lunedì 31 dicembre 2018

La riflessione
Povertà e politica




In non poche  dichiarazioni post-approvazione Legge di Bilancio, si legge che con queste misure i poveri, comunque sia, non aumenteranno.  Giorni fa chiacchierando con un  amico, e dopo aver  notato che i nostri i nonni (in senso lato) andavano in giro scalzi,  mi sono sentito rispondere, che se le cose continueranno così saranno i nostri nipoti a dover  rinunciare alle calzature…   
Ecco, la  perfetta  esemplificazione di quella paura di impoverirsi,   che oggi  caratterizza il dibattito politico. Che è altra cosa dalla povertà reale.    Quando  sono però  mutati  i termini della questione? Quando, per la prima volta,  i poveri sono stati messi al  centro della scena politica, da destra, sinistra e centro?  Quando si è cominciato  a usare  il povero,   questa misteriosa   entità inseguita da legioni di statistici, come risorsa politica?  
Probabilmente, il primo fu Marx,  che scorse, sulla base di una teoria pseudo-scientifica, nella pauperizzazione, la causa  che avrebbe condotto alla rivoluzione socialista, eccetera, eccetera.
Da allora,  il mito del povero,  e per reazione, la questione  di  non riuscire a contrastare la povertà, da parte dei riformisti, oppure  di favorirla per semplificare la transizione al socialismo, da parte dei rivoluzionari,   si sono ritrovati  catapultati  al centro del dibattito politico. Da allora,   tutti si sono contesi i poveri:  conservatori,  liberali, socialisti comunisti, fascisti, nazisti.  In particolare la storia del Novecento potrebbe essere riletta come il   gigantesco scenario di una lotta  alla povertà. Reinventata, però. 
Perché parlare di reinvenzione della povertà?   In realtà,  grazie alla mano invisibile dell’economia, guidata dalla libertà di commercio e di intrapresa, ma anche di lavoro, studio, cultura, che ha mosso  milioni anzi miliardi  di individui  sparsi nel mondo, il reddito complessivo è  aumentato e i poveri sono diminuiti in senso assoluto, prima in Occidente e poi nel resto del globo.  Sicché, cosa è accaduto?  Con il  numero dei poveri  che andava  riducendosi,  si è dovuto cominciare a parlare di povertà relativa, non più assoluta, legata quindi  alle condizione sociali dei diversi contesti: di nuovi poveri, nuove povertà, eccetera, eccetera.  Tutti giri di parole, per costruire basi politiche per la conquista del potere. I poveri, come risorsa politica..  
Di fatto però,  soprattutto in Occidente, con la diminuzione sia  della povertà assoluta, sia di quella relativa,  il numero dei poveri, per così dire veri,  si è elettoralmente ristretto. Di qui,  il grande escamotage politico:  il ritorno all’idea (in principio  marxiana)  di  pauperizzazione,  ma solo per spaventare il ceto medio  e guadagnarne, come detto,  i voti.   Si tratta, in realtà, di una  crisi, quella del ceto medio, di cui si   parla da più di trent’anni e che, come la famosa Titina, tutti  cercano, manipolando dati su dati,  ma nessuno riesce a trovare-provare.
Come afferma una nota legge  sociologica, se gli uomini percepiscono  una situazione come reale, quella situazione,  da immaginaria, rischia di  diventare  subito reale.  Di qui, quella paura estesa, frutto dell'immaginazione,  che però si proietta  in qualcosa di concreto,  come i comportamenti di un ceto medio che, una volta prigioniero  del timore  di impoverirsi,  si incattivisce.
Ciò significa che le attuali politiche per contrastare le povertà hanno un valore figurativo:  non rinviano alla realtà, ma a una rappresentazione  della realtà, reinvenzione per l'appunto,  fondata,   sulla sempre più diffusa   paura  di perdere ciò che si ha.  Dunque non al povero, che già di per sé è un'entita stratta,  ma al presunto impoverimento di soggetti che in realtà sono tutt'altro che poveri.  
Il che spiega il risentimento sociale verso  chi sia immediatamente sopra,   nonché  corporativismi e divisioni sociali. E cosa fondamentale, spiega perché il quadro politico si sia  spostato a destra, in direzione dei movimento populisti. Puro egoismo sociale, insomma.  E il peggio potrebbe ancora venire.   E -  non sia mai…  -  in nome di una nobile causa: la povertà.  
Carlo Gambescia

                                            

