mercoledì 27 marzo 2019

Il Congresso Mondiale delle Famiglie
Lo stato non è  la soluzione,
ma il problema


Sì,  è vero.  I libertari, per semplificare, arrancano.  I difensori, sempre per farla breve,  dei matrimoni  gay e dell’immaginario legato all’universo dei nuovi diritti sociali sono in difficoltà.  Cosa del resto,  ben evidenziata  nell’interessante  articolo del “Post” sul prossimo convegno di Verona.

Tutto il racconto [degli organizzatori del Convegno di Verona, ndr]  è stato posto in termini molto positivi e questo fa parte, come dicono molte e molti esperti, di come si è modificata la strategia comunicativa di questi gruppi anti-scelta nel corso degli anni: non viene utilizzato un linguaggio ideologico, ma molto edulcorato, patinato, quasi pubblicitario, legato sempre all’amore e alla bellezza e utilizzando temi e slogan di chi lavora a favore dei diritti umani e dei movimenti femministi. Durante la conferenza stampa ne è stato dato un ottimo esempio. Claudia Torrisi, giornalista freelance che collabora con Valigia Blu e VICE Italia, tra gli altri, ha fatto di recente un intervento a Bologna sulla questione della comunicazione. Citando alcuni studi americani ha spiegato che «È ormai raro trovare nella narrazione di questi gruppi e nelle loro immagini la classica immagine del feto». La retorica, il lessico e le campagne del WCF e di chi ne fa parte «si rifanno piuttosto a quelle dei gruppi che lavorano a favore dei diritti umani e ai movimenti femministi per dare validità, però, a discorsi che sono invece razzisti o sessisti.


Come stanno le cose, sociologicamente parlando?  La tecnica non è nuova.  I tradizionalisti - sempre semplificando -  usano le stesse armi retoriche dell’avversario, rovesciandole contro i libertari,  per difendere, se stessi, dall’esclusione sociale.  Si sfida il libertarismo  sul principio di non contraddizione.  Il senso concettuale  può essere riassunto così:  “se siete veramente libertari, dovete convenire, che anche noi abbiamo diritto di parola, e soprattutto che, anche noi,  difendiamo gli stessi vostri principi di libertà, estendendoli però a tutti, veramente a tutti,  al feto, alla famiglia eterosessuale, eccetera, eccetera” . Se un assunto  è vero, non può essere vero il suo contrario. Lo diceva già Aristotele,  molto prima delle moderne scienze della comunicazione.
L’argomento è   forte e  di senso comune, dunque sociologico perché rimanda a  valori naturali, diremmo intuitivi,  di giustizia retributiva:  “il dare a ciascuno il suo”.  Mai dimenticare, che le società, come insiemi di individui,  sono più sensibili  alla differenza che all’ uguaglianza. Pertanto,  la rivendicazione delle difformità, alle origini dei  movimenti libertari,  non poteva, prima o poi, essere rivendicata anche  dai movimenti di segno contrario.
Solo che in nome della difformità,  i tradizionalisti difendono valori, non individualistici (che rimettono le scelte all’individuo),  ma collettivistici, di uniformità sociale (che rimettono le scelte al gruppo sociale). Sicché, il conflitto, al netto dei contenuti, sociologicamente parlando, non è tra libertari e tradizionalisti,  ma tra individualisti e collettivisti. Con una particolarità però. Anch’essa sociologica.
In realtà, gli individualisti, per introdurre le nuove regole libertarie, non hanno potuto, non ricorrere allo strumento collettivistico delle pubbliche istituzioni. Altrimenti come avrebbero implementato le nuove regole?  Quindi, i libertari, abbassando la guardia,   hanno fatto pressione sulle istituzioni perché si ricorresse allo  strumento redistributivo, di correzione, dall’alto, del senso comune prevalente,  influenzato dai valori tradizionali.  Dopo di  che, però,  come sta avvenendo, i collettivisti, fiutato il pericolo,  a loro volta,  hanno chiesto alle stesse istituzioni,  una  redistribuzione, in senso contrario. Di qui, l’uso delle stesso linguaggio dei diritti, usato dagli individualisti.  E le conseguenti difficoltà di questi ultimi, contrastati sullo stesso terreno.
Come è stata possibile la commistione tra retributivismo e  redistributivismo? Per una ragione molto semplice: alla base delle posizioni individualiste e collettiviste, o se si preferisce, libertarie e tradizionaliste,  si scorge  la stessa visione costruttivista del ruolo delle  istituzioni pubbliche. Ci spieghiamo meglio: individualisti e collettivisti credono fermamente nella possibilità reale  di costruire e ricostruire le società dall’alto ad libitum.  Vi credono  prescindendo  dai contenuti effettivi difesi (individualisti o  collettivisti). E' una condivisione  di metodo.
Certo, è vero, che la libertà civile dei moderni rinvia alle Carte e alle Rivoluzioni liberal-democratiche, ai Parlamenti, ai Codici civili e di commercio, eccetera, eccetera, quindi a un atto costruttivista,   però è altrettanto vero che la successiva evoluzione del diritto pubblico, scivolato sul piano della tutela dei più pittoreschi diritti sociali,  ha strangolato  il diritto privato, e per eccesso di costruttivismo, i  privati diritti dell’uomo.  
Il conflitto tra libertari e tradizionalisti è un conflitto che avviene all’ombra di un individualismo, un falso individualismo (o libertarismo), protetto dallo stato. Di cui si avvantaggia, solo quest’ultimo, che come gruppo sociale (tra i gruppi sociali),  accresce il proprio  potere a danno dell'individuo.  
Il  bello, anzi  il brutto,  è che l'individuo si crede protetto, mentre in realtà, dopo ogni nuova misura, introdotta dallo stato, si ritrova meno libero di prima.  Ecco il grande inganno, che va oltre il conflitto tra individualisti e collettivisti.  La lotta per il riconoscimento di diritti, via via  scalarmente  sempre più differenziati, implica la sottomissione:  il micro, per la sua attuazione, rimanda al macro. E il macro reclama la sua libbra di carne.    
Ciò significa, come spiega chiaramente la sociologia, e non il solo  Reagan (per i malevoli),  che lo stato non è la soluzione del problema. Ma il problema.  

Carlo Gambescia