 Carlo Gambescia

   

venerdì 24 marzo 2017

 Riflessioni
Ipermodernità?




Ieri discutendo su Fb con l’amico Riccardo De Benedetti, fine saggista e collaboratore di "Avvenire", si è parlato di “ipermodernità,  anzi ne ha parlato lui per primo, introducendo il termine nella conversazione.
Stando ai dizionari, il prefisso iper indicherebbe qualcosa di eccessivo, di superiore alla norma.  Quindi, nel caso specifico, troppa modernità.  Rispetto a che cosa però?  Qual è la modernità normale?

L’assenza di risposte univoche
Sul punto, non credo esistano risposte univoche. Diciamo però che la modernità fin dall’inizio ha dovuto subire  gli attacchi esterni di un certo numero di nemici: si pensi all'universo controrivoluzionario, reazionario, tradizionalista, nelle sue varie sfumature religiose o meno, implacabile avversario  della modernità tout court.   Molti suoi  argomenti  sono stati  ripresi, ma in difesa di un’ “altra” modernità,  dal socialismo scientifico, nonché  dalle correnti ecologiste in nome di uno stato stazionario o addirittura della decrescita,  sempre in chiave anti-capitalista. 

Ipermodernità e modernità
Crediamo tuttavia che l’ipermodernità,  sotto il profilo sociologico abbia fatto sempre parte della modernità. L’ipermodernità ha sempre rappresentato, ciclicamente, il lato costruttivista della modernità, politicamente  condensato, pur con sfumature di gravità differenti,  dai giacobini,  dai nazisti, dai comunisti,  dai seguaci del  welfarismo.  Il costruttivismo, come dice la parola stessa,  si propone di costruire, ex novo e dall'alto,  una realtà sociale di volta in volta, contraddistinta dalla perfetta repubblica degli eguali; dalla comunità razziale; dalla società senza classi; dall’individuo protetto dalla culla alla tomba. C’è un lato oscuro, o comunque inquietante della modernità, rappresentato  dai comitati di salute pubblica,  dai  partiti unici,  dalle  burocrazie  rapaci. 

Il lato solare della modernità
E qual è il lato solare della modernità?  Quello che rinvia alla creatività sociale,  frutto di una mano invisibile, che a sua volta rimanda alle micro-decisioni  di milioni, anzi miliardi di uomini,  che liberamente perseguono, come dire, dal basso, i propri interessi e progetti di vita.  All’inizio della modernità il ruolo della creatività sociale non aveva ancora un nome.  In seguito, lo si è sistematizzato. Come?  Una volta considerati gli incredibili sviluppi della società moderna,  lo si è ricondotto nell’alveo  della libertà di pensiero,  della libertà politica,  della libertà economica,  della possibilità di muoversi liberamente, fare i propri affari, esprimere le proprie  preferenze culturali, politiche, ideali,  nella sovranità e nel rispetto della legge, espressione, quest’ultima, di parlamenti e governi, liberamente eletti.

Il liberalismo
L’opera di  “sistematizzazione” teorica e istituzionale,  che ha  assunto il nome di liberalismo,  non è stata semplice:  prima per l' opposizione dei classici nemici della modernità, poi dei costruttivisti di vario colore ideologico (anche di derivazione liberale, come si vedrà nelle nostre conclusioni). 
Ciò che  l’Ottocento chiamò  liberalismo era il  punto di arrivo  di  un processo  politico, economico, sociale, culturale fondato sul riconoscimento, per la prima volta nella storia umana, del ruolo istituzionale, sociologicamente istituzionale,  di quella creatività sociale frutto della  mano invisibile. In questo senso, il liberalismo, storicamente parlando, è un vero esperimento sociale, tuttora in corso, perché è al tempo stesso istituzione politica, quindi rivolta al controllo,  ma di che cosa?  Di una forza sociologicamente incontrollabile:  la creatività umana.  Quindi il liberalismo, a un tempo,  è istituzione e movimento.  Una contraddizione vivente, con una parte utopica, che pure, a differenza di tante contraddittorie utopie-utopie, come dire, a tutto tondo,  assicura agli uomini concrete forme di libertà. E questo è il suo merito. 

