Trump,
Salvini e i populisti
Il linguaggio delle idee senza parole
Furio
Jesi crediamo sia l’intellettuale italiano più odiato dalla destra neofascista. Non
facciamo alcuna scoperta perché si tratta di cosa nota. E qual è la ragione dell'odio? Alla fine degli anni Settanta, da
capace studioso del mito, Jesi, scomparso nel 1980, decostruì radicalmente in un libro
intitolato, per l’appunto, Cultura
di destra, l’approccio mitologico, quindi irrazionale, dell’estrema destra alle
grandi questioni della modernità. Un
approccio antimoderno fondato su pseudo-imperativi di tipo mitico come
Tradizione, Razza, Origini, Destino, Sacro e Profano.
Ecco il punto concettuale sgradito ai neofascisti: si tirava via il velo dietro cui si
nascondeva un gioco al tanto peggio
tanto meglio, edificato a sua volta su qualcosa di né vero né falso, dunque di indeterminato e perciò manipolabile a
volontà. Una infernale macchina mitologica tesa allo scatenamento delle peggiori emozioni
collettive.
Al
riguardo Jesi parlò giustamente di un “linguaggio di idee senza parole”, disattento all’esame del concetto perché più
difficile da capire e spiegare, ma contraddistinto da “parole d’ordine” e rivolto, con
“disinvoltura all’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti”
(1).
Jesi
poi, erroneamente, facendo di tutta l’erba un fascio (non solo in senso
figurato), ricondusse le origini della mitologia neofascista al pensiero borghese e alla sua crisi, da cui sarebbe scaturita la guardia bianca fascista. Diciamo che la sua analisi del pensiero, in particolare di Mircea Eliade, non può essere totalmente condivisa. Come del resto la sua tesi sul liberalismo come l’altra faccia
del fascismo. Semplificazione da rifiutare.
Jesi, senza mai citarlo, sviluppava le tesi di Cassirer, avanzate ne Il mito dello Stato, sul conflitto nella cultura filosofica e
politica dell’Occidente, tra pensiero mitico e pensiero razionale, con
ben maggiore profondità e fondatezza (2). Va però detto che Jesi fissò in modo
memorabile senso e significato del linguaggio silenzioso dell’estrema destra. Che, sociologicamente, può essere
sintetizzato così: sollecitare (ecco il senso) negli uomini
l’angoscia del disordine per porvi riparo (ecco il significato) con il sollievo dell’ordine.
E
proprio a questo pensavamo, a proposito del recente brutale invito trumpiano, rivolto a quattro deputate democratiche (nella foto) colpevoli di criticarlo, a tornare nelle nazioni di origine delle famiglie: “Send her
back!”, "Rispedirla indietro!". Si
tratta di uno slogan razzista, classico e diffuso, anche in Italia e
altrove: si pensi al “Tornate a casa” salviniano. Oppure a quel "Chiudiamo i porti" molto simile al "Costruiamo un muro" di Trump.
In realtà sono iconismi verbali al filo spinato, efficacissimi, perché con due o tre parole si designa il nemico e si indica il rimedio. Facile, come prendere una pastiglia per il
mal di testa. Si chiama anche banalità
del male.
Riflettiamo. Da
un lato c’è il pensiero razionale, che
si interroga sulle grandi questioni dell’immigrazione, dell’accoglienza, dell’integrazione, cercando soluzione ragionate. Dall’altro
abbiamo il pensiero mitico che, dando
per scontato il mitema dello straniero pericoloso impone l’esclusione come unica soluzione
obbligata.
Trump,
Salvini e altri leader populisti, non
possono essere direttamente ricondotti al fascismo, ma neppure al liberalismo. L’uso del linguaggio iconico,
per aggiornare il concetto sviluppato di Jesi, rinvia però al fascismo.
Diciamo
allora che l’universo populista,
contrariamente a quello liberale, che si fonda sul buon uso della ragione,
rimanda a una specie di cripto-fascismo.
A qualcosa di profondamente irrazionale, ancora allo stato latente, ma che
già si esprime attraverso
“idee senza parole”, o comunque
limitate al minimo iconico. Un linguaggio simbolico-irrazionale che gode pure dell'effetto moltiplicatore dei Social.
Siamo veramente nei guai, guai grossi. E qui torna la difficile domanda: come
opporsi a chi rifiuti l’uso della ragione?
Carlo Gambescia
(1)
Furio Jesi, Cultura di destra,
Garzanti, Milano 1979, p. 9.
(2)
Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi & C., Milano 1971.