domenica 30 dicembre 2018

Riflessioni di fine anno
2019? Nel segno dell’Idiota Collettivo

Inutile indagare i contenuti della finanziaria  che sta per essere approvata in via definitiva. Non accontenta nessuno.  Né Bruxelles, né  le opposizioni,  né i moderati né gli estremisti, interni ed esterni alla maggioranza  di governo. Di sicuro,  si sa  che i tributi non diminuiranno, perché  si dovrà  dare in pasto all’elettorato penta-leghista le due misure, più rappresentative, del Governo del Popolo (con le iniziali maiuscole, non sia mai...): reddito di cittadinanza e riduzione dell’età per andare in pensione. Due provvedimenti inutili, ai fini del rilancio dell’economia (ammesso e non concesso che la si possa rilanciare “da tavolino”), di cui, tra l'altro,   non si conosce ancora l' articolazione.
Il  bilancio di fine anno e di questi primi sette mesi dell’Italia in giallo-verde  è a dir poco fallimentare:  al di là dei rutti  razzisti di Matteo  Salvini e delle sciocchezze stratosferiche di Luigi  Di Maio,  per parafrasare un vecchio film, sotto il vestito  niente. Ciò però  non toglie che grazie alla montagna di stupidità condivise, anche elettoralmente,  l'Italia sia in piena  fase pre-recessiva.
Tuttavia, i due campioni del populismo qualcosa hanno combinato. Non di buono, ovviamente. Il Governo, come una specie di compagnia ideologica di giro, di cui Conte è solo l'attor giovane (politicamente giovane),  ha contribuito all’incattivimento sistematico  degli italiani:  non serve essere sociologi, per osservare come  la gente, la famigerata “geeente”, coccolata per anni nelle  demenziali piazze televisive, coltivi  ormai un odio biblico,  degno delle livorose folle pre-hitleriane -  come, tra l'altro, notava l’ amico Fabio Brotto -  per tutto ciò che sappia di istituzionale  e di alta formazione professionale.
Per ora,  il Governo giallo-verde,  riesce  a tenere a bada, con dosi massicce di populismo  lo scontento generale verso ogni principio meritocratico.  Indicando nelle élite e nei “negri” i nemici principali.  Una volta eliminati, o comunque messi a posto, ricchi, professori e immigrati  -   questa è la  “narrazione” -   per  gli italiani,   ovviamente non per i “negri”,  si aprirà  un periodo di prosperità. E l’Idiota  Collettivo   - la “geeente” ottusa di cui sopra -   sembra credere in tutto questo.   
C'è però un problema:    una volta messa  in discussione ogni forma di eterogeneità  sociale, che non è  un' invenzione dei cattivi ma un principio organizzativo naturale che distingue qualsiasi società a  prescindere dalla forma di regime politico, si corre il rischio di aprire le porte non al benessere,  ma all’ anarchia sociale. Che,  come conferma la natura a spirale dei fenomeni sociali, impone, nei suoi esiti,  come alternativa alla dissoluzione, la dittatura.  
Ciò che vogliamo dire è che  Salvini e Di Maio, seppure pessimi,  potrebbero essere solo il primo passo verso una trasformazione  in senso autoritario, se non totalitario, della società italiana. Sono  gli agenti di un caos, di cui potrebbero beneficiare, forze politiche ancora più radicali,  apertamente fasciste,  come CasaPound, Forza Nuova, eccetera, eccetera.
In questa situazione le Opposizioni,  formalmente divise,  non aiutano.  Perché,  come provano le manifestazioni di ieri,  fuori e dentro la Camera, Forza Italia e Partito Democratico  sembrano invece condividere gli stessi  valori  populisti della Maggioranza giallo-verde. Una tragedia politica: tutti i partiti,  anche quando balbettano, privilegiano  lo stesso vernacolo  populista.
Come si può allora capire, il 2018 lascia una pesante eredità politica, non tanto sulle spalle degli italiani,  che sembrano non capire in quale razza di   vicolo cieco il Paese si  sta  infilando. Ma  di quei pochi, che si rendono conto, come chi scrive,  che  siamo solo all’inizio di un pericoloso processo di dissoluzione sociale e politica, che rischia di abbattere  la democrazia liberale e  la società aperta. E, attenzione, non solo in Italia. 
Nutrire  la consapevolezza del  pericolo, in un contesto dove si ripetono le stesse dannose sciocchezze, titillando gli umori plebei dell' l’Idiota Collettivo,  è un bel peso per l’anima e per l’intelligenza.  Ci si sente inutili.  
Carlo Gambescia  
                                                                             

             

sabato 29 dicembre 2018

I gravi incidenti di  San Siro
Il tifo calcistico, tra  hobbismo e passionalismo sportivo




Ci piacerebbe conoscere  provenienza e condizione sociale di coloro che allo stadio intonano cori razzisti e poi si scontrano violentemente tra di loro…  Domanda retorica. Perché si sa che il tifo violento  pesca i suoi adepti tra i disadattati sociali.  In genere - parliamo dei più pericolosi -  persone schedate o note alla polizia. Che, quindi potrebbero, essere messe, senza troppi problemi in condizioni di non nuocere. O quanto meno  di non influenzare, con messaggi violenti, altri disadattati  meno inclini al passaggio all’atto. 
Il tifo calcistico estremo si è  sviluppato come un’ escrescenza velenosa, sulla già cattiva pianta del romanticismo sportivo.  Per certi aspetti è stato tollerato se non incoraggiato  dalle stesse società calcistiche per ragioni organizzative  e di proselitismo. Del resto,  come in altri territori del sociale, anche nel calcio esistono  “tradizioni inventate”,  che a prescindere dal fondamento,  vengono credute e ritenute vere.  Di qui, due modalità interpretative  del fatto sportivo:  quella  dell’  hobbismo  calcistico, che implica però la presa di distanza dal fenomeno (“È solo calcio, c’è tutto un mondo intorno”); quella del passionalismo calcistico (“Senza la mia squadra, non potrei vivere”) che, nel caso  di soggetti disadattati,  accresce, e di molto,   il  rischio  di  devianza.
Di conseguenza,  sul piano mediatico  andrebbe incoraggiato l’hobbismo calcistico, evitando di enfatizzare  il passionalismo.   Il che,  però, stando a quel che si vede e si sente, sembra risultare quasi impossibile.  Probabilmente, sul  mondo del calcio, e su  tutto quello che vi ruota intorno, influisce, nel bene come nel male,  la qualità del discorso pubblico, assai peggiorata negli ultimi venticinque anni (non solo in Italia). Sicché, anche  il crescente razzismo, che sembra circolare tra gli strati sociali meno  acculturati e istruiti,  non può non svolgere la sua parte, soprattutto, tra i disadattati, predisposti all’atto. Ci si chiederà  come mai, ciò  accada  nel calcio e non in altri sport.  Probabilmente, il coefficiente di bellicosità civile dipende dai livelli  di popolarità e comprensione sociale delle regole di una disciplina sportiva.  Ma influiscono anche le divisioni tra subculture localistiche. Massime in Italia.       
In  qualche misura, tuttavia,  tra tifo violento e tasso di populismo sociale e politico potrebbe esservci una relazione, non in termini di causa-effetto, ma  sicuramente  concausale.
Di conseguenza, perché meravigliarsi di un Matteo Salvini, populista e  Vice Presidente del Consiglio, che rifiuta di condannare  il  passionalismo sportivo?

Carlo Gambescia                  

venerdì 28 dicembre 2018

Tassa sul volontariato
Allarmi son tornati!