La scienza della modernità
La sociologia, scienza nata proprio nell’Ottocento,  in qualche misura,  è la scienza della modernità: della mano invisibile,  ne studia le modalità, le forme, le conseguenze, le reificazioni  nei termini di specifico sociologico.  Si potrebbe dire che la sociologia - ovviamente, la nostra è "una" interpretazione della sociologia -   studia la modernità nei suoi aspetti spontaneisti e costruttivisti, come movimento e istituzione.   
È possibile separare la modernità costruttivista da quella spontaneista?  Sul piano cognitivo, dei tipi ideali, certamente. Come del resto abbiamo fin qui fatto.  Su quello storico e politico no. O comunque resta molto difficile, se non addirittura impossibile. Perché ciò che è ipermodernità per alcuni (gli spontaneisti) è modernità per altri (i costruttivisti). La “norma” muta. E purtroppo la decisione politica ha bisogno di “norme” certe. La decisione, insomma,  rinvia all'istituzione, sacrificando la creatività. 

Ciclicità
Di qui però, l’inevitabile e ciclico ritorno  del costruttivismo, che attinge all’istinto di conservazione degli individui, spesso  portati,  come  natura sociale, a scegliere il certo per l’incerto, sacrificando la creatività della mano invisibile.  Di qui, la prevalenza nelle nostre società di un individualismo protetto dalla stato, che può essere sintetizzato, nel “diritto di avere diritti”. Il che implica la gestione pubblica dei diritti, quindi di costi, tributi, burocrazie e, cosa più grave,  di un ripiegamento nella mistica del sociale, che inevitabilmente sconfina nello statalismo, che è agli antipodi dello spontaneismo della mano invisibile.
L’individualismo protetto porta con sé conflitti redistributivi tra gruppi di pressione,  ristagno economico, sociale, quindi creativo, perché l’egoismo  redistributivo  finisce per prevalere sul bene comune, e di riflesso sulla capacità  produttiva (del Pil come di idee nuove).  Il che implica la sottovalutazione delle questioni esterne al sistema sociale, a cominciare  dall’individuazione del nemico. La politica, insomma, rischia di trasformarsi in pura e semplice gestione dell’esistente. La redistribuzione è monotestica, si basa sul ritorno del medesimo.  Se ci si passa l'espressione, - per banalizzare -  si trasforma  nell' assalto  di torme di incoscienti a una torta che però si fa sempre più piccola. 

Modernità  costruttivista
Non parleremmo perciò di ipermodernità,  ma di modernità costruttivista: uno dei due volti della modernità, quello inquietante. Oggi ben incarnato dall’Unione Europea, assai diversa da quella vagheggiata nei Trattati di Roma.  Un volto che purtroppo rinvia alla regolarità metapolitica istituzione-movimento:  una dinamica che  indica la tensione tra il momento spontaneista e costruttivista  della modernità.
Se la tensione si trasformerà in rottura o sfocerà in  nuovi equilibri è  materia di giudizio personale. Non possediamo alcuna sfera di cristallo. Diciamo però  che le società  hanno necessità sia del momento istituzionale, sia del momento movimentista. Di qui una ciclicità, per contrasti e sintesi,  che in realtà non riguarda solo i moderni, ma ogni dinamica sociale.  Dal momento che le società  non possono essere riassorbite mai interamente nell'uno come nell'altro momento.

Per non concludere
La rivoluzione moderna puntando sul momento creativo (ecco l'esperimento liberale),  ha provocato un contraccolpo costruttivista, anche all'interno del liberalismo stesso. Si pensi al liberalismo macro-archico,  welfarista insomma: una specie di liberalismo protetto. Al quale potrebbe succedere, per reazione,  una rivoluzione creativa e spontaneista, micro-archica o an-archica. Però, come insegna il liberalismo archico, realista,  andrebbe prima individuato e sconfitto  il nemico esterno. Che tra l'altro oggi ci minaccia apertamente. Cosa che il costruttivismo redistributivo, macro-archico ripiegato su se stesso non consente, quale carnefice e complice  di masse crogiolantesi  in un individualismo protetto imbevuto di pacifismo (*).  
E questo può essere un problema. Di sopravvivenza: della modernità in quando tale. E pure del liberalismo.

