lunedì 30 settembre 2019

Il ritorno di “Che tempo fa”
Forzati  del bene 
contro forzati del male


Ieri sera è ripartita la nave ammiraglia della sinistra buonista  di  “Che tempo fa”. Con   Fabio Fazio e Luciana Littizzetto  al timone,  più pimpanti  che mai,  e  con   Gino Strada e Michela Murgia  tra i primi agguerriti passeggeri.

Crediamo però  che tra il buonismo di Fazio & Co.  e il cattivismo di  Salvini e della destra  razzista  sia pari e patta. Da un lato i forzati  del bene dall’altro i forzati del male.  Sono purtroppo  la brutta  immagine e contro-immagine di un’Italia livorosa, sfacciata e prepotente, che non si accontenta mai di vincere, perché  vuole stravincere, cancellando l’avversario.
Un’Italia politica che grida alla persecuzione, quando è sotto,  salvo poi una volta  al potere comportarsi peggio dell’avversario. La destra voleva licenziare Fazio. Alla fine  si  è accontentata  di un trasferimento del programma  su Rai2.  Poi il governo giallo-verde è caduto e Fazio si è subito vendicato.  Ieri appena tornato in onda, chi ha invitato?  Gino Strada, l’anti-Salvini.
Infierire sul nemico in ginocchio,  dando voce a un personaggio impolitico come Strada, che però viene usato politicamente, significa solo una cosa:   favorire la crescita di un clima d’odio,  già molto accentuato, che  fa il gioco degli opposti estremismi.

C’è un nuovo governo che giustamente e faticosamente sta tentando di cambiare  la politica migratoria salviniana,  che bisogno c’è di infuocare gli animi, invitando Gino Strada?  Un profeta disarmato (e per fortuna) in camice bianco  che  ritiene  che  la distinzione tra diritto d’asilo  e migrazioni economiche sia  una “stupidaggine”?  In realtà, come insegnano gli economisti, si  tratta invece di una   “stupidaggine"  di Strada,  che fa il paio con  il “chiudiamo le frontiere” di Salvini.  Pari e patta, come dicevamo.
Purtroppo, come sembra, sussiste  un ineliminabile surplus di estremismo politico a destra come a sinistra. Un invito all’irrealismo economico  che sembra segnare  il dibattito politico e   influire sul   senso comune delle persone in chiave distorsiva.  Ci si deve schierare, sempre e comunque:  o di qua o di là,  o con Strada o con Salvini.  Se non si avverte l’obbligo di amare tutti, allora per forza li si deve odiare tutti e viceversa.  
Esiste ancora una terza via liberale?

Carlo Gambescia          
  

sabato 28 settembre 2019

La marcia mondiale per il clima
I nuovi mostriciattoli



Cantava Battisti: “Come  può uno scoglio arginare il mare…”.  Che c’entra il grande Lucio  con la manifestazione di ieri?  Che ha visto in prima fila  i nuovi   bambini del dio Pan?
C’entra, eccome.  Perché la nostra società,  che deve la sua fortuna alla libertà di stampa, ne  perirà. Una  libertà faticosamente guadagnata, neppure  due secoli  fa, rischia di morire di catastrofismo: una macabra  visione del mondo che viene alimentata a ondate crescenti dall'irresponsabile allarmismo mediatico. Esiste al riguardo una interessante letteratura sociologica  ovviamente ignorata dagli stessi giornali.    

Pertanto,   come può lo scoglio della ragione e del pensiero critico arginare il quotidiano  mare di notizie catastrofiche, accuratamente scelte,  per  imporre, attraverso il populismo ambientale,   ciò  che di fatto  si trasformerà nel colpo di grazia per l’Occidente. 
Anche il nostro è catastrofismo? No. Perché, cosa che i giornali non dicono, mentre le nostre società, preda di un isterismo  ambientale  infantile, di nome e di fatto,   singhiozzano  su stesse,  il mondo non occidentale, popolazioni  islamiche comprese,  mira  a svilupparsi e perseguire uno stile di vita occidentale, quanto meno per i consumi,  senza tanto rispetto per  quel  taglio dei costi ambientali e distopiche transizioni,  sacralizzati invece in Occidente. 
In Italia, come in altri paesi occidentali,  si sono rivisti i balilla.  Che tristezza sentire i bambini, con le loro vocine affaticate e  strozzate,  urlare slogan illiberali inventati da altri e rilanciati dai media.
Fissi davanti alla  tv,  noi adulti,  con i nostri  piagnistei,  stiamo offrendo il fianco ai  potenti competitori economici e politici dell’Occidente.  Il  triste  spettacolo  dei bambini fanatizzati  -  veri e propri mostriciattoli - dai vecchi nemici del capitalismo, verdi, neri, rossi che siano,  è qualcosa di  tragico e comico al tempo stesso.

Tragico, perché come abbiamo detto, la tanto auspicata regolamentazione ambientalista rischia di uccidere libertà economica, massacrando la produttività,  e  di influire  sulle divisioni politiche interne all’Occidente, rimettendo  in discussione il modello di sviluppo liberale. Sociologia e metapolitica insegnano che il nesso tra emergenze  e dittature è strettissimo.
Comico, perché è l’Occidente stesso, come animato da  una volontà  autodissolutiva,  a rinnegare  i valori  di libertà politica ed economica che lo hanno fatto grande.  Un suicidio collettivo assistito,  che vede protagonisti  quei politici che leccano i piedi ai nemici interni dell’Occidente, vecchi e nuovi:   tutti animati dallo stesso odio verso l’economia di mercato e la libertà economica.
Il che spiega il ruolo cruciale dei mass media, tradizionali e digitali, che invece di difendere i valori che li hanno fatti grandi,  assecondano  le  onde tempestose della burrasca  populista.  Il catastrofismo ambientalista  rischia  di sommergere le istituzioni politiche ed economiche dell’Occidente.