Nell’immaginario di estrema destra, la Caritas è un centro raccolta di comunisti, un’organizzazione pseudo-umanitaria,  che,  secondo  il   cervello dei dementi  che sognano nuovi Mussolini  e Hitler, favorirebbe quel  processo di “sostituzione dei  popoli europei”, sull’agenda, ovviamente, delle “élite mondialiste”, tra i cui  capi  spiccherebbe, immancabile, “l’ebreo Soros”. E alla Caritas, vengono frettolosamente assimilate  altre organizzazioni  di volontariato, laiche o meno,  tra le quali  le "scellerate"  Ong.   Organizzazioni "di negrieri",  che,   sempre secondo   i populisti  senza camicia nera (per ora) , salverebbero  dei  poveracci che stanno per affogare, solo  per assecondare, guadagnandoci sopra, l’ingresso di terroristi e criminali in Europa.
Pertanto, la storia  dell’eliminazione degli  sgravi Ires  alle associazione di volontariato,  non è solo una questione di tasse e di equità, come  tenta di  far  credere il neo-balilla Tria. In realtà,  dietro c’è il lavorio  ideologico   di   un immaginario neofascista,  pienamente condiviso da Salvini e da larga parte degli alleati pentastellati. Immaginario, ora al potere.  E che quindi si vendica.
Ma c’è dell’altro. Una cosa pericolosissima, che si chiama stato etico. Il top dell’anti-pluralismo.
Esemplare, a tale proposito, la dichiarazione  “gentiliana”  (da Giovanni Gentile, il filosofo  dello stato etico fascista), del Ministro della Giustizia targato Cinque Stelle, Alfonso  Bonafede:

 «"Tra le priorità di questa manovra su cui non abbiamo fatto un passo indietro nemmeno di un millimetro c’è il reddito di cittadinanza che va incontro alle fasce più deboli del Paese. Ritengo che le preoccupazioni della Cei siano immotivate" dice il ministro, per il quale il reddito di cittadinanza è "la norma che per eccellenza va incontro a chi si trova in una crisi economica e ha bisogno di formarsi per essere reinserito nel mondo del lavoro". »

Capito? Solo lo Stato deve occuparsi di queste cose. Tutti gli altri in riga.
Qui, cari amici lettori, ripetiamo,  non è in gioco il taglio di una agevolazione fiscale,  ma un principio di libertà. Come ad esempio, per gli sgravi fiscali, spesso anche aiuti diretti,  ai giornali, soprattutto se piccoli.  Ora nel mirino di un  analfabeta funzionale e politico come  Vito Crimi. 
Qui è in gioco, il diritto  al pluralismo informativo e assistenziale, che può essere garantito, anche attraverso forme di defiscalizzazione.  
Piace ricordare che quando Cavour, nel Piemonte liberale, che si preparava a unire l’Italia, approvò le  misure di secolarizzazione dei beni degli istituti religiosi, salvò quelli che svolgevano attività sociali.   Proprio per garantire il pluralismo di una funzione societaria  importante.
Cavour però, era liberale a tutto tondo.  Bonafede,  a quanto pare,  no.

Carlo Gambescia 

mercoledì 26 dicembre 2018

A proposito del film di Paul Greengrass sulla strage di Utøya
L’isola dei conigli




Ieri  ho visto il film di Paul Greengrass  sui due attacchi terroristici  del 2011,  perpetrati da Anders Behring Breivik, autonominatosi  comandante in capo  di una fantomatica organizzazione di crociati dell’antimulticulturalismo (*).
Il film è  piuttosto lungo e di taglio semi-documentaristico: abbraccia il processo, partendo però dai due attentati alla  sede del governo   sull’isola di Utøya, dove si teneva un seminario politico del movimento giovanile del partito laburista norvegese, attentati condotti a termine con lucida spietatezza. Ci furono settantasette morti,  in maggior parte  tra i ragazzi,  nonché centinaia di feriti.
Quel  che colpisce  il sociologo  sono le modalità di esecuzione della strage sull’isola di Utøya: una vera e propria strage degli innocenti.  Da un lato c’è, per evocare la teoria del partigiano di Carl  Schmitt, un soldato politico, armato fino ai denti, che rivendica la logica assoluta (fino alle mostruose conseguenze)  della  dicotomia amico-nemico.  Potremmo definire la sua logica panpolitica. Dall’altra,  centinaia di giovani  educati secondo i criteri del pacifismo integrale, quindi impolitici, perché in ultima istanza, credenti  nel dover porgere l’altra guancia,  sempre.  Potremmo addirittura denominare  questa logica,  antipolitica.
Piaccia o meno, ma il  risultato, di questo secondo atteggiamento, sul piano dei comportamenti collettivi, proprio  sull' isola di Utøya,  ha mostrato tutta la sua triste inadeguatezza.  Cosa è accaduto? Che, in uno stato di necessità,   ragazzi privi di qualsiasi approccio realistico alle grandi questioni del politico,   si sono dati   alla  fuga,  senza pensare minimamente, pur essendo in numero superiore, a una qualche reazione per mettere fuori gioco l’aggressore.  Il quadro -  certo impressionistico -   che si deduce  dalle terribili  immagini del film di Paul Greengrass, è quello del cacciatore che spara  ai conigli.
Nel 2012, un anno  dopo gli attentati,  uscì in  Francia un pamphlet di Richard Millet,  noto saggista, dove si descriveva  Breivik  come un effetto perverso,  patogeno,  dell’indifferentismo politico e religioso dell’Occidente.   Il saggio fece scalpore:  Millet venne liquidato come un fascista della peggiore specie (**).
Il realtà, pur tra le molte banalità letterarie,  Millet, pose,  forse senza neppure rendersene conto,  un preciso problema:  quello di come collegare relativismo  e difesa del relativismo.  Come diffondere una cultura politica realista, che  non escluda  mai l’esistenza del nemico, e perciò depositaria di una assoluta certezza “politica”,  con una filosofia relativista,  aperta alla comprensione e  all’accoglienza degli altrui valori,  senza per questo negare le ferree costanti metapolitiche del  “politico”. 
Si dirà, la quadratura del cerchio...  Tuttavia, il nodo fondamentale, che rinvia in ultima istanza  alla sopravvivenza dell’Occidente liberale,  è proprio questo: come trasformare i conigli  non in feroci leoni, ma in astute volpi, che all’occorrenza, sappiano indossare la pelle del leone e difendersi con tutta la forza necessaria. Ovviamente,  il nostro  discorso, sul piano dell’implementazione,  rinvia ai processi di socializzazione e "inculturazione": al rapporto tra valori militari e valori civili, nonché, alla fine fine, a quello  tra costanti metapolitiche e sermone della montagna, laicizzato. Se si vuole, tra etica della responsabilità ed etica dei principi.     
Qual è il succo della mia analisi?  Che la cultura del porgere, sempre, l’altra guancia,  porta solo rovine. Come d'altra parte  quella del  prendere  tutti a schiaffi.
Su questo punto, però,  nulla sembra essere mutato.  Jens Stoltenberg, laburista, all’epoca degli attentati premier della Norvegia, teorico del porgere sempre l’altra guancia, oggi è addirittura Segretario generale della Nato…
Il che però  spiega,  come  questo  immutato abito mentale, del pacifismo a tutti i costi,   sia alla base  del successo europeo dei populisti,   che rivendicano,  pur senza impugnare il mitra (almeno per ora), molte delle farneticanti idee di  Breivik. 