Carlo Gambescia  
                                       

(*) Su questi temi si veda l'ultimo capitolo del nostro Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza, Edizioni Il Foglio 2016.       

giovedì 23 marzo 2017

 Westminster sotto attacco
Tornare a  Breitenfeld


Quel che è accaduto ieri a Londra, soprattutto per il valore simbolico  di Westminster,  tocca profondamente  la nostra libertà di pensiero, nonché il senso stesso  del  cammino di libertà,  percorso insieme dai popoli europei.  Un’Europa, attenzione, dove  in questi giorni si celebrano i sessant’anni dei Trattati di Roma tra le  annunciate contestazioni di un pugno di estremisti e l'indifferenza dei tanti, forse troppi. La storia maestra,  purtroppo, sembra avere pochi allievi.  E più avanti spiegheremo perché.   
Il terrorismo jihadista che  dopo Berlino e Londra si sta rivelando  capillare e  imprevedibile,  può essere combattuto, come abbiamo più volte scritto, solo alla radice  con operazioni militari in grande stile, capaci di imporre  in Medio Oriente  un ordine e un  equilibrio  condivisi dalle potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina e, come qui si auspica,  Europa unita. 
Servono insomma scelte strategiche, globali  non tattiche e  locali:  terrorismo e  diaspora non potranno  essere combattuti  ritirandosi  nei rispettivi orticelli, aspettando che la bufera passi da sola. Il  combattere però implica  un grande sforzo che va inevitabilmente a collidere  con il ciclo elettorale delle democrazie e  con la vulgata  pacifista.  E tutto ciò  rappresenta  un elemento di debolezza per l’Occidente in particolare.  Un problema, insomma, non insormontabile ma difficile da affrontare.
Purtroppo, sembra andata  perduta  - qui veniamo ai cattivi allievi, soprattutto europei -  la consapevolezza del ruolo strategico della forza militare organizzata,  come concreto  portato storico dei valori dello stato vestfaliano  (sovranità, non interferenza, dottrina dell’equilibrio), di cui l’Europa unita, in un mondo, diviso in blocchi, potrebbe rappresentare il necessario anello storico e geopolitico. 
La pace di Vestfalia (1648) sancì la fine della Guerra dei Trent’anni tra protestanti e cattolici, favorì, anzi legittimò la libertà di religione e in prospettiva di pensiero.  Fu un conflitto terribile  che distrusse la Germania. Furono commesse atrocità dall’una e dall’altra parte.   A Breitenfeld (1631), i protestanti colsero la loro prima grande vittoria, grazie al genio militare di Gustavo II Adolfo, re di Svezia.  Battaglia alla quale tre anni dopo seguì però la sconfitta di Nördlingen.  
Soprattutto per noi europei, oggi in prima linea, il senso storico di quella gigantesca guerra  che a distanza di secoli, e in un clima culturale dominato dal pacifismo, può apparire un’ inutile strage, venne invece  colto dal liberale XIX secolo. Su quel campo di battaglia nel 1831  venne eretto un monumento  alla “ Libertà di pensiero per tutto il mondo” (Glaubens-Freiheit / für die Welt).
I protestanti, difesero la libertà  con le armi,  anche per i cattolici.  E noi dobbiamo difenderla, con le armi, anche  per i musulmani.  Dobbiamo tornare a Breitenfeld.