Non osiamo entrare nel merito della questione climatica. Rileviamo però che  la Terra ha miliardi di anni e che la nostra civiltà si  è sviluppata in un periodo interglaciale,  che crediamo sia   tuttora in corso.  Possono due secoli di libera  crescita economica  averlo accentuato?  Non crediamo. Basta aver studiato  un poco di storia universale della Terra e degli  Uomini ( e qui serve la maiuscola, contro l’ olismo d’accatto). La Terra, dicevamo, segue il suo corso, ignorando uomini e dinosauri.  
Si dia  piuttosto un’occhiata alla durata dei precedenti periodi interglaciali: si parla di centinaia e decine di migliaia di anni. Per non parlare  di   una Terra  che ha miliardi di anni e ne ha viste di tutti i colori. E comunque sia,  il trend  plurimillenario  è verso una  nuova  glaciazione. Se proprio al lontanissimo futuro si deve guardare.
Di questo però non si parla. Di plastica e petrolio sì. E  non solo per dare addosso a due beni (la plastica,  geniale  invenzione dell’uomo, il petrolio frutto della fatica umana e del  gusto della scoperta),  ma  per colpire la libertà economica e politica in nome dell’irreggimentazione sociale. Per trasformarci tutti  in quei mostriciattoli di  otto, dieci, dodici anni,  ieri scesi in piazza a comando. Nuova gioventù hitleriana, pronta a denunciare i padri:  la logica politica è la stessa. E come l’altra volta, rischiamo di pagarla cara.
A proposito,   viva la plastica  e  viva il petrolio!             

Carlo Gambescia                     

venerdì 27 settembre 2019

La proposta di Luigi Di Maio sul mandato imperativo
Ci risiamo...

Di Maio evoca nuovamente  l’introduzione del vincolo di mandato. Cosa dire? Che siamo davanti alla riprova di una democrazia liberale in piena crisi.  E cosa più grave che  gli uomini politici che dovrebbero fare da filtro cognitivo a certe proposte populiste, provano di  ragionare  come il cittadino più sprovveduto. 
Ad esempio, il vincolo di mandato, o mandato imperativo,  non è una scoperta di Luigi Di Maio… Nell’Ottocento,  agli esordi europei  della democrazia parlamentare,  si capì subito la pericolosità tendenziale del partito di trasformarsi in fazione.  Esiste tutta una letteratura, da destra a sinistra, pro o contro il mandato imperativo, da Rosmini a Rosenkranz e  da Manzoni a Cavour.
Da parte liberale si temeva  la trasformazione del parlamento, non nel governo dei migliori al servizio di “tutto” il paese,  ma in un campo di battaglia tra "fazioni" inconciliabili.  Di qui l'idea di opporsi a qualsiasi proposta di mandato imperativo, foriero di ancora più feroci divisioni politiche. Solo la garanzia -  si diceva - dell' indipendenza degli eletti dai partiti e perfino dai propri elettori può favorire  la necessaria  serenità cognitiva dei lavori parlamentari.  

Il che spiega, ancora oggi, il divieto di mandato imperativo sancito da molte costituzioni, come la nostra ad esempio. Si tratta di un importante lascito liberale, quasi un deterrente, alla tendenzialmente tersitea democrazia di massa. 
Ovviamente, allora come oggi,  troviamo schierati dalla parte del   mandato imperativo   tutti i nemici della democrazia liberale: nell’Ottocento  la destra cattolica  controrivoluzionaria,  nel Novecento le forze di sinistra, soprattutto  dopo la  nascita dei partiti di massa, fermamente  controllati da segreterie, direzioni e comitati centrali.
E qui va affrontata una questione sgradevole, in particolare di questi tempi, avvelenati dal populismo.   La figura del deputato, che decide in libera coscienza, per poi essere punito o premiato alle elezioni successive, come appunto impone la democrazia liberale,  è forse il  concetto politico  più difficile da capire per la  gente comune, purtroppo incapace costitutivamente di guardare oltre il proprio naso. Siamo giunti al punto che i populisti, come Di Maio ad esempio,  si fanno  vanto di proteggere la "santa ignoranza", perché,  come si sostiene,  le “normali” aspettative politiche della famigerata  "gente",  comprensibili da tutti,  rimandano alla difesa degli interessi concreti e non  degli  interessi astratti "del paese",  usati dalla politica  per imbrogliare le persone comuni, che  non hanno tempo per studiare e informarsi. Insomma, l'ignoranza come scudo politico.   

Se ci si pensa bene,  siano davanti all'ammissione, anche da parte dei populisti, che il concetto, di interesse  generale racchiude e impone  una capacità di astrazione che, piaccia o meno,  la gente comune mostra di non  possedere. E infatti, nell’Ottocento,  il suffragio era ristretto per ragioni di alfabetizzazione ma anche perché le classi dirigenti liberali erano  perfettamente consapevoli, come nella Francia di Guizot,  dei   limiti  cognitivi umani  e del conseguente pericolo di consegnare le nascenti istituzioni parlamentari, alle forze controrivoluzionarie, che dell’impulsiva ignoranza dell gente, facevano bandiera.
Da allora, periodicamente, il pericolo  per così dire della semplificazione cognitiva ad uso dell'elettore di massa,  si è regolarmente riproposto, sfociando nelle durissime  prove tecniche di totalitarismo novecentesche.  Ciò significa, che in realtà  il mandato imperativo serve solo  a  garantire  la prevalenza dei  partiti sugli elettori. Altro che la difesa degli interessi concreti dei cittadini...  E qui  si pensi all'ingannevole meccanismo della Piattaforma Rousseau. Detto altrimenti,  esiste una "ferrea legge dell'oligarchia", teorizzata da Roberto Michels (nella foto),  che può essere addomesticata, come avviene con la democrazia liberale, ma non "abrogata" per così dire con la democrazia diretta o il mandato imperativo.
Di conseguenza,  una classe politica, come l' attuale, che,  oltre a non essere  capace di filtrare le contraddittorie aspettative degli elettori, accetta che  nei suoi quadri parlamentari  figurino  demolitori della democrazia rappresentativa, come Luigi Di Maio,   si scava la fossa da sola.
Si dovrebbe invece  prendere atto che la democrazia liberale non può che  reggersi sul suffragio ristretto, rispettosissimo  delle libertà civili ed economiche, ma geloso delle libertà politiche, passive e attive,  ristrette, queste ultime,  a un tipo di elettore per così dire cognitivo, culturalmente indenne da qualsiasi spirito di fazione,  se non quello aureo  della consapevolezza di   favorire  con il proprio voto, al di là delle differenze tra destra e sinistra, il governo di una aristocrazia politica  capace di servire esclusivamente il paese (*). Virtù che può appartenere solo a  pochi, scelti e coltivati individui.
Una qualità che  ha  illuminato  la  Gran Bretagna.  Ancora viva ai tempi di Margaret Thatcher. E per un certo periodo, sulla sponda laburista, grazie a Blair.   Ovviamente, oggi  le cose cambiate  anche a Londra.  E se sono nei guai i britannici,  figurarsi gli “italici”… 