Carlo Gambescia      
        
(**) Richard Millet,Langue fantôme.  Essai sur la paupérisation de la littérature suivi de Eloge littéraire d'Anders Breivik Pierre-Guillaume de Roux Editions, Paris  2012;  Acquisibile qui:   https://www.pgderoux.fr/fr/Livres-Parus/Langue-fantome/48.htm .
                                            

martedì 25 dicembre 2018

Anche a Natale,  Papa Francesco non si smentisce
Maestro di banalità (pericolose)



« “L'uomo è diventato avido e vorace. Avere, riempirsi di cose pare a tanti il senso della vita. Un'insaziabile ingordigia attraversa la storia umana, fino ai paradossi di oggi, quando pochi banchettano lautamente e troppi non hanno pane per vivere”. E' stato questo il forte richiamo del Papa nell'omelia della messa della Notte di Natale.»
                          

Così Papa Francesco nella notte di Natale. Si possono dire  tante banalità in così poche parole?  Un vero e proprio maestro di banalità.  Attenzione,  pericolose. Perché?
Innanzi tutto, la visione della storia, vista come caduta verso il basso. La storia in realtà  ha alti e bassi,  e l’epoca in cui viviamo, socialmente parlando, si colloca nei piani alti. E' perfino inutile documentarlo:   la povertà nel mondo  è diminuita. L’economia di mercato ha permesso  a numerosi paesi  di  svilupparsi, eccetera, eccetera. Solo Papa Francesco  scorge i  “pochi che banchettano” e la marcia  inesorabile dell' ”insaziabile ingordigia” . 
In secondo luogo,  l’uomo non è buono né cattivo,   né vorace né sobrio,  ma  pericoloso.  Perché le sue azioni sono imprevedibili. Di qui, la necessità, di regole e procedure, liberamente pattuite,  che stabilizzino i comportamenti sociali, favorendone, entro certi limiti la prevedibilità,  che comunque non è mai assoluta. Anzi, l’imprevedibilità, in se stessa, è alle radici del progresso umano. L'uomo, può progredire come regredire.  Tuttavia,  la liquidazione, bollandola come oltraggiosa,  della sua imprevedibilità -  dunque pericolosità -    rischia di  eliminare  la possibilità stessa del mutamento, nel bene come nel male.  
In terzo luogo, affinché le procedure di stabilizzazione sociale, siano accettate  da tutti, è necessario ancorarle a una visione della realtà consapevole dei progressi conseguiti. Per contro, descrivere la situazione sociale  a tinte fosche, forzando i fatti tra l’altro,  come  fa il Papa, significa favorire lo scontento sociale e quei movimenti politici nemici della società aperta. E della stessa religione. Pertanto, Papa Francesco, così parlando, recide le radici, dell’albero sui cui rami è seduto.
Ci si chiederà per quale ragione il  Pontefice stia facendo del suo meglio  per autodistruggere la Chiesa e mandare a fondo la moderna società borghese.  Semplicissimo: perché è un reazionario. Non ha mai accettato le rivoluzioni liberal-democratiche. Come sosteneva Augusto Del Noce, Marx, non fece altro che riprendere, ammantandole di scientificità economica, le critiche del pensiero controrivoluzionario.  Papa Francesco, odia come Marx,  ma anche come De Maistre e Bonald,  la società  borghese, tuttavia, a differenza di Marx, non riconosce alcun  ruolo storico alla borghesia.  Sicché fa addirittura un passo indietro.
Buon Natale a tutti.

Carlo Gambescia                      

lunedì 24 dicembre 2018

Il populismo come "infantilizzazione" dell’elettore
I signori delle mosche





Un aspetto poco studiato dell’ascesa al potere  dei populisti è quello dell' "infantilizzazione" dell’azione politica, soprattutto sotto l’aspetto della comunicazione, o come un tempo si diceva della propaganda. Il fenomeno, ovviamente, è generale, non riguarda solo l'Italia.
Procediamo con ordine. La regola numero uno di ogni  messaggio politico è la sua semplicità e immediatezza: il target  è  un  cittadino-elettore medio, al quale si finisce per  attribuire  uno sviluppo mentale  al di sotto dei dieci anni.  La propaganda, insomma, è un'arma pericolosa, infantilizza. Dunque andrebbe usata con juicio.  Se non addirittura ridotta al minimo sindacale.
Purtroppo, l'infantilizzazione, a  mezzo propaganda,  fece la triste grandezza dei regimi totalitari novecenteschi, fascisti e comunisti. Regimi che avevano bisogno di bambini capricciosi da blandire. Salvo poi ridurli in catene, infiorate con i ricchi doni pseudo-genitoriali della previdenza sociale.   
Jean Piaget  studiò  il fenomeno sotto il profilo della psicologia dell’età evolutiva, dunque non politico,  individuando però un aspetto che oggi  può tornare utile per capire:  quello dell’assenza nel bambino delle capacità di adattamento all’ambiente.  Semplificando:  un ragazzino vuole tutto e subito, senza neppure capire perché;  un uomo,  sa invece che deve  adattarsi , rapportando  i fini alle risorse. Di qui, la necessaria evoluzione individuale  sociale del fanciullo, verso un adattamento, che è sinonimo di maturità sociale. Di conquista del principio di realtà.  
Ora, la propaganda populista, proprio perché imperniata sul “tutto e subito”,   gioca su un fattore chiaramente regressivo,  che  non può non svilupparsi  in  una comunicazione politica di tipo infantile: come se il politico populista, comunicasse non con cittadini-elettori informati,  bensì   con bambini capricciosi, inconsapevoli della distanza che corre tra  realtà e  desideri.

