Il film di Adam McKay ci spiega, senza volerlo, perché
ha vinto Trump
L’insostenibile leggerezza del liberal
americano
A
chi voglia capire il perché della vittoria di Trump e delle peggiori tradizioni isolazioniste e
populiste americane, consigliamo la visione del film di Adam McKay, Vice - L’uomo nell’ombra dedicato a Dick
Cheney e all’universo ovviamente demonizzato dei neoconservatori americani: novelli frodatori, striscianti intorno a Bush figlio, in perfetto stile dantesco, Malebolge per capirsi.
Adam
McKay, che ha scritto e diretto la pellicola, non ha ovviamente la statura dell'Alighieri, ma quella, bassina, del classico liberal americano, imbevuto di moralismo: del fanatico che non capisce niente di politica. Di riflesso, come accennato, la presidenza
di Bush figlio e le guerre in Afghanistan e Iraq sono ricostruite nello stile di un romanzo criminale, i cui misteriosi fili riconducono a due diabolici burattinai: il “Padrino” Cheney e il “Consigliori” Donald Rumsfeld.
Al
di là della versione, totalmente
rielaborata e appiattita sugli schemi ammuffiti della guerra petrolifera e del
fascismo strisciante interno all’Ammnistrazione Bush, resta un fatto: l’incomprensione, da parte dei liberal, che in politica, soprattutto
se estera, c’è un tempo per la pace e un
tempo per la guerra. Tempistica, per così dire, che gli americani
degli anni Duemila - dopo la tragedia delle Torre Gemelle - compresero perfettamente, al punto di riconfermare Bush e
Cheney (Presidente e Vice Presidente), per un secondo mandato.
Piuttosto i veri errori furono commessi dalla
successiva e irresoluta amministrazione Obama,
invece sacralizzata dai liberal.
Il succo del film è tutto negli ultimi fotogrammi, quando un Dick Cheney “in pensione”, nel corso di un'intervista, dichiara che non
si scuserà mai, perché lui "ha protetto gli americani". Tesi che non fa una
piega. Tuttavia, per il regista liberal ciò significa solo diabolica protervia. Per il realista invece, sacrosanto uso della ragion politica.
L'insistenza, oltre ogni misura, sull’idea del potere sempre e comunque cattivo, anche in tempo di guerra, conduce direttamente al vuoto di potere. Idea che avvelenò anche gli anni della Presidenza Nixon, altro nemico giurato dei liberal americani. E infatti per avere un presidente decente, gli Stati Uniti, dopo Nixon, attesero fino alla vittoria di Reagan.
E
con Obama, un remake politico di
Carter nonostante i fuochi artificiali liberal, è accaduta la stessa cosa. Dopo Carter però arrivò Reagan, mentre dopo Obama,
Trump. Il fatto che gli stessi
repubblicani, e probabilmente anche Cheney,
non lo stimino, significa che si
è toccato il fondo. Tra lo spessore
politico della coppia Nixon-Reagan e quello di
Trump c’è un abisso. I repubblicani lo
hanno capito. I liberal no, come mostra il film di McKay, che, con grande superficialità (e settarismo), mette invece tutti i repubblicani nello stesso calderone puzzolente.
Se
Trump ha vinto, della sua vittoria è (anche) responsabile una cultura liberal che agitando al vento del moralismo la bandiera del pacifismo, ha
smontato qualsiasi visione realista del potere, spianando la strada
al ritorno dell' isolazionismo di massa, che non è altro che il proseguimento del pacifismo
con altri mezzi. Quelli della destra populista. L’esatto contrario, di quel che sostiene Dick Cheney, come si evince dal film, nonostante i pistolotti morali di McKay: per Cheney, clausewitzianamente, la guerra resta una continuazione della politica con altri mezzi, una politica che deve restare, e saldamente, nelle mani delle élite del potere. In qualche misura, nella visione di Cheney, il popolo deve essere difeso, anche da se stesso.
McKay, insomma, ci spiega senza volerlo, le ragioni che hanno portato un populista alla Presidenza degli Stati Uniti con il voto di masse che sognano di prendersi una lunga vacanza dalla storia. Come se gli Stati Uniti fossero la Repubblica di San Marino.
Ovviamente, Trump, ha anche un problemino di rotelle non del tutto a posto. Ma questa è un’altra storia.
Ovviamente, Trump, ha anche un problemino di rotelle non del tutto a posto. Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia