No Tav, No Tap e via discorrendo…
È tutta colpa del chilometro zero
Basta
leggere qualsiasi storia sociale del cibo e dell’alimentazione, per capire subito che L’Italia accanto a una cucina nazionale, ne ha una regionale, se non addirittura provinciale e comunale. In realtà, la progressiva egemonia
mondiale della pizza e degli spaghetti, rinvia, per le origini, alla fine dell’Ottocento: la coppia vincente pizza-spaghetti fu la risposta del Sud all’ Unificazione. Un grande sforzo di fare gli italiani, riconquistandoli dal basso, dalla cucina. Insomma, quello che non fecero le armi lo fecero le
paste alimentari e ovviamente l’emigrazione,
che tra Otto e Novecento contribuì a diffondere ciò che oggi, più in generale, si chiama made in Italy. Ma questa è un'altra storia.
Cosa
vogliamo dire? Che la retorica del cibo a chilometro zero ha radici profonde nel localismo , probabilmente innato, degli italiani, che si sposa, talvolta bene, talaltra male, con il nazionalismo della pizza e spaghetti. Tutto a posto allora? No.
Perché questo provincialismo è profondamente antimoderno e spiega, dal punto di vista
politico, il perché della forza dei movimenti localistici - poi ovviamente sfruttati,
per ricaduta politica da forze nazionali - come i No Tav, i No Tap, eccetera, eccetera. L’idea (neppure provata, ma il punto non è questo) che "il mangiare locale" sia più sano,
non è che il riflesso di una mentalità provinciale, che al tempo stesso,
viene da lontano, ben prima dei rigurgiti anti-unificazione, quasi una seconda cultura, che però fa ottimamente da volano al riflesso
carnivoro localistico e poi nazionale, dunque di fusione autarchica, che anima i vari movimenti anti-tutto.
Quanti
programmi televisivi, radiofonici, per non parlare dei social, bombardano la gente con i
vantaggi della filiera locale? Tutti. L'idea, che, come vedremo, non risale alla Mucca Pazza, può sembrare innocua. Ormai, siamo dinanzi a un luogo comune condiviso dal novanta per cento degli italiani. In realtà, l'idea del cibo fai da te, non è innocua. Anzi, come per le sigarette, si dovrebbe stampigliare sulle confezioni di cibo locale, che, per secoli, secoli e secoli, l'autarchia alimentare ha moltiplicato solo fame e miseria. Detto altrimenti: perché non scrivere su un vassoietto di melanzane proveniente da Maccarese, l'autarchia nuoce gravemente all'alimentazione ? E dunque alla salute?
Ci spieghiamo meglio. La
globalizzazione del cibo e degli alimenti ha poco più di due secoli secoli, però rappresenta la
modernità della pancia piena. Una modernità, che in Italia, per varie ragioni storiche, ha sempre stentato ad attecchire. Inutile qui ricordare il cattolicesimo antiliberale, i fascisti di Strapaese, l'autarchia mussoliniana, e via via le bislacche idee di Pasolini, Berlinguer fino al "comprate italiano" di Salvini e Di Maio e alle psico-sceneggiate collettive No Tav e No Tap.
Dietro la Rivoluzione francese, che fu ovviamente il portato di un grande movimento di idee, si stagliano però - come insegnano gli storici sociali - crisi agricole a gogò e un complicatissimo commercio dei grani, tipo quello genialmente deriso da Benigni e Troisi in "Non ci resta che piangere". Perciò - il lettore prenda fiato - rifiutare , anche se inconsapevolmente a causa del martellamento mediatico la globalizzazione dei flussi di beni alimentari, in nome di pseudo-valori
nazionali e locali (con alle spalle secoli di affamate autarchie), significa schierarsi in modo irriflessivo,
favorendone il sostrato ideologico, dalla parte dei movimenti antimoderni, come
i No Tav, i No Tap, e così via.
Le
persone comuni questo non lo sanno, non lo capiscono, non lo vogliono comprendere, e - semplificando - salivano come il proverbiale cane pavloviano al suono del campanello chilometro zero: quel che è vicino è buono, quel che è lontano cattivo. Classica antinomia, irriflessiva, ben spiegata, tra l'altro, dall'antropologia delle società arcaiche. Rinviamo ai libri di Eibl-Eibesfeldt.
Ovviamente, altra cosa è la ricerca gourmet dei
prodotti locali, riservata ai raffinati cultori del cibo. Però, probabilmente,
anche la continua esibizione mediatica dei cosiddetti intellettuali del cibo (critici, chef, conduttori e giornalisti) che magnificano in tv il chilometro zero, favorisce per emulazione, attraverso un processo trick down ( di "sgocciolamento" socio-culturale dall'alto verso il basso), il consolidamento collettivo di una mentalità irriflessiva, perniciosa e sostanzialmente antimoderna.
Riassumendo: il chilometro zero sta ai No Tav, come i contenuti antimoderni stanno ai movimenti antimoderni. Si dirà, ma allora la cucina fusion, i ristoranti esotici, eccetera, eccetera? Sempre pieni? A Torino, Roma, Milano, Bari? Sono tendenze: non influiscono sullo zoccolo duro di un fenomeno sociale di longue durèe come quello del localismo alimentare italiano che si muove tra locale e nazionale e che ha alle spalle secoli e secoli di spocchiosa autarchia alimentare. E di fame.
Riassumendo: il chilometro zero sta ai No Tav, come i contenuti antimoderni stanno ai movimenti antimoderni. Si dirà, ma allora la cucina fusion, i ristoranti esotici, eccetera, eccetera? Sempre pieni? A Torino, Roma, Milano, Bari? Sono tendenze: non influiscono sullo zoccolo duro di un fenomeno sociale di longue durèe come quello del localismo alimentare italiano che si muove tra locale e nazionale e che ha alle spalle secoli e secoli di spocchiosa autarchia alimentare. E di fame.
Carlo Gambescia
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