martedì 30 ottobre 2018

No Tav, No Tap e via discorrendo…
È tutta colpa del chilometro zero

Basta leggere qualsiasi storia  sociale  del cibo e dell’alimentazione, per capire subito che L’Italia accanto a   una cucina nazionale, ne ha una regionale, se non addirittura provinciale e comunale. In realtà, la progressiva egemonia mondiale della pizza e degli spaghetti,  rinvia, per le origini, alla fine dell’Ottocento: la coppia vincente  pizza-spaghetti  fu la risposta del Sud  all’ Unificazione.  Un grande sforzo di fare gli italiani, riconquistandoli dal basso, dalla cucina.  Insomma, quello che non fecero le armi lo fecero le paste alimentari e ovviamente l’emigrazione, che tra Otto e Novecento  contribuì a diffondere ciò che oggi, più in generale,  si chiama made in Italy. Ma questa è un'altra storia.
Cosa vogliamo dire? Che la retorica del cibo a chilometro zero ha radici profonde nel  localismo , probabilmente innato, degli italiani, che si sposa,  talvolta  bene, talaltra male,  con il nazionalismo della  pizza e spaghetti.   Tutto a posto allora? No. 
Perché questo provincialismo è profondamente antimoderno e spiega, dal punto di vista politico,  il perché  della forza dei movimenti localistici - poi ovviamente sfruttati, per ricaduta politica da forze nazionali -  come i No Tav, i No Tap, eccetera, eccetera.  L’idea (neppure provata, ma il punto non è questo)  che  "il mangiare locale"   sia più sano,  non è che il riflesso di una mentalità provinciale, che al tempo stesso, viene da lontano,  ben prima dei rigurgiti anti-unificazione, quasi una seconda cultura, che però  fa ottimamente da volano al riflesso carnivoro  localistico e  poi nazionale, dunque di fusione autarchica, che anima i vari movimenti anti-tutto.
Quanti programmi televisivi, radiofonici, per non parlare dei social,  bombardano la gente  con  i vantaggi della filiera locale? Tutti.  L'idea, che, come vedremo, non risale alla Mucca Pazza, può sembrare innocua. Ormai, siamo  dinanzi a  un luogo comune  condiviso dal   novanta per cento degli italiani.  In realtà, l'idea del cibo fai da te,   non è innocua. Anzi,  come per le sigarette, si dovrebbe stampigliare sulle confezioni di cibo locale, che, per secoli, secoli e secoli,  l'autarchia alimentare  ha moltiplicato  solo  fame e  miseria.  Detto altrimenti:  perché non scrivere  su un vassoietto  di melanzane proveniente da Maccarese, l'autarchia nuoce gravemente all'alimentazione ?  E dunque alla salute?
Ci spieghiamo meglio. La globalizzazione del cibo e degli alimenti  ha poco più di due secoli  secoli, però rappresenta  la modernità della pancia piena. Una modernità, che in Italia, per varie ragioni storiche,  ha sempre stentato ad attecchire.  Inutile qui ricordare il  cattolicesimo antiliberale,  i fascisti di  Strapaese,  l'autarchia mussoliniana,  e via  via le   bislacche idee di  Pasolini, Berlinguer  fino al "comprate italiano" di  Salvini e Di Maio e alle psico-sceneggiate collettive  No Tav e  No Tap. 
Dietro la Rivoluzione francese, che fu ovviamente il portato di un grande movimento di idee,   si stagliano però - come insegnano gli storici sociali -   crisi agricole a gogò  e un  complicatissimo commercio dei grani,  tipo quello  genialmente deriso da Benigni e Troisi in "Non ci resta che piangere". Perciò - il lettore prenda fiato - rifiutare , anche se inconsapevolmente a causa del martellamento mediatico la globalizzazione dei flussi di beni alimentari,   in nome di pseudo-valori nazionali e locali (con alle spalle secoli di affamate autarchie),  significa schierarsi in modo irriflessivo, favorendone il sostrato ideologico, dalla parte dei movimenti antimoderni, come i No Tav, i No Tap, e così via. 
Le persone comuni questo non lo sanno, non lo capiscono, non lo vogliono comprendere,  e - semplificando -  salivano come il  proverbiale cane pavloviano al suono del campanello  chilometro zero: quel che  è  vicino è buono, quel che è lontano cattivo. Classica antinomia, irriflessiva, ben spiegata, tra l'altro, dall'antropologia delle società arcaiche. Rinviamo ai libri di Eibl-Eibesfeldt.  
Ovviamente, altra cosa è la ricerca gourmet dei prodotti locali, riservata ai raffinati cultori del cibo. Però, probabilmente, anche la continua  esibizione mediatica dei cosiddetti intellettuali del cibo (critici, chef, conduttori e giornalisti)  che magnificano  in tv  il chilometro zero,  favorisce per emulazione, attraverso un processo   trick down ( di "sgocciolamento" socio-culturale dall'alto verso il basso), il consolidamento collettivo di una  mentalità irriflessiva, perniciosa e sostanzialmente antimoderna.
Riassumendo:  il chilometro zero sta ai No Tav, come  i contenuti  antimoderni  stanno ai movimenti antimoderni.  Si dirà, ma allora la cucina fusion, i ristoranti esotici, eccetera, eccetera?  Sempre pieni? A Torino, Roma, Milano, Bari?   Sono tendenze:   non influiscono sullo zoccolo duro  di un fenomeno sociale di longue durèe come quello del localismo alimentare italiano che  si muove tra locale e nazionale e che ha alle spalle secoli e secoli di spocchiosa autarchia alimentare. E di fame.  

Carlo Gambescia       

                                

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