Giuliano Ferrara e “il liberalismo che se l’è fatta sotto”
E allora Margaret?
In un interessante articolo sul “Foglio”, Giuliano Ferrara, prendendo spunto
dalla marcia indietro di Macron, irride, da vecchio leninista pavloviano, al “liberalismo che se l’è fatta sotto” (*) .
In
effetti, l’idea che i liberali ne se battent pas viene da lontano.
Probabilmente risale ai primi
trent’anni del Novecento, quando il
liberalismo, consolidatosi al governo,
un po’ ovunque in Europa, si arrese prima al socialismo parolaio, e, dopo, al fascismo e nazismo, che dalle parole passarono subito ai fatti. Senza dimenticare che, per alcune cucchiaiate di decenni, Lenin, Stalin, Krusciov e Brežnev, su questa debolezza ci contarono...
Pareto
scrisse cose terribili, ma in larga parte vere,
sull’umanitarismo social-liberale, che con il vero liberalismo a dirla
tutta, quello delle navi commerciali difese dalla flotta britannica, del
colonialismo hard o soft a seconda dei casi, delle rivoluzioni liberal-nazionali e dei borghesi che volevano "morire da filosofi", sempre in lotta contro i rossi e i
neri (socialisti e preti), con il vero liberalismo, dicevamo, quello targato 1815- 1914 non aveva nulla e
non ha nulla a che vedere.
A
rigore, in tutta l' Europa del Novecento, l’unico vero leader liberale, dalla morte di
Churchill, che tra l’altro su alcuni punti sociali era piuttosto
morbido, degno di questo nome, rimane Margaret Thatcher, donna con le gonne, che ha legato la sua
fortuna politica a un formidabile decennio.
Reagan, la cui fama, non è
inferiore, fu in realtà, più conciliante, meno liberale. Almeno così scrivono gli storici, non di
parte.
Ovviamente,
restano, ieri come oggi, le istituzioni
liberali, le procedure improntate, però secondo certo gusto prevalente
socialista riformista, al compromesso. A ciò che troverebbe il punto di coagulo politico in una
attitudine a calarsi le brache. Si
pensi ad esempio, a come l’UE si sta comportando con l’Italia… E a come l’Italia
si sta comportando con l’UE: il
giochino - è di oggi - dal
2.4 al 2,04 dovrebbe mettere d'accordo tutti. Tuttavia, come ogni
compromesso, ha dei lati comici alla Totò: perché in fondo, si cambia un' etichetta, spostando la virgola. Una specie di gioco di prestigio: come vendere la Fontana di Trevi, senza che gli
elettori, come quel turista americano, si accorgano della fregatura.
Parliamo
di un universo istituzionale, comunque importante, che
include l’UE, le istituzioni economiche e commerciali internazionali, l’ONU, e
le organizzazioni connesse. Per carità, sempre meglio che le bombe atomiche. Tuttavia, se al riguardo, si
dovesse proprio scomodare il termine liberalismo, potremmo parlare di liberalismo macro-archico: un liberalismo socialdemocratizzato, assai
lontano dal liberalismo micro-archico, hayekiano, non disarmato, dunque con punte archiche, di realismo
politico, come invece si può definire quello della Lady di Ferro e dello stesso Reagan. Due rondini, checché ne dicano gli avversari,che purtroppo nell' asfissiante clima costruttivista novecentesco non hanno fatto primavera.Soprattutto in Italia.
Per
non parlare infine della distanza che intercorre tra liberalismo archico, in qualche
misura incarnato da una Thatcher, che manda la flotta a riconquistare le Falkland, e le
forme utopiche e in fondo pacifiste di liberalismo an-archico.
Come
il lettore avrà sicuramente notato, il nome di punta resta quello della Thatcher, in parte perché lo merita, in parte, perché,
considerato, rispettosamente, anche il
ruolo storico di Reagan, sarebbe difficile se non impossibile indicare - ripetiamo - per la seconda metà del Novecento (ma con propaggini nei nostri giorni),
un vero leader liberale, all’altezza della Lady di Ferro.
Ferrara
ha deriso Macron, sbagliando bersaglio: nel senso che il
Presidente francese, che pure stimiamo, non
è un liberale in senso stretto, ma un tecnico (non è una critica), con un
passato socialdemocratico (questa è una critica), che si trova a gestire
istituzioni di tipo liberal- macro-archico,
inevitabilmente, portate al
compromesso, perché vittime (le istituzioni)
della nemesi politica accanitasi sul sontuoso pluralismo tocquevilliano: una autentica disgrazia che si chiama pluralismo corporativo. Parliamo di un meccanismo, alla lunga autodistruttivo, segnato dalla lotta tra agguerrite coalizioni distributive. Alle quali, prima o poi, si deve inevitabilmente concedere qualcosa. E i gilet gialli sono soltanto gli ultimi nati di una
lunga serie di parassiti welfaristi.
Sotto
questo aspetto l’epica lotta contro i minatori, culminata
con una grandissima vittoria della
Thatcher, ci ricorda che non tutti i liberalismi sono uguali: pronti a calarsi le
brache.
È
indubbiamente questione di palle (pardon), ma anche di formazione, tradizioni
culturali e buon uso delle istituzioni liberali da parte di un leader liberale. Un vero leader liberale.
Pertanto
la questione è un pochino più complessa. Ma per capirlo si deve conoscere a
fondo il pensiero e la pratica liberali. Diciamo che sul punto specifico, un
post leninista come Ferrara, pur
coltissimo per carità, va a orecchio. Evidentemente,
nessuno gli ha mai insegnato a leggere la
musica liberale.
Carlo Gambescia