martedì 1 ottobre 2019

La grande parata per i settant’anni della Repubblica
La Cina è vicina?



Oggi i  mass  media si  concentrano  sulla parata militare di Pechino.  E soprattutto sui missili intercontinentali che possono colpire Stati Uniti e Occidente.  La Cina, si legge,  celebra,  mostrando i muscoli, i settant’anni della Repubblica.   
In realtà, non enfatizzeremmo le cose, perché i Romanov, pochi anni prima dello scoppio della Prima  guerra mondiale, festeggiarono nel 1913  i trecento anni della dinastia. E poi di lì a breve,  finì come tutti sappiamo. 

La storia è ironica.  Le autocrazie, soprattutto quando provano a modernizzarsi, come insegna l’esperienza degli ultimi tre secoli secoli, rischiano sempre l’implosione politica.  Dalla Francia di Luigi XV alla Russia del Romanov, dall’ ultimo Impero Ottomano al Giappone  dopo  riforme di  fine Ottocento.     
In realtà, l’unica vera rivoluzione che ha  sconvolto  dopo millenni di immobilismo la società cinese si chiama modernizzazione economica, prima ad opera dello stato, poi del mercato.  Quest’ultima apertura, sviluppatasi più decisamente  negli ultimi venti anni, rinvia al 1978:  anno in cui Deng Xiaoping, leader  del partito unico,  annunciò una graduale apertura al mercato, per favorire  preziosi investimenti esteri.
Pertanto, anche se non se parla,  la Cina rischia l’implosione, perché la modernizzazione economica inevitabilmente porta con sé quella sociale e politica. Sono  cose  che  l’attuale dirigenza politica  conosce benissimo. Come  pure sa  che  l’implosione  può essere evitata (certo, sempre fino a un certo punto),  puntando su  una politica estera non aggressiva, favorevole al commercio e agli scambi economici, da cui la Cina, con un costo del lavoro  relativamente basso rispetto all’Occidente, ha tutto da guadagnare. Mentre un guerra potrebbe innescare,  come ad esempio insegnano l’esperienza della Russia e del Giappone, un processo politicamente disgregativo. Del resto la storia della Cina, e in misura maggiore  di altre  unità politiche, anche imperiali, resta  storia di  ricorrenti conflitti tra  pressioni centrifughe e centripete. Toynbee, a suo tempo, estendendo il meccanismo challenge and response alla storia cinese  sostenne come tipica di quel mondo   la natura ricorrente del conflitto  tra poteri centrali e periferici.
Pertanto saremmo cauti nell’attribuire alla Cina potenziali politiche aggressive di tipo militare. Del resto nella sua storia, l’unica fase, in cui essa  rappresentò un pericolo per una Europa, debilitata politicamente, risale ai secoli XIII-XIV, quando la Cina  fu dominata dalla stirpe mongolica,  popolo dalle origini nomadi, divoratore di chilometri,  perciò  in senso lato  - antropologicamente - espansionista. La Cina del Khanato  si spinse, in varie riprese, fino alla Russia meridionale,  non ancora politicamente unificata, tramutandosi in potenza eurasiatica.

La “Via della Seta”, di cui oggi si parla tanto, riprende  l’idea,  però  sublimata e pacificata, dell’espansione mongolica. Niente di militarmente pericoloso:  come la Guerra dei Cento Anni, tra inglesi e francesi,   sta alla successiva evoluzione pacifica della Gran Bretagna, da potenza militare di terra a pacifica  potenza commerciale di mare.     
Crediamo che Xi Jinping  tema più i pericoli della disgregazione interna, dovuti  alla crescente differenza  di   ritmo  tra modernizzazione politica ed economica,    rispetto a quelli  indotti, e aggiuntivi,   da  una politica estera aggressiva fino al punto di sfiorare una guerra con l’Occidente.
Sotto questo aspetto,  la parata militare di Pechino,  ha un valore più interno che esterno. O comunque, sembra essere  un   monito  rivolto a un' area geopolitica limitata.  La Cina, mettendo in vetrina i suoi soldatini di piombo,  dà soddisfazione ai conservatori politici interni, e  soprattutto   parla,  perché “intendano”,  a  Hong Kong, Taiwan e allogeni,  nonché  in via indiretta al Giappone, primo alleato dell’Occidente, suo  nemico storico. E  ovviamente alla Russia.

Concludendo, la Cina è vicina?  Si.  Ma per ora   solo economicamente. E dalla modernizzazione  interna, vista la  crescita galoppante  dei consumi e del reddito pro capite,  potrebbero giungere sorprese.  La forza del libero mercato è superiore a quella di qualsiasi missile intercontinentale.  E vale per tutti: basta essere economicamente competitivi.  E la difesa del welfare state in Occidente, rilanciando il protezionismo,  non aiuta, perché aumenta le tensioni internazionali e favorisce l’influenza dei falchi cinesi, di coloro che non vedono  di buon occhio l’apertura di mercato, perché  capace di favorire  la domanda di democratizzazione.
Come si può intuire,  le cose sono piuttosto complesse.   Il che, per inciso,  la dice lunga, sulla natura superficiale e  controproducente del protezionismo trumpiano, come dei vari sovranismi.  Che non fa bene agli Stati Uniti, non fa bene all’Europa. E ovviamente non aiuta la Cina  a crescere economicamente  e   democratizzarsi.

Carlo Gambescia