Purtroppo, va riconosciuto che  i Social,  o comunque la comunicazione sociale su Internet, ha decisamente favorito l’infantilizzazione  dei messaggi.   Si pensi al famoso libro  Il signore delle mosche, di William Golding (*), dove un gruppo di scolari, confinato dal caso in un’isola, regredisce ai primordi della storia, dunque allo stadio infantile dell’umanità, perdendo subito qualsiasi lieve mano di vernice societaria.  Internet e   in particolare i  Social sono come quell'isola... Purtroppo, ripetiamo, questi due fenomeni stanno contribuendo alla regressione della specie umana. Esageriamo?  Decida liberamente  il lettore.  
Resta il fatto che  è  in atto un processo di abbrutimento sociale segnato dalla prevalenza del richiamo della foresta,  quindi  dalla logica perversa della pura e semplice vittoria del più rozzo e del  più forte:  " Il giocattolo di Mario è troppo bello, glielo strappo di mano...".  
Allora, per venire al punto,  un Salvini, che parla  “di governo con le palle”, nel senso che  decide di lui chi far giocare o meno,    ricorda il famoso bambino, “ciccione”  proprietario del pallone che tiranneggia i coetanei.  Oppure un Di Maio  che si diverte al giochino del vero e falso, rimanda ai fogli a quadretti, che giravano  durante  le  feste  infantili: “Mario vuole fidanzarsi con Lucia. Vero o Falso?”.  
Ma si pensi  - e qui sarebbe interessante capire,  fino a che punto  i populisti  siano in realtà carnefici o vittime  -  alla trasformazione, a proposito dei limiti di bilancio,   dal  2,4 al 2,04.   Un giochino, anche questo, veramente  infantile. Eppure molti hanno  creduto...
Tutto questo implica però  gravi conseguenze sociali.  
Inutile spiegare ai bambini la “teoria della relatività ”… Tradotto: ragionare seriamente di politica e di economia. Quindi snocciolare cifre vere, non taroccate, come invece avviene  per far giocare “a bandiera” i  bambini-elettori.   La stesse forze di opposizione,  a cominciare dal PD (per non parlare di FI o, peggio ancora di FdI e LeU)  si sono  messe, e da tempo,  sulla stessa  strada, brutta e scivolosa.   Il Parlamento sembra essere diventato la stanza dei giochi,  dove si fa di tutto, eccetto che una politica, da  uomini, consapevoli dei vincoli di realtà.
Una tragedia. Stiamo regredendo, e nessuno sembra accorgersene. Proprio come quei  ragazzini del signore delle mosche…

Carlo Gambescia     

(*)  Sotto il titolo,  un fotogramma del film tratto dal romanzo.                    

      

domenica 23 dicembre 2018

Respinta anche  la Open Arms
I volenterosi carnefici di Salvini





Gli storici  pongono giustamente  la questione della  complicità del popolo tedesco nel favorire l’ascesa  e il consolidamento del regime  nazionalsocialista.  In effetti,  la deportazione e l' eliminazione fisica degli oppositori politici e di tutti coloro, a cominciare dagli ebrei, che avrebbero potuto minacciare la purezza della razza ariana,  non possono  essere liquidate  come il portato di  una semplice imposizione dall’alto. Infatti, come prova la ricerca storica, la stragrande maggioranza dei tedeschi condivise le finalità di grandezza dell’ideologia nazionalsocialista. E quando non aiutò fattivamente,  chiuse gli occhi  davanti alle nefandezze dei barbari nazisti.
Sotto quest'ultimo aspetto,  uno  storico ha parlato, coniando un termine ad hoc, dei "volenterosi carnefici di Hitler":  uomini e donne  che sostenevano  che la   legge è  legge e che va sempre rispettata,  anche nel caso  di donne,  bambini, deboli,  malati.  A differenza degli hitleriani convinti, per i quali donne e bambini incapaci di lavorare,  deboli e malati, andavano eliminati proprio perché tali, i volenterosi carnefici  si nascondevano  dietro il dura lex, sed lex. Insomma, si autogiustificavano, eleggendosi a cittadini solerti nei riguardi della legge,  perché, “altrimenti poi uno fa come gli pare”. 
Cosa vogliano dire?  Che  è  giusto criticare e condannare Matteo Salvini  sull' infame scelta di chiudere i porti, scelta  contraria non solo alle leggi internazionali della navigazione, ma a ogni criterio, anche  minimo di  umanità.  Ma, d'altra parte, non si può ignorare, che escluse alcune minoranze,  più o meno eroiche,  la stragrande maggioranza degli italiani lo appoggia, adducendo le stesse ragioni dei  volenterosi carnefici di Hitler.
Si sfoglino i giornali di oggi : dalle prime pagine (*),  è scomparso o quasi l’ennesimo atto di crudeltà dell’infame giostraio, perfino orgoglioso (“la pacchia è finita”) di sbattere  la porta in faccia a una nave, la Open Arms ("A braccia aperte")   con trecento persone a bordo ( uomini,  donne e bambini).   Segno, che la stampa, anche a grande tiratura e non esplicitamente di destra,  ha intuito che una larga maggioranza di  italiani è dalla parte  di Salvini.  Sicché ne asseconda la volontà, , silenziando le torve e minacciose politiche del leghista,  pur di   non  perdere copie,  finanziamenti,  nonché  il favore di un potere così amato dal popolo.  E poi, “la legge è legge”.  
Certo.   Infami.  Quale legge? Quella di Salvini? Come quella di Hitler?  Chi scrive si vergogna di essere italiano. I nostri  non auguri di Buon Natale  ai  volenterosi carnefici di Salvini.


Carlo Gambescia  

sabato 22 dicembre 2018

Dove ha sbagliato l’Occidente?
 Troppe grigliate... 