Carlo Gambescia                

mercoledì 22 marzo 2017

In 25mila alla marcia di "Libera"
Don Ciotti e i balilla rossi dell’antimafia


Si può parlare male di don Ciotti? Che sia  persona dedita totalmente  agli altri è fuori discussione. Che poi sia un buon prete non sta a noi dirlo.  Tuttavia,  nella manifestazione, come dire,  del  “siamo tutti sbirri” ci sono due cose che stonano.
In primo luogo, quanto alla sua causa, si è trattato di  scritte, apparse sui muri, di Locri, indubbiamente città simbolo. Certo scritte  offensive,  ma dove, anche se rozzamente, si chiede lavoro. Ed è  qui che Don Ciotti, prete operaista, “da sempre dalla parte degli ultimi” (*)  si è sicuramente sentito toccato nel profondo. Il che potrebbe spiegare  la contromanifestazione “di massa”, organizzata in meno di 24 ore, all’insegna di un marciare non marcire, molto dannunziano, che curiosamente accomuna il movimentismo di  sinistra e destra  fin dalla nascita,  benché nel caso, per una giusta causa.
Cosa dire? Che, visto che c'erano molti giovani (oltre a sindacalisti, assistenti sociali, insegnanti, eccetera), i balilla rossi dell’antimafia, non ci piacciono. Opinione personale, ovviamente. Ma le piazze, se fossimo don Ciotti, le lasceremmo, per dirla in modo brutale,  ai sovversivi.  Sono  comunque prove di forza, se si vuole “manifestazioni di potenza",  poco cristiane. Non risulta infatti che in Galilea,  al tempo,   fosse di moda protestare in favore di Gesù.  Anzi, come è noto,   l’unica manifestazione “di massa” si concluse al grido del “crucifige”. 
In secondo luogo, perché inculcare nella mente dei  giovani i valori  velenosi dell'anti-capitalismo? Ci spieghiamo subito. Don Ciotti, non ama la società di mercato, al massimo la sopporta.  Per carità,  liberissimo di dirne peste e corna. Fortunatamente,  vive in Italia,  non a Cuba dove gli oppositori non hanno vita facile come nelle “società capitaliste”.  Il problema  però  è che la sua visione della politica è catto-statale:  nel senso di uno stato maestro di giustizia in terra, capace di appoggiarsi  ai preti e alle organizzazioni sociali  pauperisticamente ispirate. Il che probabilmente spinge don Ciotti  a coniugare giustizia sociale e lotta alla mafia. Il suo  sillogismo è  molto semplice, forse semplicistico: la mafia è frutto dell’ingiustizia sociale (premessa maggiore), il capitalismo è ingiusto (premessa minore), ogni capitalista è un mafioso (conclusione). 
Sicché, come si può facilmente intuire, senza  il capitalismo non esisterebbe la mafia. Il sillogismo è devastante, soprattutto per una giovane mente. Inoltre,  poiché  lo stato, altro punto fondamentale, deve combattere l’ingiustizia sociale e quindi il capitalismo, si spalancano le porte a una dannosa visione costruttivista della società.   Insomma, si celebra  uno stato confessionale, giustizialista in senso economico, che deve  marciare,  e non marcire, con i balilla rossi  di  don Ciotti.                  

