venerdì 25 gennaio 2019

Matteo  Salvini tra autonomia della  politica e stato di diritto
Sarà la magistratura
salvarci dal populismo?




Caso Diciotti.  Salvini a processo dal Tribunale dei Ministri.  La destra grida  all’attacco politico, la sinistra celebra indipendenza  della magistratura. Il Giostraio Mancato ride tra i baffi, perché vive di campagne elettorali, sicuro di farla franca, pur gridando alla persecuzione,  mentre  i suoi oppositori   pregustano una possibile, ma non probabile, defenestrazione in stile Berlusconi.
Inutile tentare di difendere le ragioni degli uni e degli altri, il problema è un altro e  più profondo. Quale? Quello della progressiva erosione  dello stato di diritto che risale a Tangentopoli,  ai processi nelle piazze televisive  del 1992-1994. 
A dire il vero, non è  che prima dei trionfi mediatici del pool  milanese,  l’Italia fosse un modello di neutralità  giudiziaria e politica.  Ma la classe dirigente (politica e non) della Prima Repubblica, sapeva saggiamente fin dove spingersi.  Perché, una cosa deve essere chiara: la famosa “autonomia della politica”, di cui tanto si parla oggi,  non è altro che  il   prolungamento della saggezza  e maturità delle classi politiche: un pre-requisito che deve distinguere e accomunare le forze di  maggioranza come di  opposizione. Se viene meno  l’ "immaginazione del disastro", che è  di natura politica (perché va a innervare la sfera decisionale),  su  ciò che potrebbe accadere quando  il saggio equilibrio tra poteri separati  viene a mancare,  il sistema politico liberal-democratico  rischia di  avvitarsi  su stesso e sbriciolarsi come le Torri gemelle.
Insomma, il governo delle leggi non esclude, anzi impone, l'autonomia della politica, come supplemento di saggezza, con conseguenze decisionali (dunque  "autonome").  Lo stato di diritto non è un formula astratta, ma rinvia, non solo al rispetto delle procedure, eccetera, eccetera,  ma alla consapevolezza, condivisa da tutte le forze politiche, che se si forza, in senso giustizialista e antipolitico,  la macchina giuridica,  si rischia  che nessuno creda più nello stato di diritto,  in quanto tale, e  che vi scorga, soprattutto,  uno strumento da  assecondare o meno  in base alle convenienze politiche. E le parole con con cui si ammantano le ragioni rappresentate,  nobili o vili  che siano, sociologicamente parlando, lasciano il tempo che trovano. Pareto le chiamava derivazioni. Detto altrimenti,  razionalizzazioni ex post. Inutile infilarsi in una specie di termitaio ideologico.  
L’Italia, come detto,   è su questa strada da un pezzo.  E  il  populismo giallo-verde, ora al  governo, ne sa qualcosa. Inutile baloccarsi, su possibili fratture intra-giustizialiste tra leghisti e pentastellati: il "grasso" del potere, come si dice, è un cemento fortissimo.  Ma anche le opposizioni, quanto a opportunismo giudiziario, sembra si difendano bene.  Pare, insomma,  che quasi tutti i politici stiano facendo del proprio meglio, come provano anche le prime pagine di oggi, per assecondare  o  criticare la magistratura in base alle necessità politiche del momento. E i giudici, o comunque buona parte,  a loro volta, non si fanno pregare.  Un bel cortocircuito.
Chi scrive,  reputa  Salvini (e accoliti) un pericolo per le istituzioni. Ma la riposta deve essere o  politica, con il voto, frutto di un libero convincimento,  o iperpolitica, ad esempio con  un colpo di stato,  nel senso di  una violazione in piena regola dello  stato di diritto,  in nome però dello stato di eccezione, per poi tornare, una volta superato il pericolo per le istituzioni,  alla normalità liberal-democratica. 
Lasciare invece che sia la magistratura  a fare il lavoro sporco, plaudendo  in linea teorica  ai grandi principi, per poi asservirli in linea pratica all’ideologia,  populista o antipopulista,  significa solo accrescere la confusione, completare la distruzione dello stato di diritto,  fare il gioco degli  agenti  del caos, come Salvini.  Che dalla distruzione dello stato di diritto,  ha  tutto da guadagnare, o comunque da  far mettere a profitto, volente o nolente,  a coloro, probabilmente ancora più eversivi, che potrebbero farsi strada tra le macerie del  terremoto populista.       
Perché quel che è riuscito, in chiave giustizialista, con  Forlani, Craxi, Berlusconi, potrebbe non riuscire con Salvini e Di Maio.  Questa volta sono al potere i populisti.   E  rispetto agli uomini  politici della Prima e della Seconda Repubblica,  esiste  una differenza di specie non di grado.  Ciò significa che  la reazione  dei populisti alle inchieste  della magistratura  potrebbe essere atipica, rispetto alla routine liberal-democratica.  
Cosa vogliamo dire? Che oggi le prime pagine si occupano del Venezuela del populista Maduro, sull'orlo della guerra civile.  Un mondo che  però sembra lontano.  In realtà, non è così.  Basta farsi un giro dalle parti di Palazzo  Chigi.

Carlo Gambescia