Un
articolo di Alessandro Orsini
Trump, terrorista suprematista?
Ieri sul “Messaggero”, Alessandro Orsini, cercava di
convincere i lettori circa l’assenza di qualsiasi legame fra Trump e il terrorismo suprematista. Come, da ultimo, in Nuova Zelanda.
Un articolo infarcito di esempi
storici, però piuttosto recenti, per così dire “a breve”. Per provare che quando
il terrorismo suprematista colpisce,
al potere, negli Usa, si trovano i
democratici. A far tempo dal famoso
attentato di Oklahoma City del 1995.
Quindi nessun legame. Anzi, come si fa intuire, i cattivi sarebbero proprio gli imbelli democratici.
Tra l’altro, Orsini, propone una
sua teoria del terrorismo, quella dell’ “incapsulamento sociale” ( modello DRIA), basata su una specie di autismo politico. Tradotto: vado d’accordo solo con chi
abbia le mie stesse idee, ignorando qualsiasi altri tesi contraria. Modello
che, a dire il vero, spiega tutto e
spiega niente, perché ricorda il banalissimo meccanismo comunicativo del Social, come, del resto, qualsiasi altra dinamica dell’inclusione settaria, quale reiterazione
del medesimo. Però, ecco il punto, non tutte le sette si armano e uccidono i diretti ( e presunti) nemici. Storicamente parlando, e non dunque per
esempi recenti, molte sette, si pensi
alla diaspora confllttualista, interna alla post-Riforma protestante, abbracciarono
la causa del pacifismo. Quindi il modello dell’incapsulamento sociale, zoppica
concettualmente.
Cosa vogliamo dire? Che gli esempi storici (recenti) e il modello DRIA (che spiega tutto e niente), sono presentati da Orsini, come eccellenti e obiettive armi euristiche. Presentati... In realtà, sono armi retoriche. Per quale ragione? Perché si vuole ribattere - per carità, anche a ragione - alle tesi di una sinistra intellettuale, che, in modo altrettanto retorico, sostiene, su basi prettamente ideologiche, che Trump e i suprematisti sarebbero la stessa cosa, anzi che il primo sarebbe diretta causa dei secondi. Di qui, l’attuale escalation.
Ora, a dire il vero, che sia esistita, non solo affinità ideologica, ma anche di fatto, tra un
miliardario e un terrorista, non sarebbe novità assoluta: dal treno di Lenin
agli aerei di Osama. Ma nel caso
di Trump, si dovrebbe provarla. E sul punto la sinistra tace.
Come rispondere allora? C’è un legame (o meno) tra il populismo
razzista, professato da Trump e gli attentati suprematisti? Diciamo pure che il miliardario americano, assurto
alla Casa Bianca, è la punta dell’iceberg, per così dire, cognitivo. Insomma, non tanto del terrorismo
suprematista, alla stregua di una specie di “Imperatore” del KKK, che dia ordini, quanto di un approccio semplicistico alla
politica, dunque cognitivo. Che consiste nell’indicazione al popolo, stravolgendo tempistica e modalità del dibattito pubblico, di un capro
espiatorio, quale soluzione finale, e semplicistica, di tutti
problemi. Basta schiacciare il foruncolo...
Come ammette lo stesso Orsini “la
logica di chi lotta non è la logica di chi vuole comprendere”. Perfetto. Ovviamente, Orsini, si considera tra coloro
che vogliono "comprendere". Del resto è un professore.
Però, curiosamente sembra
sfuggirgli un fatto fondamentale, denso di gravissime conseguenze pratiche. Che una volta ammessa, sul piano cognitivo, l’esistenza di un capro espiatorio ( il nero, l’immigrato, l’islamico, il gay, eccetera,
eccetera), premere il grilletto resta la cosa più facile da fare. Perché è vero, che “la politica è lotta per
la conquista e conservazione del potere”, ma resta altrettanto vero che il ricorso all’uso della forza, sebbene talvolta necessario, anzi addirittura ricorrente, non è
l’unica risorsa della politica. Lo
diviene invece, sempre, quando si
introduce la logica semplicistica del capro espiatorio.
Se ci si perdona, la
banale metafora alla Cacciari, Clinton e
Obama svolgevano verso questo tipo di
logica semplicistica il ruolo del Katéchon, di coloro che frenavano. Trump, per
metterla sull’automobilistico, invece, spinge
a tavoletta. Da autentico irresponsabile. Di qui la sua pericolosità. Che a Orsini,
studioso che vuole “comprendere”, sembra
invece sfuggire.
Carlo Gambescia