Carlo Gambescia



martedì 21 marzo 2017


La riflessione
Tradimento delle élite?
Sì, verso la democrazia liberale


Élite contro popolo. Suona bene. E basta.  A questo pensavamo,   assistendo al dibattito televisivo tra candidati  all’Eliseo. Purtroppo,  in Francia, come ormai altrove,  il voto viene presentato, soprattutto dai partiti  estremi, quelli che hanno civettato con il fascismo e il comunismo  e che  oggi si sono dati una riverniciatura populista, viene presentato, dicevamo,  come un voto pro o contro il popolo, pro o contro la globalizzazione, pro o contro la sovranità nazionale.
Chi conosce la storia del Novecento, e più generale i topoi demagogici dei  nemici dell’esperimento liberale, non può non scrollare il capo.  Élite contro popolo?  Come  se  i partiti anti-liberali (perché di questo si tratta),  si pensi al Fn o il M5s,  non avessero quadri,  leader,  ferree  regole interne,  non fossero insomma, strutturati, come tutti i fenomeni politici,  in governati e governanti. Michels,  parlò, a ragione, di ferrea legge dell’oligarchia. L’unica forma possibile di democrazia è di testa. Come scrive Sartori,  è nello scegliere liberamente e con ponderazione la élite che ci governerà.  E ovviamente nell’alternanza tra élite di governo.  Tutto qui. E non è poco, storicamente parlando.
Purtroppo, la politica, con ciclicità impressionante, torna a farsi non con la testa  ma  con la paura. E proprio nelle democrazie, dove una volta scivolati sul piano inclinato della demagogia, ogni  menzogna  sembra essere  buona pur di conquistare voti e afferrare il potere. Di conseguenza,  quando viene meno il senso di responsabilità,  ecco che i partiti  con un inquietante passato fascista e comunista o imbevuti di feroce  e stupido  populismo,  insomma i  nemici da sempre  dell'esperimento liberale, rialzano il capo,  evocando  i  fantasmi del capo carismatico, del nazionalismo, del  protezionismo. Spettri ideologici che rischiano di far presa su folle di elettori,  dominati dalla paura di perdere quel che hanno ( e che quindi non hanno ancora perso, attenzione),  rosi dall’invidia sociale, alla quale si accompagna, regolarmente,  il mito politico  di poter  far a meno dei partiti, dei parlamenti, definiti corrotti, come da antico copione contro-rivoluzionario, filtrato attraverso la tradizione delle tentazioni, ieri fasciste e comuniste, oggi populiste.
Insomma, parliamo del mitema della democrazia diretta e dell'autogoverno, sia organico che consiliare o di base,  destinato inevitabilmente, a sfociare nel governo volontaristico  di un capo carismatico, romanticamente capace di  intuire i bisogni del popolo, senza tante mediazioni politiche e, cosa più grave ancora, di indicare, altro fattore tipico di ogni forma di tirannia, un capro espiatorio. Di ciò,  seppure ancora in fase embrionale,  Trump potrebbe essere  un esempio, Grillo, in Italia, un altro.
Questo non significa che non siano stati commessi errori. Si pensi solo al culto internazionale di quell’ideologia del declino economico, che non ha alcun riscontro nei fatti, e che tuttavia viene largamente accettata dalle stesse classi dirigenti che dovrebbero difendere l’economia di mercato che invece costituisce il punto di forza, storicamente parlando, di ogni progresso economico e sociale.  
Se si dovesse applicare, sul serio, sociologicamente sul serio,  la categoria del tradimento delle élite, allora  si potrebbe parlare del tradimento di quelle élite politiche, conservatrici, socialiste, cristiano-sociali, che  oggi si fanno dettare l’agenda dai movimenti politici populisti. Si pensi, a destra,  ai tory britannici, ai repubblicani francesi, ai centristi italiani; a sinistra, ai laburisti inglesi, ai socialisti francesi e anche al nostro Renzi, che sembra non essersi più ripreso dalla sconfitta referendaria. Un terribile gioco al massacro.
Tradire il popolo significa assecondarne le paure, sposare la demagogia,  mistificare un glorioso passato di progresso economico e sociale, che si prolunga nel presente grazie ai meccanismi dell’economia aperta. E soprattutto significa rinunciare a credere  nella  democrazia liberale e nella necessità  delle istituzioni parlamentari e partitiche. Ciò implica, dal punto di vista delle élite,  il venire meno a quei doveri,  tipici  di una dirigenza,  capace, in quanto tale,  di  usare la testa e non altre parti del corpo.  
La democrazia da sola, soprattutto se diretta, insomma quando evocata nella sua forma mitica,  porta alla demagogia,  al caos,  infine per reazione  alla tirannia.  Si tratta di un meccanismo - quello della dittatura del tiranno come prolungamento della democrazia - temuto fin dall’antichità. Al quale però i moderni hanno saggiamente opposto la democrazia rappresentativa, di scuola liberale: la sola forma di governo in grado di contenere gli istinti bestiali di masse, regolarmente preda della paura, e inclini, quasi  per natura sociale,  al governo di un uomo piuttosto che delle leggi.  
Sicché, concludendo,  ogni  attacco  alla democrazia indiretta, l’unica forma di democrazia possibile, in nome della mitica democrazia diretta,  è un colpo di piccone.  Dal momento che  così facendo si spiana la strada all'idea, cara alla più volgare narrazione democraticista,  che un popolo può governarsi da solo.  O meglio,  governarsi direttamente da sé.  Quindi,  attenzione, se  proprio di tradimento delle élite si vuole parlare, si tratta di un tradimento verso la  democrazia liberale.      


