giovedì 24 ottobre 2019

Togliere il  voto agli anziani?
Il welfare totalitario di Beppe Grillo

Tra i numerosi commenti all’idea di Grillo di togliere il voto agli over 65  non ne abbiamo letto uno di natura liberale.  Non pochi opinionisti, in particolare gli  ammalati di welfarismo,  si sono concentrati, nel bene come nel male,  sulla disfunzionalità sociale del voto agli anziani: i nostri  Viaggiatori della sera, per citare il titolo di  vecchio ma profetico film con Ugo Tognazzi e Ornella Vanni, dove i sessantenni venivano suicidati, benché in modo soft, per ragioni di costi sociali.       
In sostanza qual è la tesi di  Grillo?   Poiché  si tratta di  gente   sul viale del tramonto,   gli anziani  non avrebbero alcuna percezione e interesse per l'alba di  un futuro migliore.  Mentre i giovani, eccetera, eccetera.  
Tra i commenti  si è letto di tutto.  Addirittura,  che dal momento che  molti  over 65 si astengono dal voto,  la cancellazione dalle liste dell’elettorato attivo  ratificherebbe  una situazione di fatto. Insomma, una scelta  della quale i nonni  dovrebbero essere  perfino grati.  Per la serie post-orwelliana  “noi sappiamo” quale  sia il   bene  per gli anziani.  
In realtà, cosa sfuggita a coloro che si sono limitati a irridere l’idea di Grillo,  siamo dinanzi  all’esternazione, quasi da manuale del perfetto  welfarista totalitario,  di un principio costruttivista e collettivista. Un infernale presupposto che subordina  i diritti individuali  a decisioni  prese in alto, quindi “costruite” a tavolino.  E per giunta  in nome di una collettività che, in termini di interessi, viene considerata  come superiore all’individuo.  Insomma, c'è ben poco da ridere.
Detto altrimenti,  per il "bene della società"   oggi  si potrebbe  togliere  voto, domani la vita.  E sulla base dello stesso ragionamento: molti  "vecchi", quasi sempre “acciaccati”  vivono fino  a ottant’anni, perché appesantire la spesa sanitaria,  eliminiamoli  a settantanove?    Così facciamo loro anche  un favore…  

Per contro, nella concezione  liberale il voto non  è un obbligo: si è sempre  liberi di votare o meno. Senza pagare alcuna penalità.  
Il “fare  politica”,  anche solo recandosi alle urne,  dal liberalismo non è visto  come l’unico fine  nella vita,  ma soltanto  come  uno  tra i tanti, nel quadro di un’esistenza molto ricca,  dove si è liberi di perseguire i propri interessi. Sarà poi la mano invisibile dell’interazione tra gli individui, interazione non solo economica,  a comporli, senza dover  ricorrere a un inesistente occhio collettivo capace, come spesso si legge,  di prevedere e costruire il futuro a tavolino.  La composizione invisibile  sarà  armonica  o meno? Non è dato sapere. Perché c'è una cosa - fondamentale - che si chiama  libertà.   Libertà anche di sbagliare. E l'errore è inseparabile dall'esercizio della libertà.

Ciò  significa   che l’obbligatorietà del voto,   in Italia tuttora  sanzionata in via amministrativa,   rinvia a una visione panpolitica e illiberale,  da  cui discende l’idea della  mano visibile dello stato, ritenuta capace di comporre forzosamente, e dall’alto,  i vari interessi individuali, nel nome di un futuro migliore,  scorto in modo perfetto, quindi privo di errori, dall’occhio  collettivo di cui sopra.            

Di conseguenza,  il nocciolo welfarista-totalitario  del discorso di Grillo non rinvia tanto, come si potrebbe supporre,  alla questione dei  "giovani" contro i  "vecchi",  quanto in filigrana alla nociva  credenza  nell’idea di uno  stato capace  di programmare  il futuro sulla base di una logica funzionale teorizzata  da una autocrazia welfarista, che statistiche alla mano, sostiene di sapere, senza alcun margine di errore, quel  che sia  bene per ogni individuo.  
In diritto perciò di stabilire chi debba votare e vivere…


Carlo Gambescia