Carlo Gambescia  


                                                                      

giovedì 26 settembre 2019

Manette agli evasori? 
Una buffonata (ma forse è meglio così)


In Italia, l’idea delle manette agli evasori, che periodicamente viene riproposta dall’ala giacobina della politica, dai tempi preistorici  di  Vanoni,  poi di  Visentini   fino a  Conte e  Di Maio,   fa il paio con la politica dei condoni fiscali.   
Una politica, quest'ultima,  altrettanto ciclica,  ma  più realistica di quella da  stato di polizia fiscale che si nasconde dietro l’idea delle manette. Parliamo di  una misura  punitiva  irrealizzabile e contraria allo spirito e alle lettera di  una società aperta, dove, proprio perché tale   non possono non  circolare liberamente persone, capitali merci.  

Di solito, in Italia,  per attirare il sostegno del livore collettivo verso la ricchezza, odiata e invidiata al tempo stesso, ogni volta che si riparla di manette,  si sottolinea  che la misura riguarderà solo i  grandi evasori. Di qui,  la regolare  introduzione legislativa di “tetti” che, di fatto,  salvaguardano dalle manette il novantacinque per cento dei cittadini.  Insomma, una  buffonata.   
Il che non significa che le manette siano giuste.  
Un poco di storia.  I tributi  hanno odiose origini estorsive, legate al finanziamento delle guerre esterne e al depredamento degli sconfitti. Nel tempo si è però cercato di "normalizzarli" attribuendo alla rapina  uno specie di nobile signficato etico-politico.  E come? Ricorrendo a una  visione  paternalistica della politica, in qualche misura cristianizzata.  Dove,  si dice,  che  lo stato, come un buon padre,  vede e provvede al benessere del cittadino, grazie  al regolare versamento di imposte e tasse.  Pertanto,  il rifiuto o il mancato  pagamento  i tributi  continua ad essere  giudicato  in molti ambienti politici  come  un   tradimento  verso una specie di stato-famiglia. 
Naturalmente, le moderne teorie del contratto, contraddistinte da una concezione individualistica, hanno aggiornato questa logica, trasferendola sul piano del do ut des, della  protezione contro obbedienza.  Sicché,  a stretto rigore (ecco la controindicazione), in caso di basso  redditività politica, il cittadino potrebbe   rifiutarsi di pagare  i tributi: niente protezione, niente obbedienza.  O comunque, come  teorizzato più romanticamente  dai coloni americani, verso la corona inglese,  no taxation without representation
 Principio, quest’ultimo, che però ammette,  uscendo da una logica puramente contrattuale, che lo stato, se legittimamente riconosciuto, possa imporre  tributi ai cittadini.  Pertanto  ci si muove  comunque  in un’ottica, sebbene conflittuale, già  post-individualistica e post-contrattuale perché si riconosce  allo stato, date certe condizioni, il  terribile diritto di tassare.

Come ora  si può capire, la storiella dello stato-famiglia, riciclata in chiave secolare  e moderna da socialisti, comunisti, verdi,  fascisti, statalisti e giustizialisti  di vario genere,  non è poi così lineare, come si vuole far credere.  Anche perché essa fa   leva stupidamente  sull’invidia delle gente verso la ricchezza, giudicata in chiave balzachiana, come regolare  frutto di imbrogli.
Come uscirne? Usando il buon senso.
L’ evasione, se proprio si vuole usare questo brutto termine di tipo carcerario,  resta  collegata alla elevata pressione fiscale. È una forma di giusta autodifesa individuale dall’espropriazione dei propri beni.  Di conseguenza, come mostrano gli ottimi e documentati studi della scuola della  public choise,   meno si paga, meno si evade. 
Il principio è molto semplice, addirittura semplicistico.  Come mai non si applica?  E si preferisce invece sparare (a salve)  contro i grandi evasori?  
Presto detto.   Perché si sa benissimo che  una volta espropriati gli espropriatori,  e inaridita  la fonte primaria della ricchezza sociale, lo stato, comunque affamato di risorse,  dovrebbe   inevitabilmente puntare  la pistola fiscale sul novantacinque  per cento dei cittadini,   smorzandone di colpo l’entusiasmo.   Di qui,  l’attacco alle fonti secondarie , ma non meno importanti,  della ricchezza sociale. Risultato?  L’inevitabile  nascita dello stato servile. Il quale,  generalmente, prima o poi causa le rivoluzioni. Dopo di che, punto a capo e  si ricomincia. 
Ciò spiega, perché l'idea delle  manette agli evasori, o meglio il mito,   non può  non risolversi in una buffonata.  Anche perché, se si decidesse di  andare  fino  in  fondo, sarebbe peggio. 

Carlo Gambescia

                                                                     

mercoledì 25 settembre 2019

   Le spoglie  di Franco saranno trasferite dalla Valle dei Caduti
La Spagna e l’ironia della storia


Prima i fatti. Il testo che segue non ha bisogno di traduzione.

