Denso articolo di Giuliano Compagno
Male ignorante o banalità del male...
Giuliano Compagno è scrittore raffinato e complesso. Diremmo, una delle poche voci, che pur avendo lontane radici in un mondo culturale oggi fantasmatico - quello dei Veneziani, dei Buttafuoco, personaggi che si straparlano
addosso, come se imperasse ancora Almirante I - riesce a suscitare nel lettore, anche il più smaliziato, l'emozione dell'intelligenza al lavoro.
Non è facile
seguire fino in fondo i suoi sillogismi. Compagno vola alto, seziona l’anima umana con la precisione del chirurgo e la pietà dello scrittore post-romantico. Da
ultimo, a proposito di stragi islamiste, delitti urbani, e vittime collaterali del turismo di massa, egli ha coniato , trafiggendo nell'ordine il nemico esterno ed interno, il concetto di “male ignorante”:
Questa lotteria della morte appare infinitamente meno vera rispetto a un
tempo in cui il male attivava una relazione con chi lo avvertiva se non, addirittura, con chi lo aveva
subito. Era una parte minima della vita. Tant’è
che, se i loro odierni autori fossero in grado di percepire l’ineffettualità di
quel che combinano, forse smetterebbero. Ma il male ignorante è davvero
una brutta bestia. Alcuni auspicano che gli si risponda con la
medesima forza, cieca. Altri non sanno dove andare a parare. Probabilmente una risposta reale sarebbe ora di darla. Non
sarà la guerra, non l’è mai stata. Forse sarebbe un’azione, una decisione vera. Tanto forte a annientare il niente. Si può? (*)
Un passo indietro. La signora Arendt, superbamente, parla di banalità del
male: di un male che si fa routine, nutrito di ordinaria consapevolezza professionale, che tuttavia, in qualche
misura, continua a conservare un fine distinto dai mezzi. Si scivola nella recita di un copione sociale. Per contro, secondo Compagno, il “male ignorante” è il nulla che si affanna, insensatamente, ad abbattersi sul nulla: mezzi su mezzi. Non c'è copione. Manca il fine, anche se c'è lo scopo come vedremo più avanti. Eppure, il
sociologo, non può accontentarsi di registrare. Compagno parla di “un’azione, una decisione
vera”, in grado “di
annientare il niente”, ma dubitando, crediamo di intuire, anche di
questa possibilità.
Che fare allora? Dobbiamo riscoprire i fini. Ma
come? La banalità del male, secondo Hannah Arendt, era il frutto avvelenato di una società che scorgeva nel
male un mezzo per giungere
al bene: il fine. Il male ignorante è solo questione di mezzi, non c’è
alcun fine. Ovvero, solo scopi distruttivi, ai quali - ecco il punto - vanno opposti i fini, ma come qualcosa di più elevato. Si pensi alla distruttiva sfida hitleriana.
Si vinse ricorrendo - nessuna vergogna nel riconoscerlo - a un mix di
bombe e di etica kantiana, quale regno dei fini, ovvero di un' etica che
celebrava e può tornare a celebrare la libertà umana, come irrinunciabile conquista. Certo, con tutte le sue controindicazioni filosofiche e sociologiche. Ma altro non c'era e non c'è, almeno in questo mondo. Giustissimo, il male, anche quello praticato dalle
cosiddette forze del bene, si sporcò le mani, si banalizzò
(Dresda, docet, per non ricordare di
peggio...). Ma c'era un fine, non uno scopo. Insomma, ripetiamo, non l'insensata distruzione per la distruzione perseguita dal male ignorante.
"Un’azione, una decisione
vera" può acquisire senso solo attraverso il recupero dell'
etica della libertà, intesa nel suo senso più alto. Si chiama battaglia di civiltà (liberale): parola grossa e spesso sporcata. Che può però aiutarci a battere il nemico interno (il nichilismo) e al tempo stesso riconquistare la certezza di essere dalla parte giusta. E così fare guerra al nemico esterno (l'islamismo totalitario). Come? Entrando nel regno del male necessario. L'insensatezza del "male ignorante", lasciamola a un Papa, che è tutto fuorché liberale.
Si rischia la deriva della banalizzazione? Forse, anticipata, per farla breve, dai volgari titoli, come da copione, del "Giornale" e di "Libero"? Sì. Però, ecco il punto che ci sta a cuore, la scelta sociologica è tra un rischio, la banalità del male , e una realtà, il male ignorante. Tertium non datur. O di qua o di là.
Si rischia la deriva della banalizzazione? Forse, anticipata, per farla breve, dai volgari titoli, come da copione, del "Giornale" e di "Libero"? Sì. Però, ecco il punto che ci sta a cuore, la scelta sociologica è tra un rischio, la banalità del male , e una realtà, il male ignorante. Tertium non datur. O di qua o di là.
Carlo Gambescia
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