Andare in Libia oppure no?
Le ragioni della pace e della guerra
Ieri
sera sulla mia pagina Fb mi sono
divertito a fare un esperimento. Sull’onda emotiva delle news televisive, dove oltre alle
immagini dei due operai italiani “devastati”
dalla prigionia erano apparse quelle
di Berlusconi e Prodi, devastate
ma dal tempo, ho postato un video, molto
macho sulle forze armate europee: un gigante dormiente. Basterebbe crederci (ecco il sottotesto...).
Il
video non ha ricevuto commenti. Ne deduco - e non è una scoperta - che
militari e guerre non piacciono a nessuno. E non solo agli italiani, dal
momento che la maggior parte dei miei amici Fb non risiede in Italia. Insomma, la gente rimuove.
Purtroppo,
se ci si perdona la metafora facile facile, i militari sono come i medici. Nel senso che la salute va e viene, come la
pace e la guerra, e quindi, inevitabilmente, giunge il momento in cui si deve
chiamare il dottore in divisa cachi. Insomma, dispiace dirlo, del militare non si può fare a meno.
Naturalmente, l’idea
di inevitabilità della guerra,
per culture come la nostra, disabituate da almeno settant’anni “a
pensarla”, è inaccettabile. Il che spiega i tentennamenti, le stupidità
pacifiste di Prodi e Berlusconi, il diffuso buonismo mediatico, la condiscendenza verso il popolo bue, che non aspetta altro. Insomma, tutte
quelle reazioni infantili tipiche di un Paese moralmente impreparato a
combattere, per così dire, dalla testa ai piedi. Quindi se guerra sarà, l’Italia rischia di sbriciolarsi.
E
se non sarà? Nel senso che l’Italia, farà nei prossimi giorni un passo
indietro? Ne vedremo, comunque, di tutti colori. Perché, semplificando, il “neutralismo” è ancora più difficile da
gestire.
Intanto,
diciamo, che in questo modo l’Italia,
si affiderebbe alla benevolenza del nemico. Con tutte le controindicazioni del caso: perché,
l’immagine pubblica che offriremmo sarebbe pessima, ma comunque - va riconosciuto - in linea con
quello che pensano gli alleati di noi: un Paese inaffidabile e pronto a tradire. Quindi nulla di nuovo.
Certo,
così si guadagnerebbe tempo, confidando nella speranza: 1) che le altre nazioni ci tolgano le famigerate castagne dal fuoco e 2)
che il nemico capisca che non
siamo maldisposti nei suoi riguardi, risparmiandoci. Si
chiama doppio gioco, e non è una novità. Soprattutto, per un piccola-media
potenza come l’Italia, da sempre costretta a fare di necessità virtù.
Ora
però, per condurre, una politica del
genere, che ha un suo fondamento realistico, servono uomini politici all’altezza. E, a meno
che Renzi e non si riveli un asso sul piano della politica internazionale, non
ne vediamo in giro. E questo è un problema.
Il
secondo problema, di una politica del doppio gioco, è legato all’evoluzione del conflitto, o meglio dei conflitti in Medio Oriente: se
il fondamentalismo continuasse a
guadagnare terreno, sul piano militare e politico, l’Italia non potrebbe
non schierarsi con gli alleati occidentali… Certo, in linea teorica, potrebbe optare - del resto la storia non è mai priva di sorprese - per il fondamentalismo, esponendosi però agli
attacchi militari degli ex alleati.
Come
si può vedere la partita da giocare è molto complicata. Anche perché, la disunione
occidentale, rischia di allungare i tempi del conflitto in Medio Oriente, anzi
di cronicizzarlo, esponendo l’Europa al terrorismo militare e migratorio. Di qui, la difficoltà crescente, per l’Italia, di non scontentare al tempo stesso alleati e
fondamentalisti. Come dicevo, il neutralismo, è difficile da gestire, forse
più della guerra.
Concludendo,
esistono due possibilità: 1) andare in Libia, giocando la carta della guerra,
nella speranza di vincere e allontanare il pericolo dall’Italia (e dall’Occidente):
ma non siamo moralmente (e forse militarmente) preparati; 2) fare un passo indietro, tentando però di non
scontentare nessuno: ma - eccetto sorprese - non abbiamo politici così abili.
Il
tutto sullo sfondo di un conflitto in Medio Oriente, i cui tempi evolutivi potrebbero essere più
rapidi di quelli necessari ai nostri
politici per decidere. E quindi imprimere alla crisi svolte improvvise e difficilmente controllabili, anche per
politici all’altezza della situazione. Insomma, pensiamo alle conseguenze
tipiche dello stato di guerra. Che
tutti però, eccetto i fondamentalisti, continuano a negare.
Carlo Gambescia
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