“Hoy, 24 de septiembre de 2019, hemos cerrado simbólicamente el círculo democrático, pues el Tribunal Supremo de España acaba de autorizar la exhumación del dictador Franco del mausoleo público en el que estaba enterrado con honores de Estado. Hoy cerramos por lo tanto un capítulo oscuro de nuestra historia y comenzamos las labores para sacar los restos del dictador Franco de donde han reposado inmoralmente durante demasiado tiempo. Porque ningún enemigo de la democracia merece un lugar de culto ni de respeto institucional. Es una gran victoria de la democracia española”, clamó el presidente (1)


Così all’Onu Pedro Sánchez, il premier  socialista che spera di stravincere alle elezioni di novembre (le quarte in pochi anni).  Si celebra, nella sicurezza di farla franca (non è un gioco di parole), la “chiusura del  processo  democratico”. Le spoglie di Francisco Franco (nella foto a sinistra) vengono spostate  da un mausoleo costruito su suo ordine, come atto di riconciliazione politica, impiegando, si dice, i prigionieri politici. In seguito però oltre ai nazionalisti vi furono inumati  i caduti repubblicani.  
Al trascorrere del tempo, il complesso monumentale della “Valle dei Caduti” ( chiesa e cimitero),   costruito  a qualche chilometro dall'Escorial,  si è in qualche  misura  trasformato  nella memoria collettiva, subendo una specie di "diluizione".  Certo, al riparo della gigantesca croce, la commemorazione delle vittime della  terribile guerra civile non è mai venuta meno. E ovviamente con intenzioni diverse,  nel tempo  però anche turistiche, come notò già all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso  il sociologo statunitense Peter L. Berger (2).  
Tuttavia, al passare del tempo, il senso della distanza dagli eventi, anche nella memoria,  sembrava  avere  avuto la meglio.  La Spagna a poco a poco, pareva   comprendere  che dietro quel terribile conflitto, sociologicamente parlando, si nascondeva una lotta  pro o contro la modernità. Un certo tipo di modernità, liberale e democratica, aliena da ogni estremismo, fascista o marxista.  
Un processo di modernizzazione che Franco, politico intelligentissimo, accortosi della natura inevitabile del fenomeno,  favorì,  almeno  dalla seconda metà degli anni Cinquanta in poi. 
Il Caudillo, per dirla con termine caro ai suoi simpatizzanti,  sapeva che la storia si svolge in modo ironico e paradossale, e che di conseguenza  gli eventi, quando non possono essere arrestati, vanno assecondati. E la modernizzazione  ne era un chiaro  un esempio. Franco, da grande politico avveduto,   fece sua una massima attribuita a Talleyrand: in politica “ surtout pas trop de zèle”. 

Dei  frutti economici indotti, e per reazione culturali,  del franchismo (si dia  solo uno sguardo al vivacissimo  cinema spagnolo degli anni Sessanta), ne ha goduto la successiva democrazia, che altrettanto  intelligentemente,  durante la Transizione e  negli anni Ottanta-Novanta dei governi  socialisti  e democristiani,  puntò, con semplicità,  su una specie di  laicizzazione collettiva del ricordo di Franco e della Guerra Civile. E in che modo?  Lasciando che spontaneamente i  contorni dell’ uomo e degli eventi sfumassero alla stregua degli accadimenti  dell’antica storia greca.  Chi voleva poteva celebrare  gli eroi  di  Salamina, chi non voleva poteva evitarlo (parafrasando  il titolo di un  romanzo di successo).
Con Zapatero e con Sánchez le cose  sono però radicalmente cambiate, e in peggio:  dall’oblio ragionato per così dire, si è passati allo spirito di rivincita, puntando scioccamente   sulla stupida  volontà di  “chiudere il processo democratico”.  Dal momento che, come tronfiamente dichiara Sánchez,   “ ningún enemigo de la democracia merece un lugar de culto ni de respeto institucional”.
Crediamo invece sia notevole il rischio di  riaprire, quantomeno come clima avvelenato,  la  “guerra civile”.  Si legga ad esempio, il commento di Pio Moa, storico vicino al mondo neofranchista,  che parla di profanazione e di tradimento dei veri valori della Spagna profonda (3): un linguaggio politico da 1936.   Scatenato, a dire vero, dallo stolto e inutile revanchismo della sinistra, anch’esso,  in stile “guerra civile”. Probabilmente,  la sinistra  gioca sul fatto, che la Spagna di oggi,  politicamente laicizzata e culturalmente globalizzata, insomma un paese molto diverso da quello del 1936,  non reagirà.  
Il che è possibile. Tuttavia,  il pericolo  xenofobo,  amplificato da un’estrema destra umiliata, può trasformarsi  in devastante collante politico. E  proprio a causa di scelte sbagliate,  come i lo spostamento  delle spoglie di Franco. Una misura che un Talleyrand  redivivo definirebbe impolitica.
Non dimentichiamo che le spoglie  di  Napoleone, altro “dittatore”,  furono invece pubblicamente  inumate nel 1840 , nella Cappella Reale, dell’ Hôtèl National des Invalides,  mausoleo nazionale.  E da chi? Da un  intelligente  liberale come Guizot.  Talleyrand era morto due anni prima, ma lo spirito era  lo stesso. Si guardava  alla riunificazione politica delle Francia  intorno a un  polo moderato.   E Franco, per intelligenza politica, resta  un piccolo Napoleone spagnolo. Che, alla fin fine, sparse meno sangue di Napoleone.
Per contro,  Moa nel suo articolo indica in Vox,  un partito che osservatori e opinionisti  giudicano di estrema destra, l’unica alternativa a una Spagna che vede colpevolmente complici  socialisti e democristiani.        
La storia è ricca di paradossi e di effetti inintenzionali. La Spagna si modernizzò, in qualche misura a prescindere dalle idee di Franco, che intelligentemente capì e si piegò. Ora invece  la Spagna rischia di tornare fascista, o qualcosa di simile,  malgrado  i suoi governanti facciano professione di antifascismo e adottino provvedimenti in linea con le proprie idee. Insomma, né capiscono né si piegano.
Ironie della storia…
Carlo Gambescia

