lunedì 8 aprile 2019

Il governo giallo-verde e la Libia
Tripoli bel suol d’amor? Magari…

Dalla dipartita, tipo banda della Magliana, di Gheddafi, con regolarità di un moto pendolare, appena la situazione politica libica  si complica sul campo, in Italia si ricomincia a discutere  sulle responsabilità politiche  circa la caduta del dittatore.  Sembra che sia l’unico problema. 
Il rinato partito anti-francese, come ai tempi di Crispi, ritorna a prendersela con Sarkozy e Berlusconi. Il partito anti-americano, mai scomparso  dal fascismo (prima e dopo la caduta), se la prende  invece con Obama, confidando in Trump. Che invece, notizia di oggi,  vuole ritirare le ultime esigue truppe americane, lasciandoci comunque da soli con il cerino Al- Sarraj in mano.   
Inoltre,  i partiti  anti-tutto,  ora  ben presenti  all’interno del governo giallo-verde,  sono a loro volta divisi  tra i sostenitori, sotterranei o meno, di una delle fazioni che si contengono il potere il Libia. Il che rischia di  ripercuotersi  politicamente sui compiti  dei militari italiani impegnati sul campo. Ricordate Sordi,  in “Tutti a casa”? "Comandante, i tedeschi si sono alleati con gli americani…".  Nulla sembra essere mutato. 
Cosa non va?  Che  sulla Libia non si è mai capito, e oggi più che mai, che non bastava far cadere Gheddafi. Si doveva pensare al dopo. A come stabilizzare la situazione politica libica da subito. Pertanto,  si dovevano inviare in loco, istruttori,  soldati,  polizia  personale civile,  per presidiare il territorio con le armi. Esporsi insomma. Calzare gli scarponi chiodati  del castigamatti delle duecento e passa milizie armate libiche.
Si dirà, che la storia ha bocciato certi sistemi e che oggi esistono l’Onu, l’Ue,  eccetera, eccetera. Diciamo che questo, come il mito  dell’ombrello americano,  è un comodo paravento per non fare nulla  e aspettare (anche se non si sa bene che cosa). E nel frattempo ripetere, con il ritmo di quei pupazzetti a molla che un tempo uscivano dalle scatole regalo, che la  Francia vuole  rubarci la Libia.  Ecco la funzione di  Salvini e Di Maio. Ovviamente, gonfiando il petto e  levando gli occhi verso il cielo. 
Notare però come al  linguaggio nazionalista si accompagni l’inazione politica. Si abbaia, peggiorando la qualità dei rapporti con l’Ue, con la Francia, eccetera, eccetera,  per poi  starsene comodi  a cuccia,  discutendo amabilmente (ma neppure tanto) di flat tax e  reddito di cittadinanza.    
Intanto però  il tempo è scaduto.  La situazione libica è compromessa.  Pertanto,  un intervento diretto italiano -  ammesso e non concesso, eccetera   -    potrebbe essere molto costoso in termini umani ed economici. E del resto, l’Italia, sul piano militare, delle risorse per intendersi,  è messa maluccio. 
Quindi si dovrebbe essere prudenti. E invece si abbaia.  E non contro le fazioni libiche, ma contro Macron. Guardandosi bene dallo stuzzicare Turchia ed Egitto.   Quanto a Trump, arrabbiato per gli accordi italo-cinesi,  si fa finta di niente. La  bronzea faccia  del Premier Conte è tutto un programma.  

Anche perché  se la Libia si disgregasse del tutto, il Mediterraneo potrebbe riempirsi di barconi. Una manna per  Salvini.   Si fregherebbe le mani: altri voti razzisti. Mentre Di Maio potrebbe prendersela con  Francia e Germania. Altri voti pure quelli. Insomma,  il tanto peggio tanto meglio applicato alla politica estera. 
Come si può facilmente intuire, nell’Italia populista la politica interna comanda sulla politica esterna. Il che non aiuta,  perché mentre noi restiamo fermi, il mondo, tutto  intorno,  si muove. In politica estera vige una regola:  che  l’oggi  è  già domani. Perché, se ignorato,  il domani regolarmente si vendica.  In politica estera non servono i distruttori, per giunta finti, ma i tessitori.   Citofonare a Cavour, Giolitti  e De Gasperi.       


Carlo Gambescia