L'editoriale di Panebianco sul "Corriere" di oggi
A buon intenditor…
di Carlo Gambescia
Di
seguito pubblichiamo l’editoriale di Angelo Panebianco, uscito
questa mattina sul “Corriere
della Sera”, perché
la grave situazione politica italiana non potrebbe
essere descritta meglio.
Con una
novità però. Diciamo emotiva. Invito gli amici lettori a notare, come a
differenza di altri
editoriali, i toni di oggi, al di là della consueta chiarezza
analitica, siano veramente
preoccupati. Si avvertono
timori, e non solo tra le righe, che rinviano al clima di un’altra svolta… Quale? Quando si dice ironia
della storia: il
settennato presidenziale, come ricorda Panebianco, scadrà nel 2022. A cento anni esatti
dalla Marcia su Roma…
Però a
differenza del professore, riteniamo che Mattarella, pur
avendo alcuni strumenti costituzionali per fronteggiare il pericolo
“rivoluzionario”, non abbia
gli strumenti concettuali. Sia detto, per carità, senza voler recare
offesa alla massima carica dello stato, ma il Presidente della
Repubblica finora, o per ragioni politiche o per ragioni di formazione
intellettuale, ha dato
prova di non poter andare
oltre il cliché del democristiano di sinistra. Semplificando: Mattarella sembra non
aver capito che la vittoria del “panpoliticismo” giallo-verde non è il portato del popolarismo ma del populismo. Purtroppo, il “popolo” che vota Salvini e Di Maio vuole
capi, cesari, castigamatti, non ministri benedicenti e taglianastri, notai della costituzione e felpati professori dal tono ecumenico. E più lo si blandisce - il popolo livoroso - più pretende e rilancia, perché fiuta l'odore del sangue. In altri
termini, avverte l'indebolirsi, giorno dopo giorno, delle istituzioni. E di questo profittano i "capipopolo". Machiavelli docet.
Siamo o
non siamo, come scrive Panebianco, dinanzi a una “rivoluzione”?
E che cosa impone una rivoluzione, se la si vuole contrastare? Scelte drastiche. Pertanto, il
costituzionalismo puro può non essere sufficiente per difendere la
liberal-democrazia. Ecco il paradosso. Dal quale, però, si deve in
qualche modo uscire, se si vuole fare il bene del popolo. Anche a sua
insaputa. E, comunque sia, contro i suoi cattivi voleri del momento.
Certo,
Mattarella in vista del 2022, come giustamente ritiene Panebianco,
rappresenta una specie di nuova
linea (politica) del Piave. Però,
ecco il punto, dietro il Piave c’è volontà di resistere o di vincere? Perché sono due cose differenti. Gli “argini economici”, potrebbero non
resistere. Anzi la stretta difesa degli stessi potrebbe favorire il gioco
dell’avversario, sempre pronto a enfatizzare, l’economicismo dei “nemici del
popolo”. E dunque a rilanciare, puntando sul tanto peggio tanto meglio.
Per
contro, crediamo si debba puntare sulla vittoria, anche quando può
apparire lontana. Mai rimanere sulla difensiva, soprattutto in simili situazioni. Mai scegliere l'attesa. Indugiare, come sembra accadere, magari concedendo il famigerato dito, al quale può seguire
la mano, il braccio, eccetera, eccetera.
Come
vincere però? Panebianco
evidenzia giustamente la
natura eversiva del governo giallo-verde. Scorge
lo “stato di eccezione” ma, come sembra, non i rimedi. Che, dal nostro umile e
personale Albergaccio, crediamo debbano essere commisurati
alla "eccezionalità" e gravità degli eventi politici.
A buon intenditor...
Carlo Gambescia
***
La politica vorace
e gli argini (*)
di Angelo
Panebianco
Anche se è un evento raro, accade, di tanto in tanto , che in una democrazia , in virtù di regolari
elezioni, il governo cada in mano a forze rivoluzionarie, propense a cambiare
radicalmente i «fondamentali»: dalla collocazione internazionale del Paese ai
rapporti fra politica ed economia, alle stesse regole del gioco
(costituzionali) su cui si regge la democrazia rappresentativa. Il «governo del
cambiamento» insediatosi dopo le elezioni del 4 marzo 2018 ha questa natura. Ma
esso incontra , nella sua azione , la resistenza di figure istituzionali il cui
compito consiste nel difendere quei fondamentali. Coloro che le incarnano sono
stati scelti , nella stagione politica precedente, per quello scopo , non per
assecondare il desiderio dei «rivoluzionari di governo» di mandare a gambe
all’aria il tavolo. Per inciso, non è sicuro che le attuali, quotidiane baruffe
fra Lega e 5 Stelle preannuncino una imminente crisi di governo . Il potere
esercitato qui e ora ha un odore e un sapore inebrianti e una crisi di governo
si sa come comincia e non si sa come finisca. In ogni caso, anche se il governo
cadesse, nulla capiremmo del nostro futuro prima di conoscere i risultati delle
prossime elezioni politiche. Se stiamo ai fatti anziché alle supposizioni,
dobbiamo constatare che al momento il governo del cambiamento è bilanciato
soprattutto da una figura istituzionale: il presidente della Repubblica.
