La riflessione
Povertà e politica
In
non poche dichiarazioni
post-approvazione Legge di Bilancio, si legge che con queste misure i poveri,
comunque sia, non aumenteranno. Giorni fa chiacchierando con un amico, e dopo
aver notato che i nostri i nonni (in
senso lato) andavano in giro scalzi, mi
sono sentito rispondere, che se le cose continueranno così saranno i nostri
nipoti a dover rinunciare alle
calzature…
Ecco, la perfetta esemplificazione di quella
paura di impoverirsi, che oggi caratterizza il dibattito politico. Che è altra cosa dalla povertà reale. Quando sono però mutati i termini della questione? Quando, per la prima volta, i poveri sono stati
messi al centro della scena politica, da
destra, sinistra e centro? Quando si è cominciato a usare il povero, questa misteriosa entità inseguita da legioni di
statistici, come risorsa politica?
Probabilmente,
il primo fu Marx, che scorse, sulla base
di una teoria pseudo-scientifica, nella pauperizzazione, la causa che avrebbe
condotto alla rivoluzione socialista, eccetera, eccetera.
Da
allora, il mito del povero, e per reazione, la questione di non riuscire a contrastare la povertà, da parte dei
riformisti, oppure di favorirla per semplificare
la transizione al socialismo, da parte dei rivoluzionari, si sono ritrovati catapultati al centro del dibattito politico. Da allora, tutti
si sono contesi i poveri: conservatori,
liberali, socialisti comunisti, fascisti, nazisti. In particolare la storia del Novecento potrebbe essere riletta come il gigantesco scenario di una lotta alla povertà. Reinventata, però.
Perché parlare di reinvenzione della povertà? In
realtà, grazie alla mano invisibile dell’economia, guidata dalla libertà di
commercio e di intrapresa, ma anche di lavoro, studio, cultura, che ha mosso milioni anzi miliardi di individui
sparsi nel mondo, il reddito complessivo è aumentato e i poveri sono diminuiti in senso
assoluto, prima in Occidente e poi nel resto del globo. Sicché, cosa è accaduto? Con il
numero dei poveri che andava riducendosi,
si è dovuto cominciare a parlare di povertà relativa, non più assoluta,
legata quindi alle condizione sociali
dei diversi contesti: di nuovi poveri, nuove povertà, eccetera, eccetera. Tutti giri di parole, per costruire basi politiche per la conquista del potere. I poveri, come risorsa politica..
Di
fatto però, soprattutto in Occidente, con la diminuzione sia della povertà assoluta, sia di quella relativa, il numero dei poveri, per così dire veri, si è
elettoralmente ristretto. Di qui, il grande escamotage politico: il
ritorno all’idea (in principio
marxiana) di pauperizzazione, ma solo per spaventare il
ceto medio e guadagnarne, come detto, i voti.
Si tratta, in realtà, di una crisi, quella del ceto medio, di cui si parla
da più di trent’anni e che, come la famosa Titina, tutti cercano,
manipolando dati su dati, ma nessuno
riesce a trovare-provare.
Come
afferma una nota legge sociologica, se
gli uomini percepiscono una situazione come reale, quella situazione, da immaginaria, rischia di diventare subito reale. Di qui, quella paura estesa, frutto dell'immaginazione, che però si proietta in qualcosa di concreto, come i comportamenti di un ceto medio che, una volta prigioniero del timore di impoverirsi, si incattivisce.
Ciò
significa che le attuali politiche per contrastare le povertà hanno un valore
figurativo: non rinviano alla realtà, ma
a una rappresentazione della
realtà, reinvenzione per l'appunto, fondata, sulla sempre più diffusa paura di perdere ciò che si ha. Dunque non al povero, che già di per sé è un'entita stratta, ma al presunto impoverimento di soggetti che in realtà sono tutt'altro che poveri.
Il che spiega il
risentimento sociale verso chi sia
immediatamente sopra, nonché
corporativismi e divisioni sociali. E cosa fondamentale, spiega perché il quadro politico si sia spostato a destra, in direzione dei movimento
populisti. Puro egoismo sociale, insomma. E il peggio potrebbe ancora venire. E - non sia mai… - in
nome di una nobile causa: la povertà.
Carlo Gambescia