Il governo giallo-verde e la Libia
Tripoli bel suol d’amor? Magari…
Dalla dipartita, tipo banda della Magliana, di Gheddafi, con regolarità di un moto pendolare, appena la
situazione politica libica si complica
sul campo, in Italia si ricomincia a discutere
sulle responsabilità politiche circa la caduta del dittatore. Sembra
che sia l’unico problema.
Il rinato partito anti-francese,
come ai tempi di Crispi, ritorna a prendersela con Sarkozy e Berlusconi. Il
partito anti-americano, mai scomparso
dal fascismo (prima e dopo la caduta), se la prende invece con Obama, confidando in Trump. Che
invece, notizia di oggi, vuole ritirare
le ultime esigue truppe americane, lasciandoci comunque da soli con il cerino Al- Sarraj in mano.
Inoltre, i partiti anti-tutto, ora ben
presenti all’interno del governo
giallo-verde, sono a loro volta divisi tra i sostenitori, sotterranei o meno, di una
delle fazioni che si contengono il potere il Libia. Il che rischia di ripercuotersi
politicamente sui compiti dei militari italiani impegnati sul campo. Ricordate Sordi, in “Tutti a casa”? "Comandante, i tedeschi si sono alleati con gli americani…". Nulla sembra essere mutato.
Cosa non va? Che
sulla Libia non si è mai capito, e oggi più che mai, che non bastava far
cadere Gheddafi. Si doveva pensare al dopo. A come stabilizzare la situazione
politica libica da subito. Pertanto, si
dovevano inviare in loco, istruttori,
soldati, polizia personale civile, per presidiare il territorio con le armi.
Esporsi insomma. Calzare gli scarponi chiodati del castigamatti delle duecento e passa milizie armate libiche.
Si dirà, che la storia ha
bocciato certi sistemi e che oggi esistono l’Onu, l’Ue, eccetera, eccetera. Diciamo che questo, come il mito dell’ombrello americano, è un comodo paravento per non fare nulla e aspettare (anche se non si sa bene che
cosa). E nel frattempo ripetere, con il ritmo di quei pupazzetti a molla che un tempo uscivano dalle scatole regalo, che la Francia vuole rubarci la Libia. Ecco la funzione di Salvini e Di Maio. Ovviamente, gonfiando il petto e levando gli occhi verso il cielo.
Notare però come al linguaggio nazionalista si accompagni
l’inazione politica. Si abbaia, peggiorando la qualità dei rapporti con l’Ue,
con la Francia ,
eccetera, eccetera, per poi starsene comodi a cuccia, discutendo amabilmente (ma neppure tanto) di flat tax e reddito di cittadinanza.
Intanto però il tempo è scaduto. La situazione libica è compromessa. Pertanto, un intervento diretto italiano
- ammesso e non concesso, eccetera - potrebbe essere molto costoso in termini umani ed economici. E del
resto, l’Italia, sul piano militare, delle risorse per intendersi, è messa
maluccio.
Quindi si dovrebbe essere
prudenti. E invece si abbaia. E non
contro le fazioni libiche, ma contro Macron. Guardandosi bene dallo stuzzicare
Turchia ed Egitto. Quanto a Trump, arrabbiato per gli accordi italo-cinesi, si fa finta di niente. La bronzea faccia del Premier Conte è tutto un programma.
Anche perché se la Libia si disgregasse del
tutto, il Mediterraneo potrebbe riempirsi
di barconi. Una manna per Salvini. Si
fregherebbe le mani: altri voti razzisti. Mentre Di Maio potrebbe prendersela
con Francia e Germania. Altri voti pure
quelli. Insomma, il tanto peggio tanto meglio
applicato alla politica estera.
Come si può facilmente intuire, nell’Italia
populista la politica interna comanda sulla politica esterna. Il che non aiuta, perché mentre noi restiamo fermi, il mondo, tutto intorno, si muove. In
politica estera vige una regola: che l’oggi è già
domani. Perché, se ignorato, il domani regolarmente si vendica. In politica estera non servono i distruttori, per giunta finti, ma i tessitori. Citofonare a Cavour, Giolitti e De Gasperi.
Carlo Gambescia