Polemiche. Ancora su De André
Chiamala se vuoi, sociologia della
cultura…
Vorrei
tornare su De André, non come argomento in sé, ma quale occasione per mostrare come nelle discussioni, in particolare sui Social, il credere tenda sempre a prevalere sul capire.
Ad
esempio, in molti commenti sfavorevoli al post di ieri (*), si è ricordato il fatto che De André è un grande poeta, perché la poesia, eccetera, eccetera.
Oppure, in altri favorevoli al mio post,
che era un comunista, eccetera,
eccetera. In altri ancora, lo si è
identificato, con la propria adolescenza e formazione, diciamo “con i migliori anni della propria vita”. Altri commentatori, infine, hanno definito l’argomento privo
di importanza. Solo pochi interlocutori hanno colto il senso del mio post.
Che
era ed è quello di indagare un fenomeno sociale. Non di sovrapporre ad esso, ideologie o idee personali, credenze se si vuole. Di conseguenza ho analizzato l’effetto di ricaduta del deandreismo, all’ interno di una società aperta, quella in cui viviamo, dove si ammette e favorisce la critica. Fino a che
punto però la si può favorire? Diciamo che, grazie a un libero senso di
autodisciplina sociale, si dovrebbe evitare quel punto di non ritorno, superato il quale,
la critica da costruttiva diventa dissolutiva, generando comportamenti sociali
che favoriscono ciò che in sociologia si chiama anomia, ossia l’ assenza di
regole sociali: una condizione sociale ( o meglio anti-sociale) che, ovviamente, a sua volta, post-agendo sui comportamenti, contribuisce all'avvitamento involutivo del fenomeno, eccetera, eccetera. Di conseguenza, l'autodifesa anti-anomica è un fatto sociale, non una credenza. Si potrebbe parlare di una specie di riflesso culturale di sopravvivenza che distingue ogni ordine sociale, secondo caratteristiche che gli sono proprie.
Da questo fatto discendono altri fatti. Se le regole di una società aperta, contemplano il diritto di proprietà,
predicarne l’eliminazione, significa andare oltre il punto di non ritorno; se
le regole di una società aperta sanciscono
la libertà economica, chiederne la limitazione, significa andare oltre
il punto di non ritorno; se le regole di una società aperta favoriscono la responsabilità individuale,
celebrare il culto dell’immaturità
innocente, significa andare oltre in punto di non ritorno; se le regole di una società aperta,
favoriscono la cultura del merito, incensare i falliti, significa andare oltre il punto di non ritorno. E così via.
Viene meno, insomma, l'autodifesa anti-anomica della società aperta. Ovviamente, in una società chiusa, dove per principio le critiche non sono gradite, i valori-base sono completamente diversi, pur se minacciati, come in ogni altra forma di società, dal rischio anomico. Detto per inciso, per un De André, la vita in una società chiusa sarebbe stata molto dura.
Viene meno, insomma, l'autodifesa anti-anomica della società aperta. Ovviamente, in una società chiusa, dove per principio le critiche non sono gradite, i valori-base sono completamente diversi, pur se minacciati, come in ogni altra forma di società, dal rischio anomico. Detto per inciso, per un De André, la vita in una società chiusa sarebbe stata molto dura.
Va
però ricordato che nella società
aperta, dal momento che gli uomini non sono marionette razionali, i diversi punti di non ritorno, storicamente parlando, hanno collocazioni differenti, legate alle
tradizioni storiche, al senso di disciplina sociale, alla gravità delle sfide, eccetera, eccetera. Non c’è una regola fissa,
insomma.
Tuttavia, la predica dissolutiva, fine a se stessa,
non giova al mantenimento dell’ordine sociale. Un predicare che fa parte non solo dell’opera di De André,
ma che rinvia al romanticismo, nonché, al decadentismo e nichilismo, come variazioni, in peggio, sul motivo conduttore romantico. Ovviamente, in una società di massa, soprattutto
se aperta (e basata, come deve essere, sul libero mercato), la valorizzazione dei comportamenti sociali dissolutivi, si trasforma inevitabilmente in mode, tendenze e altri fenomeni collettivi. Sicché antieroi, falliti e suicidi sono mitizzati e
celebrati, con effetti di ricaduta che
però possono essere scalarmente devastanti, perché legati al grado di consapevolezza dei valori della
società aperta, storicamente e collettivamente, socializzati e interiorizzati.
Naturalmente,
qui, entra in gioco anche il ruolo delle
élite, con incarichi di governo e non. Se
anch’esse sposano la causa nichilista, la società aperta rischia di avere,
storicamente parlando, i giorni contati. Così accadde negli anni Venti e Trenta del Novecento, così potrebbe accadere oggi.
Ci si chiederà: possibile che un cantautore da
solo, sia la causa di tutto questo? Certo, che no. Ma come parte di un più ampio fenomeno
collettivo, sì. E di questo si occupa la sociologia, in particolare, come ho
scritto ieri, “della cultura”.
Buona domenica a tutti.