Sociologia dell’antiliberalismo
I profeti della paura
Cosa
distingue un liberale da un antiliberale? Che il primo ritiene che ognuno di noi sappia ciò che è bene per se
stesso, mentre il secondo ritiene di
conoscere ciò che sia bene per tutti.
Si dirà che questa è una distinzione non di sociologia politica ma di filosofia politica.
Si dirà che questa è una distinzione non di sociologia politica ma di filosofia politica.
In
realtà non è così. Ad esempio, si consideri il “Prima gli italiani” di Salvini” o “il
Prima popolo” di Conte e Di Maio. Si dà per scontato che le categorie "italiani" e "popolo" siano un
qualcosa che preceda tutto il resto.
Tradotto: quel che è bene per gli italiani e per il popolo deve essere
bene per tutti. Alle minoranze che non si adeguino restano il silenzio, e
in prospettiva l’esilio, la prigione e l’eliminazione fisica.
Sotto
questo aspetto il Dna del populismo
e del sovranismo è totalitario, dal momento che ritiene che il tutto debba
sempre prevalere sulla parte. Di
qui la pericolosità. Che purtroppo molti non capiscono o non vogliono capire. Probabilmente perché questi falsi profeti della società chiusa non sono che i classici lupi totalitari che amano nascondersi sotto le pelli di agnello dell'amore verso il popolo disprezzato da fantomatiche élite. Usate, ovviamente, come capro espiatorio.
Ma,
allora, se le cose stanno così, il
liberalismo, con quell’enfasi che pone
sulla libertà economica, sui diritti civili, eccetera, non cerca di imporre a
tutti, come bene totalitario, una visione liberale della società? Non è un altro lupo, eccetera, eccetera?
Il
liberalismo si limita a porre le condizioni della libertà, poi saranno i
singoli a scegliere. L’antiliberalismo invece dà per scontato che i singoli non
siano in grado di scegliere, e che le condizioni della libertà siano inutili quando vanno contro la nazione
o il popolo.
Ad
esempio, dal mercato si può uscire, senza rischiare di essere ridotti al
silenzio, esiliati, imprigionati o
uccisi, dalla gabbia totalitaria, della nazione
e del popolo no. Come ben mostra la storia della prima metà del Novecento. E, di rimbalzo, lo straordinario periodo di pace e benessere, edificato della liberal-democrazie nella seconda metà dello stesso secolo.
Ovviamente,
la libertà di scelta è faticosa, perché
impone un alto senso di responsabilità. Però,
nonostante questo, la società liberale non cessa di credere nella possibilità che la libertà sia
un utile esercizio o se si preferisce un metodo per educare le volontà individuale alla libertà. Si chiama autodisciplina. Qualcosa, di interiorizzato, in modo consapevole, che nessuno impone dall'alto.
Il
liberalismo accetta il rischio della libertà, che talvolta può far vincere i
suoi nemici, l’antiliberalismo, rifiuta invece il rischio. E rifiutandolo
uccide lo spirito di libertà, recidendolo
fin dalle radici.
E,
allora, le prepotenze degli oligopoli economici, dei famigerati diritti sociali, spesso imposti dall’alto, come si giustificano con l’esercizio della
libertà?
La
questione è antropologica. L’uomo alla libertà, di regola, preferisce la
sicurezza, anche a costo di rinunciare alla libertà. La società liberale, in
quanto società aperta, è una specie di
isola nell’oceano storico delle società chiuse.
Gli
oligopoli economici e il welfarismo
rappresentano dei compromessi sociali all’interno della società aperta
tra liberalismo e antiliberalismo, dal momento che, per così dire, la pressione
oceanica della società chiusa è sempre
fortissima gioca sul bisogno umano di protezione e sicurezza, che purtroppo è fonte di
conformismo sociale.
Come
si può ora capire in Italia stanno prevalendo i profeti della società chiusa. Che
giocano sulla paura.
Carlo Gambescia