Togliere il voto agli anziani?
Il welfare totalitario di Beppe Grillo
Tra
i numerosi commenti all’idea di Grillo di togliere il voto agli over 65 non ne abbiamo letto uno di natura liberale. Non
pochi opinionisti, in particolare gli ammalati di welfarismo, si sono concentrati, nel bene come nel male, sulla disfunzionalità
sociale del voto agli anziani: i nostri Viaggiatori della sera, per citare il titolo di vecchio ma profetico film con Ugo Tognazzi e Ornella Vanni, dove i sessantenni venivano suicidati, benché in modo soft, per ragioni di costi sociali.
In sostanza qual è la tesi di Grillo? Poiché si tratta di gente sul viale del tramonto, gli anziani non avrebbero alcuna percezione e interesse per l'alba di un futuro migliore. Mentre i giovani, eccetera, eccetera.
Tra i commenti si
è letto di tutto. Addirittura, che dal momento che
molti over 65 si astengono dal voto, la cancellazione
dalle liste dell’elettorato attivo ratificherebbe una situazione di fatto. Insomma, una scelta della quale i nonni dovrebbero essere perfino grati. Per la serie post-orwelliana “noi sappiamo” quale sia il bene per gli anziani.
In
realtà, cosa sfuggita a coloro che si sono limitati a
irridere l’idea di Grillo, siamo dinanzi
all’esternazione, quasi da manuale del perfetto welfarista totalitario, di un principio costruttivista e
collettivista. Un infernale presupposto che subordina i diritti
individuali a decisioni prese in alto, quindi “costruite” a tavolino. E per giunta in nome di una collettività che, in termini di interessi, viene considerata come superiore all’individuo. Insomma, c'è ben poco da ridere.
Detto altrimenti, per il "bene della società" oggi si potrebbe togliere voto, domani la vita. E sulla base dello stesso ragionamento: molti "vecchi", quasi sempre “acciaccati” vivono fino a ottant’anni, perché appesantire la spesa sanitaria, eliminiamoli a settantanove? Così facciamo loro anche un favore…
Detto altrimenti, per il "bene della società" oggi si potrebbe togliere voto, domani la vita. E sulla base dello stesso ragionamento: molti "vecchi", quasi sempre “acciaccati” vivono fino a ottant’anni, perché appesantire la spesa sanitaria, eliminiamoli a settantanove? Così facciamo loro anche un favore…
Per contro, nella
concezione liberale il voto non è un obbligo: si è sempre liberi di votare o meno. Senza pagare alcuna penalità.
Il “fare politica”, anche solo recandosi alle urne, dal liberalismo non è visto come l’unico
fine nella vita, ma soltanto come uno tra i tanti, nel quadro di un’esistenza molto ricca, dove si è liberi di perseguire i propri
interessi. Sarà poi la mano invisibile dell’interazione tra gli individui,
interazione non solo economica, a
comporli, senza dover ricorrere a un
inesistente occhio collettivo capace, come spesso si legge, di prevedere e costruire il futuro a tavolino.
La composizione invisibile sarà armonica o meno? Non è dato sapere. Perché c'è una cosa - fondamentale - che si chiama libertà. Libertà anche di sbagliare. E l'errore è inseparabile dall'esercizio della libertà.
Ciò
significa che l’obbligatorietà
del voto, in Italia tuttora sanzionata in via amministrativa, rinvia
a una visione panpolitica e illiberale, da cui
discende l’idea della mano visibile
dello stato, ritenuta capace di comporre forzosamente, e dall’alto, i vari interessi
individuali, nel nome di un futuro migliore, scorto in modo perfetto, quindi privo di errori, dall’occhio collettivo di cui sopra.
Di
conseguenza, il nocciolo welfarista-totalitario
del discorso di Grillo non
rinvia tanto, come si potrebbe supporre, alla questione dei "giovani" contro i "vecchi", quanto in filigrana alla nociva credenza nell’idea di uno stato capace
di programmare il futuro sulla base di una logica funzionale
teorizzata da una autocrazia welfarista,
che statistiche alla mano, sostiene di sapere, senza alcun margine di errore, quel che sia bene per ogni individuo.
In diritto perciò di stabilire chi debba votare e vivere…
Carlo Gambescia