Non c’è ambito nel quale le forzature tentate dal governo giallo-verde non abbiano incontrato la
resistenza del presidente. Chiariamo: ciò avviene nel rispetto dei poteri che la Costituzione assegna
alla presidenza. Chi, ad esempio, pretende che Mattarella non firmi questa o
quella legge regolarmente approvata da una maggioranza parlamentare, gli sta
chiedendo di arrogarsi poteri che non ha. Ma, nel rispetto dei limiti che la Costituzione pone
alla sua azione, il presidente opera in difesa dei fondamentali. Si pensi alla
collocazione internazionale del Paese e a quanto salato in termini di spread —
come Francesco Giavazzi ha chiarito sul Corriere di ieri — sia il conto che paghiamo a
causa delle posizioni del governo. L’antieuropeismo e l’antiatlantismo
ampiamente presenti, se non dominanti, nella maggioranza di governo, vengono
oggi tenuti a bada, per quel che gli compete, solo dal presidente Mattarella.
Lo testimoniano, ad esempio, la sua azione di ricucitura al momento della
improvvida crisi diplomatica fra Italia e Francia e i paletti che ha cercato di
mettere, a nostra futura garanzia, in occasione dell’accordo Italia- Cina.
Oppure si pensi all’opera di difesa della
indipendenza di Bankitalia contro la volontà della maggioranza, o
di settori di essa, di riportarla, dopo decenni, sotto il controllo della
politica. Un’opera che ha una doppia valenza: sovranazionale e interna.
Sovranazionale perché su quella indipendenza si fonda la nostra appartenenza
all’Europa monetaria. E interna perché svolta in difesa di una continuità e una
stabilità istituzionale necessarie per garantire che la ricchezza nazionale, e
i risparmi degli italiani, non vengano dilapidati da un «panpoliticismo» che
tutto vuole divorare. Un panpoliticismo, aggiungo, proprio di forze che devono
il loro successo all’aver cavalcato la cosiddetta antipolitica. Il
panpoliticismo, checché se ne dica, non è «in contraddizione» con
l’antipolitica: ne conferma piuttosto l’ inconsistenza, teorica e pratica.
Si consideri anche quanto sta accadendo in
questi giorni. Il presidente ha dovuto firmare la legge
istitutiva di una Commissione di inchiesta sulle banche. Ma ha anche chiarito,
con la sua lettera, che la
Commissione non potrà travalicare i suoi poteri, non potrà
mettere le mani della politica nei più delicati ingranaggi del sistema del
credito, non potrà essere il cavallo di Troia delle suddette pulsioni
panpoliticiste. Chi pensa che il governo sia agli sgoccioli spera che fra non
molto l’opera di difesa dei fondamentali in cui è impegnato il presidente non
sia più necessaria. C’è chi immagina che presto si tornerà a una «normale»
dialettica fra centrodestra e centrosinistra e che, anche nel caso che un
centrodestra a trazione leghista vinca, il governo non avrà più comunque la
carica rivoluzionaria che oggi possiede. C’è da dubitare che quella «normale
dialettica» fra destra e sinistra si ricostituisca. Essa appartiene a un’epoca
finita: l’epoca del maggioritario. Siamo tornati alla proporzionale e in regime
di proporzionale la cosiddetta normale dialettica è di altro tipo. È vero che
il centrodestra e il centrosinistra esistono ancora sul piano locale e
regionale. Ma ciò accade perché localmente e regionalmente perdurano meccanismi
maggioritari. Se così è, non dobbiamo chiederci se alle prossime elezioni
vincerà il centrosinistra o il centrodestra. Dobbiamo chiederci se ci sarà
ancora in Parlamento, quale che sia la futura distribuzione delle forze, una
maggioranza nazional-populista (detta «sovranista»), una maggioranza che di
nuovo punterebbe a rimettere in discussione le antiche collocazioni e le
antiche regole. Magari, tale maggioranza potrebbe avere le sembianze di un
leghismo più forte di oggi (anche se forse non tanto quanto dicono i sondaggi)
e un movimento 5 Stelle ridimensionato ma non del tutto. C’è una circostanza
che potrebbe giocare a favore della ricostituzione — magari dopo una confusa
fase intermedia — di una maggioranza nazional-populista in Italia (e del
successo di gruppi simili in altre parti d’Europa): è possibile che Donald
Trump ottenga un secondo mandato. Ciò favorirebbe i suddetti gruppi.
Nel 2022 scadrà il settennato di Mattarella. In politica tre anni sembrano un’eternità ma
non lo sono. Se in quel momento ci sarà in Parlamento una maggioranza non
troppo dissimile dall’attuale, quali che ne siano gli equilibri interni, allora
quella maggioranza «si prenderà» la presidenza e non ci sarà più nessuna forza
di bilanciamento. Ciò dovrebbe chiarire quale sia la vera futura posta in
gioco. Le prossime elezioni politiche non serviranno solo a decidere come sarà
composto il nuovo governo. Decideranno anche le sorti della democrazia
italiana.
Angelo Panebianco