sabato 5 marzo 2016

Andare in Libia oppure no?
Le ragioni  della pace  e della guerra




Ieri sera  sulla mia pagina Fb mi sono divertito a fare un esperimento. Sull’onda emotiva  delle news televisive, dove oltre alle immagini dei due operai italiani  “devastati” dalla prigionia  erano apparse quelle  di  Berlusconi e Prodi, devastate ma dal tempo, ho postato  un video, molto macho sulle forze armate europee: un gigante dormiente.  Basterebbe crederci (ecco il sottotesto...).
Il video non ha ricevuto  commenti.  Ne deduco  -  e non è una scoperta -  che  militari e guerre non piacciono a nessuno. E non solo agli italiani, dal momento che la maggior parte dei miei amici Fb non risiede in Italia. Insomma, la gente rimuove.
Purtroppo, se ci si perdona la metafora facile facile, i militari sono come i medici.  Nel senso che la salute va e viene, come la pace e la guerra, e quindi, inevitabilmente, giunge il momento in cui si deve chiamare il dottore in divisa cachi. Insomma, dispiace dirlo, del militare  non si può fare a meno.
Naturalmente,  l’idea  di inevitabilità della guerra,  per culture come la nostra, disabituate da almeno settant’anni “a pensarla”, è inaccettabile. Il che spiega i tentennamenti, le stupidità pacifiste di Prodi e Berlusconi, il diffuso buonismo mediatico, la condiscendenza verso il popolo bue, che non aspetta altro. Insomma, tutte quelle reazioni infantili tipiche di un Paese moralmente impreparato a combattere, per così dire, dalla testa ai piedi.  Quindi se guerra sarà, l’Italia rischia di sbriciolarsi.
E se non sarà? Nel senso che l’Italia, farà nei prossimi giorni un passo indietro? Ne  vedremo, comunque,  di tutti colori. Perché, semplificando,  il “neutralismo” è ancora più difficile da gestire.
Intanto, diciamo, che in questo modo  l’Italia, si affiderebbe alla benevolenza del nemico. Con tutte le controindicazioni del caso: perché, l’immagine pubblica che offriremmo sarebbe pessima, ma comunque - va riconosciuto -  in linea con quello che pensano gli alleati di noi: un Paese inaffidabile  e pronto a tradire. Quindi nulla di nuovo.
Certo, così si guadagnerebbe tempo, confidando nella speranza:  1) che le altre nazioni ci  tolgano le famigerate castagne dal fuoco  e 2) che il nemico capisca che  non siamo maldisposti nei suoi riguardi, risparmiandoci. Si chiama doppio gioco, e non è  una novità. Soprattutto, per un piccola-media potenza come l’Italia,  da sempre costretta a  fare di necessità virtù.  
Ora però, per condurre,  una politica del genere, che ha un suo fondamento realistico,  servono uomini politici all’altezza. E, a meno che Renzi e non si riveli un asso sul piano della politica internazionale, non ne vediamo  in giro. E questo è un problema.
Il secondo problema, di una politica del doppio gioco,  è legato all’evoluzione del conflitto,   o meglio dei conflitti in Medio Oriente: se il  fondamentalismo  continuasse a  guadagnare terreno, sul piano militare e politico, l’Italia non potrebbe non schierarsi con gli alleati occidentali… Certo, in linea teorica,  potrebbe optare - del resto  la storia non è mai priva di sorprese -  per il fondamentalismo, esponendosi però agli attacchi militari degli ex alleati.  
Come si può vedere la partita da giocare  è  molto complicata. Anche perché, la disunione occidentale, rischia di allungare i tempi del conflitto in Medio Oriente, anzi di cronicizzarlo, esponendo l’Europa al terrorismo militare e migratorio.  Di qui, la difficoltà crescente, per l’Italia,  di non scontentare al tempo stesso alleati e fondamentalisti. Come dicevo, il neutralismo, è difficile da gestire, forse più della guerra.
Concludendo, esistono due possibilità: 1) andare in Libia, giocando la carta della guerra, nella speranza di vincere e allontanare il pericolo dall’Italia (e dall’Occidente): ma non siamo moralmente (e forse militarmente) preparati; 2)  fare un passo indietro, tentando però di non scontentare nessuno: ma - eccetto sorprese -  non abbiamo politici così abili.
Il tutto sullo sfondo di un conflitto in Medio Oriente,  i cui tempi evolutivi potrebbero essere più rapidi di quelli necessari  ai nostri politici per decidere. E quindi  imprimere alla crisi  svolte improvvise  e difficilmente controllabili, anche per politici all’altezza della situazione.  Insomma, pensiamo alle conseguenze tipiche dello stato di guerra.  Che tutti però, eccetto i fondamentalisti, continuano a negare. 

Carlo Gambescia

                     
                   

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