(2)  P. L. Berger, Nella Valle dei Caduti, in Id., Le piramidi del sacrificio. Etica politica e trasformazione sociale, Einaudi, Torino 1981, pp. 276-279. 


martedì 24 settembre 2019

Il  cosiddetto caso Gervasoni
Quando i professori perdono la tramontana…


Di Marco Gervasoni, storico e accademico,  ricordo un libro molto interessante, una storia  degli  anni Ottanta,  nonché  l' ottimo  studio su Gobetti.  Ma ha scritto molte altre cose.  Lo conosco di fama.  E stimo da lontano (1). Anzi stimavo… Perché,  ultimamente, nell’ultimo anno, anno e mezzo,   il professore  ha   perso  la tramontana per la destra, quella  xenofoba  targata Salvini e Meloni. Misteri della psiche umana... O forse no.  La xenofobia, come suo malgrado insegna Tarmo Kunnas,  era uno degli ingredienti intellettuali della "tentazione fascista". E chi scrive crede lo sia ancora.    

Sembra che per questa ragione  - xenofobia esternata attraverso alcuni  tweet (nelle foto) -  la Luiss  non gli abbia rinnovato il contratto. Si tratta di  università privata,  quindi ha il pieno diritto di  assumere e licenziare  chi vuole. Del resto esiste una magistratura civile e del lavoro, alla quale Gervasoni può adire in qualsiasi momento. Tra l'altro, il professore  insegna anche all’Università del Molise,  ateneo  pubblico  che per ora   non ha battuto ciglio.  
Il caso  - se di caso si tratta -   è  giunto, come si diceva un tempo, agli onori della cronaca, perché rilanciato da alcune pubblicazioni che non possono davvero essere definite xenofile:  “Il Primato Nazionale”, sito e rivista  vicini a CasaPound (2);  “La Verità”, quotidiano notoriamente amico degli immigrati... (3); "Il Secolo d'Italia", testata invece storicamente progressista... (4); “Startmag”, giornale online di proprietà dello stesso immobiliarista,  Valter Mainetti,  editore anche  del “Foglio”(5). Mainetti, per la cronaca, voleva silurarne il direttore Claudio Cerasa,  colpevole  di linea editoriale antisovranista e antipopulista.
Tra l’altro, “Startmag” ospita  un post di Alessandro Campi, docente a Perugia,  non molto coraggioso a dire il vero. Dove comunque si “difendicchia” (per dirla con Totò)  Gervasoni,  senza però lesinare parole contro il pensiero unico che epura, eccetera, eccetera (6).  Campi sa benissimo  che  la forza di gravità del buttarla in caciara resta sempre priva conseguenze personali spiacevoli.  Come la leggendaria  mela di Newton. Al massimo un bernoccolo.  E quindi osa...
Inciso interessante: Campi, collaboratore del  “Messaggero” e del  “Mattino”, quando  un anno fa Caltagirone licenziò il direttore della testata napoletana perché contrario a populisti e sovranisti,  si guardò bene dall'intervenire. Alcuni docenti universitari,  dai nomi prestigiosi, scrissero alla proprietà esprimendo i propri dubbi. Campi i suoi -  seppure ne aveva - invece se li tenne per sé (7).  Ora che è toccata a Gervasoni, suo  amico (cosi dice) e sodale ideologico  o quasi, però è  sceso in campo. O meglio, come dicevo, "scendicchiato".   Inciso nell'inciso:  stesso silenzio  - quando si dice il caso... - di Campi e dell'allegra compagnia sovranista-populista, appena citata,  in occasione del licenziamento di Sansonetti da direttore del "Dubbio", ritenuto colpevole dal Consiglio Nazionale Forense, proprietario del giornale, di criticare troppo  il  governo giallo-verde. Insomma, parliamo degli avvocati...  Liberali e  garantisti per antonomasia...  Non in  Italia, ovviamente.   


Qual è il succo di questo mio discorso?  Che  la destra xenofoba  in fondo non difende Gervasoni né la libertà di parola,  ma coglie l’occasione per delegittimare -   sputando veleno -    un sistema politico e culturale, quello liberale, che invece consente a tutti  di esprimersi con la massima libertà. Ma quale persecuzione? Scherziamo?  Il che  spiega il  "cosiddetto" del titolo. 
Le persecuzioni invece, se avesse i “pieni poteri” evocati da Salvini,   le praticherebbe la destra  xenofoba.  Che è tale sul serio,  non a parole. Come dimostra il pensiero unico razzista praticato dal "Capitano" come Ministro dell'Interno.  
Perciò non si scherza con il fuoco. Non possono non esistere, pena la barbarie,  limiti anche alle critiche.  Gervasoni ha approvato pubblicamente l'affondamento della Sea-Watch, come si fa con le navi dei pirati.  E per fortuna, a differenza degli ammiragli di Filippo II,  solo dopo sbarcati uomini, donne e bambini.   O così almeno sembra.
Però si rifletta un momento. Una nave in missione umanitaria che viene ingiustamente  accusata "di traffico di immigrati".  Si falsifica la realtà.  Alla stessa stregua dei  nazisti che accusavano gli ebrei, prima di rinchiuderli nei lager, "di traffico di valuta", per quei pochi spiccioli nascosti in fretta e in furia nelle povere valigie legate con lo spago, poi ritrovate ammonticchiate nei bui magazzini dei campi di sterminio.
Vergogna.  Razzismo e antisemitismo, inevitabili e ripugnanti compagni di merende della xenofobia, sono totalmente e giustamente fuori del discorso pubblico liberale. Il 1945 non è un anno preso a caso,
Insomma, non  siamo davanti  a  un  problema di  provocazioni intellettuali o di  bizzarre  esternazioni dalla cattedra o meno, come sostengono i pelosi  difensori di Gervasoni. Certe cose, ripeto, non si dicono in nessuna sede. Anche perché i professori non staccano mai.  Sono sempre in cattedra anche quando sono in fila al supermercato. O più modernamente dinanzi alla tastiera.
Che certe  banalità pericolose le dica  il  ruspante  giornalaio sotto casa  ha un suo triste perché.  Ma se  a raccontarle è  un professore,  significa che tutti i libri che egli  ha letto non sono serviti a nulla. Né al professore, per l'appunto,  né a chi ascolta,  che, a sua volta,  si sente in diritto di ripeterle a pappagallo, perché le ha sentite dire da un  "professorone dell'Università".
Si chiama cattivo esempio. Ed è imperdonabile. 

