giovedì 26 settembre 2019

Manette agli evasori? 
Una buffonata (ma forse è meglio così)


In Italia, l’idea delle manette agli evasori, che periodicamente viene riproposta dall’ala giacobina della politica, dai tempi preistorici  di  Vanoni,  poi di  Visentini   fino a  Conte e  Di Maio,   fa il paio con la politica dei condoni fiscali.   
Una politica, quest'ultima,  altrettanto ciclica,  ma  più realistica di quella da  stato di polizia fiscale che si nasconde dietro l’idea delle manette. Parliamo di  una misura  punitiva  irrealizzabile e contraria allo spirito e alle lettera di  una società aperta, dove, proprio perché tale   non possono non  circolare liberamente persone, capitali merci.  

Di solito, in Italia,  per attirare il sostegno del livore collettivo verso la ricchezza, odiata e invidiata al tempo stesso, ogni volta che si riparla di manette,  si sottolinea  che la misura riguarderà solo i  grandi evasori. Di qui,  la regolare  introduzione legislativa di “tetti” che, di fatto,  salvaguardano dalle manette il novantacinque per cento dei cittadini.  Insomma, una  buffonata.   
Il che non significa che le manette siano giuste.  
Un poco di storia.  I tributi  hanno odiose origini estorsive, legate al finanziamento delle guerre esterne e al depredamento degli sconfitti. Nel tempo si è però cercato di "normalizzarli" attribuendo alla rapina  uno specie di nobile signficato etico-politico.  E come? Ricorrendo a una  visione  paternalistica della politica, in qualche misura cristianizzata.  Dove,  si dice,  che  lo stato, come un buon padre,  vede e provvede al benessere del cittadino, grazie  al regolare versamento di imposte e tasse.  Pertanto,  il rifiuto o il mancato  pagamento  i tributi  continua ad essere  giudicato  in molti ambienti politici  come  un   tradimento  verso una specie di stato-famiglia. 
Naturalmente, le moderne teorie del contratto, contraddistinte da una concezione individualistica, hanno aggiornato questa logica, trasferendola sul piano del do ut des, della  protezione contro obbedienza.  Sicché,  a stretto rigore (ecco la controindicazione), in caso di basso  redditività politica, il cittadino potrebbe   rifiutarsi di pagare  i tributi: niente protezione, niente obbedienza.  O comunque, come  teorizzato più romanticamente  dai coloni americani, verso la corona inglese,  no taxation without representation
 Principio, quest’ultimo, che però ammette,  uscendo da una logica puramente contrattuale, che lo stato, se legittimamente riconosciuto, possa imporre  tributi ai cittadini.  Pertanto  ci si muove  comunque  in un’ottica, sebbene conflittuale, già  post-individualistica e post-contrattuale perché si riconosce  allo stato, date certe condizioni, il  terribile diritto di tassare.

Come ora  si può capire, la storiella dello stato-famiglia, riciclata in chiave secolare  e moderna da socialisti, comunisti, verdi,  fascisti, statalisti e giustizialisti  di vario genere,  non è poi così lineare, come si vuole far credere.  Anche perché essa fa   leva stupidamente  sull’invidia delle gente verso la ricchezza, giudicata in chiave balzachiana, come regolare  frutto di imbrogli.
Come uscirne? Usando il buon senso.
L’ evasione, se proprio si vuole usare questo brutto termine di tipo carcerario,  resta  collegata alla elevata pressione fiscale. È una forma di giusta autodifesa individuale dall’espropriazione dei propri beni.  Di conseguenza, come mostrano gli ottimi e documentati studi della scuola della  public choise,   meno si paga, meno si evade. 
Il principio è molto semplice, addirittura semplicistico.  Come mai non si applica?  E si preferisce invece sparare (a salve)  contro i grandi evasori?  
Presto detto.   Perché si sa benissimo che  una volta espropriati gli espropriatori,  e inaridita  la fonte primaria della ricchezza sociale, lo stato, comunque affamato di risorse,  dovrebbe   inevitabilmente puntare  la pistola fiscale sul novantacinque  per cento dei cittadini,   smorzandone di colpo l’entusiasmo.   Di qui,  l’attacco alle fonti secondarie , ma non meno importanti,  della ricchezza sociale. Risultato?  L’inevitabile  nascita dello stato servile. Il quale,  generalmente, prima o poi causa le rivoluzioni. Dopo di che, punto a capo e  si ricomincia. 
Ciò spiega, perché l'idea delle  manette agli evasori, o meglio il mito,   non può  non risolversi in una buffonata.  Anche perché, se si decidesse di  andare  fino  in  fondo, sarebbe peggio. 

Carlo Gambescia