Trump ha deciso di ritirare le  truppe dalla Siria. E parla di dimezzare, come primo passo verso il ritiro totale, quelle in Afghanistan.  È un suo diritto, nessuno può impedirlo. Il rischio però  è quello di ritrovarsi, in prospettiva,  due stati fondamentalisti in un’area geopolitica chiave. Inutile indagare sulle motivazioni  di Trump, che vanno dal cretinismo politico puro  al  tentativo di mettere in difficoltà  Putin, lasciandolo solo davanti al nemico.
E in Europa? Ci si occupa di pensioni e caro benzina. 
Dove ha  sbagliato l ’Occidente?  Che cosa hanno fatto di male Europa  e  Stati Uniti   per meritarsi i populisti?  Per i quali l’unica politica estera è quella di chiudersi in casa e buttare la chiave? 
Il discorso sarebbe lungo, ma in linea di principio il grande errore commesso  dall’ Occidente si chiama disarmo morale: la rinuncia a celebrare e difendere  i valori che lo hanno fatto grande.
Qualche esempio?  Ci si vergogna di essere ricchi. Ci si vergogna di un grande passato militare. Ci si vergogna di aver  creato la democrazia parlamentare. Ci si vergogna della  propria forza economica, prodotta dall'espansione universale del  libero mercato.
Purtroppo, sul singhiozzo dell’uomo bianco  non può essere costruito nulla di buono. Il populismo,  in qualche misura, è una continuazione del pacifismo di sinistra, con altri mezzi, nel senso che all’’internazionalismo sostituisce il protezionismo, politico, economico e sociale.  Il che spiega, abbondantemente, il  ripiegamento politico  dei Trump, delle Le Pen,  dei Salvini, eccetera, eccetera.
L’errore dell’Occidente  consiste nel  credere che ci si possa ritirare dalla storia, per occuparsi solo di grigliate. E  invece la storia, come la verità,  si vendica.  Sempre. 


Carlo Gambescia        
      

                        

venerdì 21 dicembre 2018

Polemiche e chiarimenti
Il tradimento giallo-verde…



Il tema è sempre quello classico, sociologicamente classico,  del rapporto istituzione-movimento. Tradotto: per una forza politica, diciamo diffusa elettoralmente,   un conto è stare all’opposizione e promettere tutto a tutti, un altro coagularsi in struttura di governo, dunque farsi istituzione,  e  mantenere promesse contraddittorie, come quella di   aumentare le pensioni e abbassare le tasse.
Oggi, soprattutto le Opposizioni,  inclusi non pochi media,  si divertono a evidenziare le contraddizioni racchiuse nella legge di bilancio del Governo giallo-verde, che ha già avuto l’approvazione di Bruxelles. Gioco stupido e controproducente.  Che segnala l’immaturità della democrazia liberale italiana. Che non è cosa di oggi.  
Non si comprende ancora  che  il gioco politico al ribasso, moltiplica le tensioni nel Paese, e soprattutto incoraggia l’elettore medio, che non vede oltre il suo naso, a protestare in modo irresponsabile.  Questa non è democrazia, bensì demagogia. Come se non fossero bastati, venticinque anni  - a far tempo da Tangentopoli -  di delegittimazione delle istituzioni rappresentative e dell’economia di mercato.
Molti giornali rimproverano al Governo giallo-verde, e in particolare ai Cinque Stelle, teorici della democrazia diretta,   l’uso del "Canguro" per l’approvazione della Legge di Bilancio: di uno strumento, usato largamente anche dai governi precedenti, e in passato criticati, proprio per questa ragione, dai grillini.
In realtà,  il potere   -  attenzione non la Costituzione  -   ha le sue regole specifiche, che valgono per tutti, e che si traducono in forzature,  legate ufficialmente a questioni di  necessità e  urgenza (come per il reiterato ricorso allo strumento del  decreto-legge),  dettate invece ufficiosamente da un precisa costante metapolitica: la  conservazione del potere,   regolarità che trascende le forme di regime.
Il liberalismo, storicamente parlando, almeno da Humboldt,  ha cercato di riorganizzare,  costituzionalmente,  le costanti del potere, riconducendole nell’alveo di una democrazia procedurale e dei limiti.  Il punto è che gli uomini al governo delle leggi, che presuppone il "capire", e quindi l'accettazione ragionata delle regole,   preferiscono, di massima, quello di un uomo, e quindi il credere, ripudiando i limiti,  nel realizzatore, in colui che, di volta volta,  incarni   una qualche  "Idea", senza badare troppo  alla pericolosità, quando sussiste,  del suo contenuto messianico.
Si tratta di una questione, che si è costantemente riproposta, assumendo la veste della monocrazia politica, anche nelle democrazie parlamentari. Si pensi al culto del leader, anche negli abiti del "dittatore" parlamentare,   che non nasce con Berlusconi, ma che  per l’Italia unita, risale a Cavour.
La  vera questione quindi  è rappresentata dal tasso di liberalismo, e dunque dal  giusto  equilibrio, o equazione individuale istituzione-movimento,  racchiusa nella personalità politica del leader. E Cavour, Giolitti e De Gasperi,  ne restano l'esempio migliore.   
Certo, il tasso di liberalismo dei leader alla guida del nostro governo è pari a zero. Tuttavia, è assolutamente inutile contestarli, scendendo sullo stesso piano.  Anche perché, nonostante i populisti al governo, l’ Italia è ancora nell’UE, e addirittura la legge di bilancio ha avuto il placet della Commissione.  Probabilmente,  nella sua  implementazione, come Bruxelles ha saggiamente intuito, i giallo-verdi si incarteranno.
Pertanto,  che bisogno c’è di alimentare, ora, una inutile cagnara antipolitica? 

Carlo Gambescia                

giovedì 20 dicembre 2018

 Il M5S  chiede l’intervento dell’ Esercito per riparare le strade di Roma
Gli imbecilli al potere



Chi ci segue, ricorderà  che all’indomani  del crollo del Morandi, suggerimmo l’intervento del Genio Militare (*). A emergenza si doveva rispondere con un provvedimento straordinario. Come si dice oggi:  ci stava.   Il Genio avrebbe potuto costruire  accanto al ponte caduto, un ponte provvisorio, eccetera, eccetera.
E invece i Cinque Stelle aprirono  subito la caccia ai nemici del popolo… Storie di ordinaria follia grillina...   Ora, si dichiara addirittura che il nuovo ponte verrà inaugurato nel 2020. Vedremo.
E invece dove si evoca l’opera del genio militare? Dove non c’è nulla di "emergenziale", ma solo due anni di pessima  amministrazione comunale grillina.  Eppure, l’ultima trovata della “Sindaca” Raggi, già avvocato esperto in xerox,  è di impiegare il Genio Militare  per riparare le  buche di Roma. Però -  ecco il lato  tragicomico -  dal momento che i militari  non hanno sufficienti  macchine asfaltatrici  lo stato dovrebbe finanziarne l’acquisto. 
Che dire?  Roba da Venezuela. Dove il privato è  fuori corso, e ogni questione è  competenza dell’Ejército Popular. Attenzione però,  a Roma,  il Comune  dovrebbe fornire i materiali al Genio: i conglomerati bituminosi, le ghiaie, eccetera, eccetera. Neppure a Ouagadougou capitano cose del genere. Che figura, davanti al mondo...
Materiali  che  il Comune  dovrà  comunque  acquistare dai privati,  visto che l’Italia non è la vecchia Germania comunista di Honecker,  a ciclo economico integrato.  Di qui  - orrore! -  l’odiato mercato libero, cacciato dalla  porta, che rientra dalla finestra…
Rivolgersi direttamente al mercato privato, no?  Esistono imprese che si occupano di queste cose. E che probabilmente, asfaltano meglio del Genio militare. Storica istituzione, certamente. Ma che tra l’altro, con tutte le missione italiane  in giro nel mondo, di altro si dovrebbe occupare.  Sotto questo profilo, si attendono segnali di vita, da parte dei vertici del Genio Militare e (perché no?) dello Stato Maggiore...  
Insomma, gli imbecilli al potere.  E non pensiamo solo ai  Cinque Stelle…
  