Carlo Gambescia      


(1) Qui il  notevole curriculum:  http://docenti.luiss.it/gervasoni/ 


                             


lunedì 23 settembre 2019

Cosa c'è sotto  la campagna di "Repubblica" e  "Stampa" per la  transizione ecologica?

 Finanziamenti pubblici a pioggia….



L’attacco al   libero  mercato  non è condotto  solo dai  marxisti in compagnia di certa sinistra welfarista che si nutre di stato e fondi pubblici. Esiste una destra economica  che si è sempre appoggiata alle pubbliche istituzioni in modo parassitario.  Quella che le tasse, sempre salate,  le scarica sulle  spalle dei cittadini.  
Parliamo di una  destra economica che non è protezionista né liberista.   Lo diventa invece  di volta in volta in base al principio del minimo sforzo. Si tratta di  un mondo  nemico del rischio imprenditoriale. Si pensi, per l’Italia,  alla Fiat:  liberale con Giolitti, fascista con Mussolini, democristiana con De Gasperi, catto-comunista  negli anni  dei governi di solidarietà nazionale,  eccetera, eccetera,  per poi tornare liberista, ma sempre a corrente alternata, dagli anni Ottanta ai nostri giorni.   

Pensiamo - certo,  semplificando  -  di aver reso l’idea.
La stessa argomentazione si può estendere alle altre imprese italiane, in particolare quelle intrecciate ai media come l’attuale  Gruppo  Editoriale L' Espresso (oggi GEDI), proprietario  di “Stampa” e  “Repubblica” e di altre testate, cartacee, televisive,  radiofoniche e digitali. 
Dove vogliamo andare a parare? Semplicissimo. Il mondo imprenditoriale, o meglio certa imprenditoria  che non crede nel mercato fino in fondo e che spera nei  contributi pubblici,  ha scorto  nella cosiddetta  “battaglia per la difesa del pianeta” un nuovo ricco  business per ricevere denari dallo stato.
In realtà,  l’enfasi sulla  “grande transizione” all’ “economia verde” - si veda la copertina monotematica della “Stampa” di oggi, per inciso ieri su “Repubblica” c’era un editoriale di Al Gore -  copre la volontà, neppure tanto nascosta, di favorire   la creazione, da parte dei poteri pubblici  di una bella  tavola apparecchiata, alla quale accomodarsi   per poter  banchettare  a spese di cittadini e imprese per così dire pro-mercato. Pensiamo in particolare  alle aziende, spesso  microscopiche,  che  credono nel mercato e contestano le  pseudo-teorie ecologiche, perché produttive solo di vincoli e balzelli.  E che invece per ragioni dimensionali  non hanno alcuna voce in capitolo.
Qual è il punto ?  A parte l’impossibilità di poter  favorire, come si legge, in pochi anni ( ammesso e non concesso, eccetera, eccetera) un processo del genere,  quel che  rimarrà  di questa campagna disinformativa  sarà una stretta fiscale dalle dimensioni paurose. E in prospettiva, grazie anche a una falsa logica emergenziale, pompata ad arte,  un mostruoso accentramento dei  poteri pubblici.

In qualche misura le imprese con forti propaggini mediatiche, come il  Gruppo L' Espresso,  continuano la guerra del marxismo al capitalismo con altri mezzi: quelli delle sovvenzioni e  delle esenzioni. Modalità, assai scorrette  che invece di favorire la parificazione di rischi e regole tra le imprese,  facilitano  la nascita di colossi monopolistici,  antieconomici e  parassitari.  Macrostrutture, tra l’altro molto burocratizzate,  che, come  ben preconizzò Schumpeter,  possono uccidere il libero mercato e favorire il peggiore  capitalismo di stato. Non proprio alla cinese ma abbastanza vicino.
È in atto una  vera  lotta  concentrica contro il libero mercato, un sistema, si badi,  che non è qualcosa di definitivo, assoluto, statico. Il libero mercato è un meccanismo processuale, storico, dinamico che impone negli imprenditori  il  gusto del rischio. E non l’accomodarsi davanti alla mangiatoia statale.
Una lotta contro il libero mercato,  dicevamo, che vede, divisi ma uniti nel colpire,  da un parte il capitalismo straccione teso a vivere di fondi pubblici, e dall’altra la sinistra rossa e verde, barricadera, da sempre nemica del capitalismo tout court.  Alla quale ultimamente si sono aggiunti i populisti, che promettono addirittura la quadratura del cerchio: la miracolosa  transizione senza tasse per i cittadini. Una balla colossale.    
Buona settimana a tutti.

Carlo Gambescia                       

               

domenica 22 settembre 2019

Liberalismo e tolleranza
Il relativismo e i suoi nemici



La principale accusa  che viene mossa al liberalismo, e  non da oggi,  è quella  di non rispettare la libertà politica degli antiliberali.  Ma chi sono gli antiliberali?
Nell’Ottocento furono considerati  tali  i democratici, repubblicani o meno,  larghissima parte dei cattolici,  i socialisti,  gli anarchici, i comunisti.  Insomma,  tutti coloro che evocavano  la democrazia maggioritaria (repubblicani e democratici), il socialismo di vario genere (socialisti, anarchici, comunisti),  la società autoritaria e/o paternalistica  premoderna (cristiani e cattolici).

