venerdì 27 settembre 2019

La proposta di Luigi Di Maio sul mandato imperativo
Ci risiamo...

Di Maio evoca nuovamente  l’introduzione del vincolo di mandato. Cosa dire? Che siamo davanti alla riprova di una democrazia liberale in piena crisi.  E cosa più grave che  gli uomini politici che dovrebbero fare da filtro cognitivo a certe proposte populiste, provano di  ragionare  come il cittadino più sprovveduto. 
Ad esempio, il vincolo di mandato, o mandato imperativo,  non è una scoperta di Luigi Di Maio… Nell’Ottocento,  agli esordi europei  della democrazia parlamentare,  si capì subito la pericolosità tendenziale del partito di trasformarsi in fazione.  Esiste tutta una letteratura, da destra a sinistra, pro o contro il mandato imperativo, da Rosmini a Rosenkranz e  da Manzoni a Cavour.
Da parte liberale si temeva  la trasformazione del parlamento, non nel governo dei migliori al servizio di “tutto” il paese,  ma in un campo di battaglia tra "fazioni" inconciliabili.  Di qui l'idea di opporsi a qualsiasi proposta di mandato imperativo, foriero di ancora più feroci divisioni politiche. Solo la garanzia -  si diceva - dell' indipendenza degli eletti dai partiti e perfino dai propri elettori può favorire  la necessaria  serenità cognitiva dei lavori parlamentari.  

Il che spiega, ancora oggi, il divieto di mandato imperativo sancito da molte costituzioni, come la nostra ad esempio. Si tratta di un importante lascito liberale, quasi un deterrente, alla tendenzialmente tersitea democrazia di massa. 
Ovviamente, allora come oggi,  troviamo schierati dalla parte del   mandato imperativo   tutti i nemici della democrazia liberale: nell’Ottocento  la destra cattolica  controrivoluzionaria,  nel Novecento le forze di sinistra, soprattutto  dopo la  nascita dei partiti di massa, fermamente  controllati da segreterie, direzioni e comitati centrali.
E qui va affrontata una questione sgradevole, in particolare di questi tempi, avvelenati dal populismo.   La figura del deputato, che decide in libera coscienza, per poi essere punito o premiato alle elezioni successive, come appunto impone la democrazia liberale,  è forse il  concetto politico  più difficile da capire per la  gente comune, purtroppo incapace costitutivamente di guardare oltre il proprio naso. Siamo giunti al punto che i populisti, come Di Maio ad esempio,  si fanno  vanto di proteggere la "santa ignoranza", perché,  come si sostiene,  le “normali” aspettative politiche della famigerata  "gente",  comprensibili da tutti,  rimandano alla difesa degli interessi concreti e non  degli  interessi astratti "del paese",  usati dalla politica  per imbrogliare le persone comuni, che  non hanno tempo per studiare e informarsi. Insomma, l'ignoranza come scudo politico.   

Se ci si pensa bene,  siano davanti all'ammissione, anche da parte dei populisti, che il concetto, di interesse  generale racchiude e impone  una capacità di astrazione che, piaccia o meno,  la gente comune mostra di non  possedere. E infatti, nell’Ottocento,  il suffragio era ristretto per ragioni di alfabetizzazione ma anche perché le classi dirigenti liberali erano  perfettamente consapevoli, come nella Francia di Guizot,  dei   limiti  cognitivi umani  e del conseguente pericolo di consegnare le nascenti istituzioni parlamentari, alle forze controrivoluzionarie, che dell’impulsiva ignoranza dell gente, facevano bandiera.
Da allora, periodicamente, il pericolo  per così dire della semplificazione cognitiva ad uso dell'elettore di massa,  si è regolarmente riproposto, sfociando nelle durissime  prove tecniche di totalitarismo novecentesche.  Ciò significa, che in realtà  il mandato imperativo serve solo  a  garantire  la prevalenza dei  partiti sugli elettori. Altro che la difesa degli interessi concreti dei cittadini...  E qui  si pensi all'ingannevole meccanismo della Piattaforma Rousseau. Detto altrimenti,  esiste una "ferrea legge dell'oligarchia", teorizzata da Roberto Michels (nella foto),  che può essere addomesticata, come avviene con la democrazia liberale, ma non "abrogata" per così dire con la democrazia diretta o il mandato imperativo.
Di conseguenza,  una classe politica, come l' attuale, che,  oltre a non essere  capace di filtrare le contraddittorie aspettative degli elettori, accetta che  nei suoi quadri parlamentari  figurino  demolitori della democrazia rappresentativa, come Luigi Di Maio,   si scava la fossa da sola.
Si dovrebbe invece  prendere atto che la democrazia liberale non può che  reggersi sul suffragio ristretto, rispettosissimo  delle libertà civili ed economiche, ma geloso delle libertà politiche, passive e attive,  ristrette, queste ultime,  a un tipo di elettore per così dire cognitivo, culturalmente indenne da qualsiasi spirito di fazione,  se non quello aureo  della consapevolezza di   favorire  con il proprio voto, al di là delle differenze tra destra e sinistra, il governo di una aristocrazia politica  capace di servire esclusivamente il paese (*). Virtù che può appartenere solo a  pochi, scelti e coltivati individui.
Una qualità che  ha  illuminato  la  Gran Bretagna.  Ancora viva ai tempi di Margaret Thatcher. E per un certo periodo, sulla sponda laburista, grazie a Blair.   Ovviamente, oggi  le cose cambiate  anche a Londra.  E se sono nei guai i britannici,  figurarsi gli “italici”… 

Carlo Gambescia