Carlo Gambescia

mercoledì 19 dicembre 2018

Più vicino l’accordo con Bruxelles?
L’Europa geniale

La passata estate si è molto discusso sulla possibilità di civilizzare i “barbari populisti”. Chi era per il sì, come Galli della Loggia, chi per il no, come Panebianco.
Chi scrive ha sempre indicato - e continua a  indicare  -  in questo governo, e nei populisti in generale,  un pericolo per la democrazia liberale.  Tuttavia,  l’Italia è una cosa,  la Polonia e l’Ungheria un’altra. Parliamo di  nazioni, queste ultime, da sempre governate in modo autoritario e perciò estranee alle tradizioni della democrazia parlamentare e liberale.   Subire  il tallone comunista e  fascista non attribuisce alcuna patente postuma di liberalismo.  
L’Italia invece ha ben altre tradizioni.  Pur, se in modo imperfetto,  il nostro Paese può vantare una cospicua eredità liberale. Il fascismo, resta comunque, una parentesi,  disastrosa, ma parentesi. Poiché la storia ha un suo peso, il riformismo liberale italiano, espressosi attraverso uomini come Cavour, Giolitti, Turati,  De Gasperi, e su scala minore e con sfumature politiche spesso assai differenti, Nenni, Fanfani,  Moro, Craxi e Andreotti, può facilmente spiegare l’atteggiamento piuttosto cauto di Tria e Conte, ovviamente incoraggiato, seppure nell’ombra (ma neppure tanto, stando ai retroscenisti) da Luigi  Di Maio e Matteo  Salvini:  una scelta   che sta portando all’ accordo sul bilancio con l’Europa.  Vedremo,  cosa accadrà  nei prossimi giorni.
In realtà,   quel che emerge  -  la "ciccia" insomma,   al di là dei retroscena -  è   la superiorità del metodo  liberale della negoziazione.  Il fattore discutidore, da sempre criticato dai nemici del liberalismo, rivela tutta la genialità dell’Ue.  Ciò che, storicamente e sociologicamente, la distingue. Insomma,  l' Europa resta la nostra amica geniale, per usare una terminologia letterario-televisiva  alla moda.
Per quale ragione?  Perché, nonostante  il linguaggio truculento di Salvini e Di Maio,  l’Unione Europea, non ha mai perso la calma, e una volta giunta al nocciolo delle trattative concrete ha confermato   tutta la forza tranquilla  della democrazia liberale.  Certo, anche i  “barbari populisti” hanno fatto alcuni passi indietro:  segno che il metodo, non è solo forma ma sostanza,  quindi   prudenza  (contagiosa) che può aiutare a cogliere  la lezione, come scrivevamo qualche giorno fa, della forza di gravità della politica (*).  
Per ora, si è accettata  la revisione al ribasso del rapporto fra deficit e Pil nominale, dal 2,4% al 2,04%.  Resta da vedere cosa accadrà dell’ aggiustamento del deficit strutturale,  che invece  non prende in considerazione i provvedimenti una tantum al netto dell’andamento del ciclo economico. Anche qui, nei prossimi giorni, scopriremo cosa bolle in pentola.
Ovviamente, resta in piedi, inalterata, in tutta la sua natura, ideologicamente strampalata, quanto meno a uso propagadistico,  la politica economica  giallo-verde: una vagonata di pericolose fregnacce (pardon) che  oltre a non produrre occupazione rischia di appesantire il debito pubblico italiano in un contesto di bassa crescita economica.
A onor del vero, va sottolineato che i mercati,   quelli che secondo la retorica populista e sovranista  “comandano in casa nostra”, non  hanno mostrato impazienza:  lo spread, seppure alto, non ha infierito  sul  mercato del debito pubblico italiano.   
Per tornare alla questione della civilizzazione dei “barbari populisti”,  diciamo che l’Europa, mostrando una intelligente pazienza,  sembra  puntare alla socialdemocratizzazione  dei populisti italiani, e probabilmente del populismo  in generale (si veda  l’atteggiamento paziente verso i gilet gialli, anche di Macron).   Lo stesso discorso di Draghi a Pisa, fitto di richiami alla "questione dell’equità sociale"  si muove nella stessa direzione.  Il potente Presidente della Banca Centrale Europea,  detto per inciso,  alla fin fine,  ragiona politicamente come Visco, Vincenzo, ex Ministro delle finanze ulivista con Prodi e D’Alema.  Non dunque  come l'altro Visco,  Ignazio,  attuale Governatore  della Banca d’Italia, tecnocrate puro.
Il riformismo, è uno dei due volti della democrazia liberale, l’altro  è quello,  se ci si perdona la ripetizione,  liberale. Ripetiamo: la forza tranquilla dell’Europa è rappresentata dal tentativo di ricondurre, mostrando flessibilità nelle trattative, i  “barbari populisti” nell’alveo, semplificando, socialdemocratico.  Riuscirà?   Molto dipende dalla natura profonda degli stessi barbari. Vedremo,  nei prossimi giorni.
Chi, infine,  prova di non avere capito nulla,  anzi, di continuare a non capire nulla di riformismo e liberalismo,  è l'ineffabile Silvio Berlusconi, che pur di raccattare voti all’estrema destra ha subito rinfacciato la marcia indietro a Salvini.  Il Cavaliere  è veramente un caso disperato di cretinismo politico. 
Per fortuna però,   c’è l’Europa, la nostra amica geniale.  Liberale  riformista.  