Nel Novecento, dopo l’inclusione in quella che oggi viene definita società liberal-democratica (*) di repubblicani, democratici,  socialisti e cattolici,  le vesti dell’antiliberalismo sono state indossate  dai  totalitarismi  marxisti, fascisti, nazisti e  dai  fondamentalismi religiosi, nonché da  quei movimenti politici, per fortuna minori, che mescolano insieme  queste perniciose ideologie.
Di regola, regimi e movimenti totalitari criticavano e  criticano l’atteggiamento liberale di chiusura  verso di essi, rimproverando al liberalismo l’assunzione di un atteggiamento intollerante, quindi contrario - o comunque in contraddizione -   ai suoi principi di libertà di pensiero e tolleranza. Si tratta di una scelta  chiaramente strumentale, da parte di chi sopprimerebbe seduta stante qualsiasi forma di libertà.   
Va detto che oggi,  in linea di principio e di fatto,   le liberal-democrazie  sono fin troppo tolleranti  verso i portatori di una visione antiliberale e  potenzialmente totalitaria.   In Italia a un estremista e razzista  come Matteo Salvini è permesso di sedere in Parlamento e governare.  In Polonia è al governo un partito notoriamente antisemita, come del resto in Ungheria. Anche l'Austria non è da meno.  Negli Stati Uniti, addirittura,  le ultime elezioni hanno premiato un  presidente razzista. E come  noto antisemitismo e razzismo sono due componenti fondamentali  del totalitarismo politico.

Pertanto, ripetiamo,  le liberal-democrazie, contrariamente  a quel che si pensa e si scrive, sono fin troppo tolleranti verso questi movimenti. Addirittura, una parte della liberal-democrazia, in particolare modo quella con radici di sinistra, democratiche e sociali, confida, o meglio aspira,  come  già accaduto con socialisti e cattolici,  di poter ricondurre, con il dialogo e la socializzazione, fascisti, nazisti, marxisti e fondamentalisti nell’alveo della liberal-democrazia.
Probabilmente la conversione politica potrebbe riuscire con  populisti e verdi (entrambi tuttavia portatori di una visione roussoviana dell'ambiente e della democrazia). Insomma, con quei movimenti, che pur incarnando idee  ultrademocratiche, possano a poco a poco accettare la logica delle riforme,come accadde con  repubblicani e socialisti nell’Ottocento e con i cattolici del Novecento. Ovviamente, ripetiamo,  va tenuta presente la componente giacobina del populismo, che  lo  avvicina ai movimenti totalitari e fondamentalisti.
Stando così le cose,  dovrebbe risultare chiaro che 1) le liberal-democrazie sono fino troppo tolleranti, e 2) che molti movimenti antiliberali prosperano proprio grazie a questa tolleranza che permette loro di  propagandare idee intolleranti.

Il  vero  punto ideologico della questione è rappresentato dalla questione del relativismo.
Le liberal-democrazie, in quanto tolleranti, si reggono sul principio "politico"  della  relatività di tutte le credenze e opinioni. Per contro, i movimenti totalitari e fondamentalisti, proprio perché tali, respingono il relativismo politico, rimproverando alla  liberal-democrazia di voler imporre il diritto di credere di non credere. Per il fondamentalista, politico e/o religioso, questo diritto non esiste.
Come si può capire siamo giunti  alla radice del problema. Tra relativismo e fondamentalismo non c’è ponte.  Di qui la necessità, se la società liberal-democratica vuole  continuare a vivere,  di difendersi, e riteniamo giustamente,   dai nemici del relativismo.  Tuttavia  il relativismo,  proprio perché tale, e anche saggiamente per certi versi,  tende a includere, sottovalutando il pericolo.  
Un atteggiamento, che spesso viene scambiato per debolezza. E in effetti  può esserlo. Ma  questa è un’altra storia. 
Carlo Gambescia

(*) Quale fusione, semplificando,  di liberalismo minoritario e democrazia maggioritaria.


                                      

sabato 21 settembre 2019

Un argine liberale contro la demagogia imperante
Ma come? 
"Con questa faccia da straniero…"


Oggi sul “Messaggero”  Luca Ricolfi  parla della  necessità di un argine liberale alla demagogia imperante. Nell’editoriale si accenna al possibile consenso elettorale, tra  il dieci e il venti  per cento. Non poco.
Ma, di preciso,  argine contro che cosa?  Chi  ne voglia sapere di più,  compri “Il Messaggero” e legga.  Forse però  rimarrà deluso. 
Per quel che ci riguarda crediamo che gli  avversari principali, di un auspicabile partito liberale, siano rappresentati, politicamente parlando, dalla destra  nazionalista e razzista,  dagli esagitati  balilla  verdi  e  dal piagnucoloso welfarismo populista, sposato con gaiezza  anche dalla sinistra.  
Ciò che li accomuna è lo statalismo, e ancora di più il costruttivismo, ossia una visione che può essere riassunta da  slogan come “Salviamo il  pianeta” (verdi),  “Più uguaglianza” (populisti e sinistra),  “Fuori  gli stranieri” (destra razzista).
Ovviamente abbiamo semplificato. Ma  dietro le parole d'ordine si nasconde la stessa visione ( e visione rimanda a visionario) della realtà come qualcosa che si possa costruire e ricostruire, secondo disegni precisi implementati dall’alto, con la “scusa” di sapere alla perfezione  ciò che sia bene per ogni singolo cittadino.  E come  vi si riesce? Moltiplicando i poteri dello  stato, quindi accrescendo controlli, tasse e il numero delle leggi capaci di  limitare la circolazione di uomini e merci. 
Si tratta di un disegno contrario alla concezione liberale della vita, concezione che invece scorge nello stato non la soluzione ma il problema, per dirla con un economista famoso.  
Qualche esempio di mentalità costruttivista.