Carlo Gambescia     
                                   

lunedì 20 marzo 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 13 marzo, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 911/1, autorizzazione COPASIR [Operazione “MAI DIRE MAI N.d.V.] è stato effettuata in data 19/03/2017, ore 11.31, la registrazione della seguente conversazione telefonica tra l’ utenza 347***, intestata a BERNASCONI SILVANO, e il telefono pubblico n. 06.**** dal quale parla PERSONA IGNOTA, APPARENTEMENTE DI SESSO FEMMINILE. Sono in corso indagini per appurare l’identità della PERSONA IGNOTA.

[omissis]


BERNASCONI SILVANO: “Pronto?”
PERSONA IGNOTA: [piangendo sommessamente]: “Silvano…Silvano, perché? Perché mi hai abbandonato?”
BERNASCONI SILVANO: “Come? Come, scusi? Ma lei chi è?”
PERSONA IGNOTA: “Mi dai del lei adesso?”
BERNASCONI SILVANO: “Ma chi è, chi sei?!”
PERSONA IGNOTA: “Allora è proprio vero. Neanche mi riconosci.”
BERNASCONI SILVANO [perplesso, dubbioso, un po’ interdetto]: “Guarda, cara, se mi conosci lo sai che io le voci…le facce non le dimentico, ma le voci proprio…”
PERSONA IGNOTA: “Tu non ti dimentichi le tette.”
BERNASCONI SILVANO [ridacchia]: “Anche quelle…su, dimmi chi sei, basta con gli indovinelli…”
PERSONA IGNOTA: “Hai giurato di amarmi davanti a tutti e non ti ricordi chi sono?”
BERNASCONI SILVANO [pausa]: “Veronica? Veronica, sei tu? Cos’è questo scherzo?”
PERSONA IGNOTA: “Non sono Veronica.”
BERNASCONI SILVANO [pausa]: “Senti, io non so chi sei, ma se per caso hai bisogno vieni qui che ne parliamo, d’accordo?”
PERSONA IGNOTA: “Mi vuoi dare dei soldi?”
BERNASCONI SILVANO: “Ma non lo so, tu ne vuoi? Hai bisogno?”
PERSONA IGNOTA: “Ho bisogno sì, ma non dei tuoi soldi.”
BERNASCONI SILVANO: “Ah. [pausa] E di cosa…”
PERSONA IGNOTA: “Ho bisogno di amore.”
BERNASCONI SILVANO [lunga pausa]: “Vedi, cara…posso chiamarti così?”
PERSONA IGNOTA [sospira]: “Fa’ pure. Bugia più bugia meno.”
BERNASCONI SILVANO: “Ma perché…Va bene. Senti. Io…io non sono più capace di darti quello che vuoi. Sì, dico, l’amore. Proprio l’amore, non sono più capace. Mi piacerebbe, sai? Ma non ci riesco più. Il resto sì, il divertimento, la simpatia, l’amicizia, anche il sesso… ”
PERSONA IGNOTA: “…i soldi…”
BERNASCONI SILVANO: “…anche i soldi, certo, cos’hai contro i soldi, si può sapere? L’amore però…no, l’amore non ci riesco più. [pausa] Mi dispiace.”
PERSONA IGNOTA [lunga pausa]: “Va bene. Sei stato sincero, Silvano. Grazie.”
BERNASCONI SILVANO: “Prego.”
PERSONA IGNOTA: “Ti meriti la verità.”
BERNASCONI SILVANO: “Mi dici chi sei?”
PERSONA IGNOTA: “Vedrai che ci arrivi da solo. Hai detto di amarmi in televisione, chiaro e forte, davanti a tutti. Ciao Silvano, addio.”
BERNASCONI SILVANO: “Ma quando mai ho detto che…[lunga pausa] Oh cribbio! ‘ L’Italia, il paese che amo ’! Aspetta! Aspetta, aspetta, ma allora tu sei…”
[La PERSONA IGNOTA ha chiuso la comunicazione NdV]