Carlo Gambescia    

martedì 18 dicembre 2018

La riflessione
Marx e Smith, le due retoriche




1. Retorica dell' intransigenza e della transigenza
Quanto conta la  retorica in  politica? Dipende.  Innanzitutto però,  che cos’è la retorica?  È l’arte di persuadere con le parole  le persone. Politicamente parlando,  esistono due modelli  o tipi di retorica 
Il primo modello rinvia a una retorica dell’intransigenza,  che rifugge  dall’ironia della storia, nel senso che rifiuta l’ idea stessa di  effetto perverso o imprevisto  delle azioni sociali, per la serie si vuole il bene si ottiene il male ( e viceversa). Sicché questa retorica copre  e   appoggia qualsiasi disegno rivolto a cambiare le cose,  perché fiduciosa  nella costruzione  "a tavolino", della realtà politica e sociale.
Il secondo modello rimanda invece  a una  retorica della transigenza che  conosce e teme l’ironia della storia, dunque i pericolosi o comunque imprevisti effetti di ricaduta delle azioni sociali.  Di qui la prudenza, proprio perché si  ha consapevolezza, per  parafrasare un antico adagio,  che l’uomo propone e la mano invisibile del sociale  dispone:   si parte in molti, fedeli a un'idea, si torna in pochi e disincantati; si vuole aiutare qualcuno e invece gli si dà il colpo di grazia.  E così via.

2. Marx e Smith
Come rappresentante del primo  modello di retorica può essere indicato  Marx.  Il quale con la sua idea di socialismo scientifico, creò una potente macchina retorica da guerra.  Che, puntando sull'abbellimento retorico  della  programmazione delle azioni individuali, dunque su un'idea sociologicamente  sbagliata,   ha provocato solo disastri. E i catastrofici  risultati sono sotto gli occhi di tutti
Come rappresentante del secondo modello di retorica può essere scelto Adam Smith. Il quale, partendo dall’imprevedibilità collettiva di  azioni individuali mosse dall’interesse (neutralmente inteso, privo di accezioni morali),   non costruì  alcuna macchina da guerra,  ma semplicemente  mise in guardia, soprattutto il potere politico, dall’idea di poter scientificamente programmare le azioni umane. E gli ottimi  risultati di questa prudente retorica sono sotto gli occhi di tutti.           

3. Ironia e storia
La  riprova della bontà politica e storica, oltre che sociologica,  della retorica della transigenza è data da due eventi.
Il primo,  che il capitalismo  storico, non è stato programmato “a tavolino”, ma scelto per evoluzione istituzionale, come effetto  delle libere decisioni  di individui tesi a perseguire i propri interessi.  
Il secondo, che discende direttamente dal primo, rinvia a quelli che possono essere definiti gli effetti sociali  imprevisti  del capitalismo, tra i quali c’è il socialismo scientifico,  che erroneamente, ha ritenuto il capitalismo una costruzione artificiale, ad opera di “uomini cattivi”.  Di qui la sua idea -  del socialismo scientifico -  di costruire “a tavolino” la società comunista, degli uomini buoni e uguali. Ora, qualsiasi retorica dell’intransigenza, proprio perché  discende da una visione  costruttivista della società,  prescinde inevitabilmente,  al contrario della retorica della transigenza,  dall’idea degli effetti perversi o imprevisti  delle azioni  umane, di cui il socialismo scientifico è una  vera propria prova vivente.  Il socialismo ha necessità di certezze e proprio per questo  è privo di ironia.  Storica e sociologica.

 4. Concetti vuoti
Abbiamo citato l’esempio del socialismo scientifico. A dire il vero, rilevanti  tracce di costruttivismo sociale e politico, e di un conseguente  e abbondante uso della  retorica dell’intransigenza, possono essere   individuate con facilità  nel discorso pubblico contemporaneo.
L’uso di  concetti vuoti  come   “equità  sociale” e   “primato nazionale”  rinvia decisamente  a ipotesi costruttiviste, che vanno oltre la normale dinamica economica degli interessi individuali, perché tese  alla redistribuzioni sociale e politica di ciò che viene reputato importante dal punto di vista redistributivo o,  come si dice,  “della collettività”,  altro concetto vuoto.  
Nel caso dell’ “equità sociale”, ci si riferisce,  gonfiandola,  alla  sperequazione dei redditi; nel secondo, del “primato nazionale”,  a  una  sperequazione di potere tra le nazioni, artatamente dilatata. 
In realtà,  stratificazione dei redditi e del potere mondiale, da che mondo è mondo,  sono sempre esistite. Il motore della storia è dato, per l’appunto,  dall’  imprevedibilità delle stratificazioni e dall'eterogeneità sociale.  E  non dall' eliminazione di esse, una volta per sempre, come sostengono i costruttivisti, o  di rimbalzo, i profeti armati della retorica dell'intransigenza, rossi o neri che siano.

5. La società di mercato come effetto imprevisto
Insomma, la retorica  costruttivista  dell'intransigenza si risolve in  un processo circolare dove ciò che deve essere redistribuito viene giustificato dalla redistribuzione. E la redistribuzione da ciò deve essere redistribuito. In pratica, il processo è tutto, l’individuo  è nulla.
Di qui l’uso, ripetiamo,  per persuadere  le persone,  della retorica dell’intransigenza.  Alla quale si oppone, come abbiamo cercato di illustrare una retorica della transigenza, di cui la  nostra analisi  è un esempio.
Il punto però è che, gli esseri umani al capire preferiscono il credere.  Spesso confondendo le  leggende e i miti  sociali  con i propri interessi.  Sotto questo aspetto,  la creazione dal nulla della moderna società di mercato è una specie di  miracolo storico:  un effetto di ricaduta, non previsto, delle società precedenti. Un'istituzione sociale, semplificando,  che si è sviluppata,  senza che nessuno sapesse,  cosa si stava costruendo. Sicché  i suoi inconsapevoli costruttori   ancora si interrogano sulla sua natura.  Mentre  chi  vuole distruggerla,  presuntuosamente,  ritiene  che sia stata edificata, ripetiamo, da “uomini cattivi”.  E anche questa, come detto, è una formula vuota:  purissima retorica dell’intransigenza.  
                
Carlo Gambescia