Prodi ieri ha rilasciato un’intervista a “Repubblica” dove parla  della necessità di recuperare 100 miliardi di euro di evasione fiscale per poterli investire - semplifichiamo  -  socialmente.  In realtà,  l’evasione fiscale è una forma di autodifesa dall’oppressione  tributaria.  E ammesso e non concesso che i calcoli siano giusti ( sulla quantità di tasse evase, cosa tutta da provare, perché ogni statistico fornisce  le "sue" cifre),  e che  gli investimenti pubblici creino posti di lavoro (altra cosa,  tutta da dimostrare e per le stesse regioni statistiche),  l’unico vero  modo per combattere l’evasione fiscale è  la riduzione delle tasse stesse (come provano gli studi in materia, e non le statistiche su ordinazione).  E  giammai  lo Stato di Polizia Fiscale. Che  invece rischia di causare  la distruzione di ogni specie  economia in chiaro e in nero.  E la conseguente  fine di ogni forma di diritto di  libertà, a partire dal diritto di proprietà.
Altro esempio di costruttivismo. I cosiddetti “balilla” dell’ambiente (perché la  loro mentalità,  sociologicamente parlando,  è la stessa della  gioventù fascista,  hitleriana, comunista),  ieri hanno festeggiato con grande rilievo mediatico ( e la cosa durerà una settimana, pare) la giornata per la salvezza e difesa del pianeta. Quel che spaventa  di  queste manifestazioni, oltre all’infondatezza scientifica o quantomeno  alla natura controversa delle teorie ecologiste,   è  l’incoscienza  dei più verso il rischio di   fornire argomenti per lo sviluppo di uno  Stato di Polizia Ambientale. Che fa il paio con lo Stato di Polizia Fiscale  suggerito da Prodi e  -  quando si dice il caso - condiviso da verdi, populisti e destra razzista.   
Purtroppo,  c'è  un problema di fondo. Quale?  Che  l’elettorato dell’Occidente sembra ormai governato da una specie di fame di obbedienza, o peggio ancora di vera e propria servitù.  Fattori  come  l’ odio verso la proprietà e  il merito,  come la paura irrazionale verso l’altro, come la sopravvalutazione degli pseudo-pericoli ambientali facilitano la marcia dei nemici della libertà.  

Si pensi solo alla  differenza  che sussiste  tra la forma mentis  di  corsari, marinai, soldati, imprenditori, uomini d’affari,  inventori, scienziati, leader politici, quel  pugno di uomini che nei secoli scorsi conquistò il mondo in nome dei valori di libertà,  e la mentalità delle piagnucolose  masse elettorali di oggi  che votano i  nuovi barbari  populisti, ambientalisti e razzisti nella speranza  di mantenere inalterato il proprio tenore di vita,   rinunciando persino alla libertà.  
Ora, se esiste effettivamente,  come scrive Ridolfi,   un venti per cento di elettori che crede ancora nei valori che fecero grande l’Occidente,  varrebbe la pena di tentare.   Ma dove trovare  un leader che sia  un vero liberale?   Per così dire, all’antica?
Un grande leader liberale, capace di credere e rappresentare quei valori incarnati  da   corsari, marinai,  soldati, imprenditori, uomini d’affari,  inventori, scienziati. Un  pugno di uomini, inizialmente mal giudicati dalla società del tempo, dei non conformisti liquidati come pericolosi estranei. E invece...
Per dirla con i versi di Georges  Moustaki, serve un leader liberale  “con una faccia da straniero,/  che è soltanto  un uomo vero,/  con gli occhi chiari come il  mare,/ capace solo di sognare,/ metà pirata, metà artista,/ un vagabondo musicista che ruba quasi quanto dà”…        

Carlo Gambescia  

venerdì 20 settembre 2019

“Ma che bontà! Ma che Bontà! Che fascista rosso  è questo qua!”


Il titolo del libro di Luciano Garibaldi, Giano Accame nella storia e nella cultura del Novecento  (Solfanelli, pp. 80, euro 9,00), sembrava  promettente, sicché  ho chiesto all'editore  di inviarmi  subito una copia per recensione. E gentilmente Marco Solfanelli, persona che non conosco ma stimo, ha esaudito il mio desiderio.  Aggiungo che confidavo anche nelle capacità di Garibaldi,  bravo giornalista e buon divulgatore storico.     
E invece? Una  delusione  totale.   Innanzitutto per la sua struttura: non si tratta di  un saggio organico  su  ma di un  raccolta  di e su Accame.  Attenzione, testi quasi tutti già pubblicati. 
Forse un  "a cura di"  avrebbe reso meglio l'idea.  Tra l’altro parliamo di testi addirittura reperibili su internet,  come la scontata  voce Wiki   che apre il volume. O come l’immancabile e   salottiera intervista del 2004  concessa da Accame  a Sabelli Fioretti.  Esibita, al solito,  come la medaglietta  di una vedova di guerra durante il  Ventennio.    
Quanto ai   contenuti del volume,  si utilizzano per così dire i filmati di repertorio. Come, pari pari, la rassegna stampa del 2009 uscita all'indomani della morte: roba ingiallita, con coccodrilli e dichiarazioni  varie di umanità ancora più varia.  Il cui  succo ideologico però  ricorda, per parafrasi, una canzonetta  di Mina:  “Ma che bontà! Ma che bontà! Che  fascista rosso  è questo qua!”.  Niente di nuovo, la solita pappina sull'eretico bla bla bla, ma fascistissimo,  che  parlava con tutti. Una specie di Drieu  al rosolio...    
Si aggiungono sette-pagine-sette di Giano Accame  in linea con  i gorgheggi della cantante di Busto Arsizio.  Chiude il volume  un ricordo dello stesso Garibaldi, anticipato in forma  ridotta nel 2008 (nel volume collettaneo per gli Ottant’anni di Accame), sui Gian Burrasca  neofascisti della Genova inizio anni Cinquanta,  a metà  strada tra  Vamba,  Salgari e Giovinezza:  18 pagine su 80.
Pertanto  resta molto difficile  capire  che  tipo di relazione vi sia tra questo centone su Accame, dal valore critico pari a zero,  e  la storia e la cultura del Novecento.                                         

Carlo Gambescia