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...






domenica 19 marzo 2017

Quarta puntata di “Ballando con le stelle”
Faustino il Ballerino e l’Occidente cretino

La vita in fondo  è così,  dolciastra come il leitmotiv del film-oscar di Benigni. Di più: bella e impossibile, talvolta tragica e incomprensibile.  Allora,  perché non ballarci sopra? Sempre avanti si deve andare, anche se per un numero ristretto di metri.  Perché  inarcare il sopracciglio, se un programma come “Ballando con le stelle” riflette la vita?  Molti si chiedono  il perché del travolgente  successo di un format britannico esportato  in una  trentina di paesi:   in Russia, come in Argentina, in Italia come in Finlandia. 
Presto detto: La normalità. Dentro c’è tutto:  canzoni, danza, cosce, vip,  frizzi e lazzi e commozione a buon mercato. Perché meravigliarsi del successo di un programma che è la quintessenza, nel bene e nel male, dell’Occidente così com'è oggi?  Ride, piange, tromba e chiede rispetto con le pistole ad acqua.  Del resto  è il popolo sovrano che vota con il telecomando. Una risata vale una risata. Una lacrima, una lacrima.  Due cosce, due cosce.  Ci si diverte così.  Che male c’è?  Gioco di specchi, per buttarla sulla rifrazione sociologica: un cretino, vale un cretino.  
Ieri sera Vanessa Redgrave e Franco Nero, reduci impolverati della Swinging London, oggi  ospiti “istituzionali”, come si legge,  chiedevano  rispetto,  in un mondo intriso di violenza. Amen.  Lo stesso rispetto che Alba Parietti, di professione  “opinionista” ma dalla coscia lunghissima e claudicante come ballerina, chiedeva ai giudici, sardonici per contratto. Ri-Amen.  
Concorrenti,   tra i quali quest’anno  scopriamo  un immigrato cubano, bravissimo, atleta para-olimpionico, divenuto  cieco per un incidente sul lavoro.  Il top.  Ri-ri-Amen.  E, si badi,  non è il solo caso umano del programma, dove  chemio e chirurgia (non solo estetica),  sembrano  farla da padrone.  Mentre,  forse, servirebbe più respect... O no? Perché in fondo, come si diceva all'inizio, è la vita ad essere dolciastra... E  il materiale umano è quel che è.
Comunque sia, tra  risate, lacrime, insulti e cosce  si arriva all’una di notte.  Ieri sera la giuria ha fatto fuori Fausto Leali, cantante di anni settantadue,  buon professionista con serio repertorio, per l'occasione  rinominato dai giudici, Faustino il Ballerino.  Che fa rima con Occidente cretino.   

Carlo Gambescia          

venerdì 17 marzo 2017

Il Senato respinge la decadenza di  Minzolini
Voto di scambio? È la politica bellezza


La politica è questione di forma o di contenuto?  Impedire  la decadenza di un senatore condannato in via definitiva per peculato è questione di forma o di contenuto?
Dipende da chi sia il senatore.  E soprattutto dalle ragioni politiche che sono dietro la scelta.  Nel  caso di Minzolini,  dietro il voto che ieri ha salvato il senatore di Forza Italia dalla decadenza, c’è il comune desiderio del Pd e di Fi di evitare, in ultima istanza,  qualsiasi crisi che possa portare alle elezioni anticipate, alle quali i due partiti si considerano, per ora,  impreparati.  Quindi, voto di scambio? Sì.
Però, ecco il punto,  si tratta di  una ragione squisitamente politica, perché le elezioni  rinviano alla lotta per il potere; potere che non può essere “agguantato”, se non si è  grado di vincere le elezioni.  Di qui, quelle situazioni armistiziali, di pura opportunità, che gli stessi elettori, ignari della dinamica profonda del ciclo elettorale nelle democrazie stentano a capire.  Un tempo si chiamavano arcana imperii… Noi, più modernamente, come il lettore ben sa,  parliamo di “regolarità” metapolitiche, forme di comportamento e aggregazione che si ripetono nel tempo e che contraddistinguono la politica come lotta per il potere.    
Insomma, la morale  in politica è una risorsa come un’altra. Inutile scandalizzarsi.  Per fare solo un altro esempio, la stessa tempesta giudiziaria,  abbattutasi di recente  sulla “sindaca” di Roma, Virginia Raggi,  in precedenza  condusse  alle dimissioni del sindaco Ignazio Marino. Perché la  Raggi si è salvata, Marino, no?  Per ragioni di opportunità politica.  Allora le elezioni comunali non erano invise a nessun partito, oggi  invece  sono temute da tutte le forze politiche  presenti in  Campidoglio. Quindi, per ora - ecco lo scambio di favori tra forze politiche ufficialmente in contrasto -  la  “sindaca” Raggi rimarrà al suo posto.     
Naturalmente, sul piano retorico, le scelte secondo opportunità politica vengono nascoste sotto l’evocazione  ufficiale dei grandi valori.   Il che però  è un’arma a doppio taglio, perché per un verso incoraggia l’elettore comune a credere che la morale, anzi il moralismo (come vedremo), venga prima della politica, per l’altro rende inspiegabile, se non nei termini di un tradimento dei grandi  ideali, la lotta per il potere, che invece come  insegna che la politica, in quanto riflesso carnivoro degli organismi politici,  viene sempre prima degli ideali morali. 
Di conseguenza, le democrazie, legate appunto al ciclo elettorale che a sua volta poggia  sul principio di legittimità del  popolo sovrano,  subiscono  questa  discrasia tra  ideali e  realtà  in  misura maggiore di altre forme di regime politico. Ci spieghiamo subito. 
Il parlamentare deve farsi rieleggere, e per riuscirvi deve persuadere, e per persuadere  deve promettere, e per promettere è necessario avere qualcosa da offrire sul piano materiale e morale. Pertanto il solo promettere rinvia al mantenimento di una promessa che  porta con sé  il perseguimento dell’  autorevolezza morale  nei termini di uno “specchiato” comportamento politico e sociale. Sicché la morale,  necessariamente “esternalizzata” mediante il comportamento pubblico,  tende a trasformarsi  in risorsa come un’altra e quindi a dover  fare i conti con la lotta politica.  E quindi con il moralismo dell'apparire che conta più dell'essere e con il  meccanismo  double face  trave-pagliuzza-occhio.  Insomma,  una volta accettata la sfida sociale (ecco qual è  la differenza tra il filosofo morale e il politico ), diventa  assai breve  il passo verso la strumentalizzazione moralistica della morale      
Allora, se la morale rischia inevitabilmente di trasformarsi  in  strumento di lotta politica (da usare contro l’avversario) per conquistare il potere,  non restano che due possibilità: o il tacito accordo tra tutte le forze politiche, per un parco uso di essa, o  l’uso strumentale della morale nel contesto  di una lotta politica, di tutti contro tutti,   sulle basi di una visione impolitica.  In realtà però,  esiste anche una terza possibilità: quella del partito che si erge a difensore della morale, o meglio, per così dire,  di una moralistica onestà. E che su questa difesa impernia la sua politica dell’antipolitica. Andando oltre la stessa impoliticità.
In Italia, la Prima Repubblica,  fu distinta da un uso politico,  misurato e convenzionale, della morale, la Seconda,  dalla guerra morale, impolitica, di tutti contro tutti; la Terza, o presunta tale, dalla nascita di un partito dell’antipolitica  che si dichiara il partito dei soli onesti, quindi maestro di morale.
Però, come abbiamo visto, la politica si vendica.  La forma dipende sempre dal contenuto. Il potere, anzi la lotta per il potere,  esige sempre la sua libbra di carne.  Anche da Beppe Grillo.

Carlo Gambescia