mercoledì 24 aprile 2019

Il 25 Aprile e il populismo




Premessa. La tesi del totalitarismo, come visione antiliberale del mondo, in Italia non ha mai avuto molti sostenitori, né nei circoli colti, né tra la gente comune.   
In pratica, l’intera storia repubblicana  è solcata  dalla divisione netta tra fascisti e antifascisti: i primi visti come nemici della democrazia,  i secondi come  i suoi difensori. E il liberalismo? Roba da ricchi.
Va detto che quei giorni di aprile  furono vissuti  da molti italiani  come liberazione dalla paura.  La Liberazione, prima che fatto politico, fu fatto collettivo, fu come un grande respiro di sollievo.
Nel dopoguerra però  questo  patrimonio psicologico, invece di essere tradotto in sonanti valori liberali fu monopolizzato dalla sinistra. Nel nome della democrazia (attenzione,  non liberal-democrazia) qualsiasi tentativo di spostamento a destra  era  pavlovianamente  condannato come  tradimento.  Fino al punto, che  dopo il Sessantotto,  l' epiteto di fascista fu   automaticamente esteso a tutti coloro che pur non provando alcuna simpatia per il Movimento Sociale Italiano non credevano nemmeno nella democraticità del Partito Comunista Italiano  e  in  quella  dei gruppetti politici alla sua sinistra.
Il 25 Aprile, che negli anni  del Centrismo democristiano era saggiamente  celebrato  in sordina  per non fomentare divisioni e riaprire ferite,  tra gli anni Sessanta  e Settanta  si trasformò invece  nell’apoteosi  della Resistenza  in nome di un antifascismo targato Pci. In realtà,  si trattò di  una tradizione inventata, perché alla  Resistenza, che comunque non fu fenomeno di massa, parteciparono anche  monarchici, cattolici, liberali, socialisti riformisti. Diciamo che il Pci, senza incontrare grandi opposizioni tra i  partiti costituzionali,  si appropriò del copyright. 

Questa matrice di sinistra, per giunta comunista, favorita dal progressismo laico di stampo azionista, non ha mai  aiutato la ricomposizione politica dell’Italia intorno a comuni valori liberali e democratici.  Il Pci, per dirla tutta,   accettò   i valori democratici,  ma solo  in  chiave leninista:   per conquistare il potere.  Vedeva nel Parlamento il  mezzo per combattere dall'interno la democrazia rappresentativa, squalificandone contenuti e valori liberali. Grazie anche al rifiuto, mai dimenticarlo, di mettere sullo stesso piano totalitarismo comunista e fascista. Rifiuto tipico  dei circoli intellettuali colonizzati dal marxismo e dal democraticismo:  ai comunisti si riconoscevano,  comunque  e sempre,  le buone intenzioni;  se  sbagliavano era sempre a  fin di bene.
Pertanto la celebrazione del 25 Aprile  non poteva non  assumere una  connotazione di sinistra, trasformando la divisione tra fascisti e antifascisti, come del resto provano  gli anni dei governi berlusconiani,  in una continuazione della Guerra Civile  con altri mezzi.
Naturalmente, nel tempo, un  antifascismo così inteso   -  di parte, insomma senza la parificazione totalitaria -   non poteva non spaventare l’elettorato moderato e conservatore, facilitando  la rinascita e diffusione di quei luoghi comuni, un tempo patrimonio  dei soli neofascisti,  rivolti  a giustificare il fascismo: dalla natura indisciplinata degli italiani all’importanza dell’arrivo in orario dei treni.

In politica  a ogni azione segue una reazione.  E i colpi di accelerazione nei riguardi dell’antifascismo, soprattutto durante la Seconda Repubblica, non potevano non favorire controspinte di tipo fascistoide,  nel senso di atteggiamenti  affini o inclini al fascismo, in cui il populismo  -  lo stesso che fu alle origini del fascismo  - oggi sguazza.
Sicché,  da un lato   spicca  la  minimizzazione  fascista, che fa breccia nella gente comune, ammalatasi di populismo, dall’altro l’ enfatizzazione antifascista, sempre più patrimonio di una sinistra altrettanto isterica e populista.  A farne le spese è l’idea liberale, invisa a fascisti e antifascisti. Ieri come oggi.     
Di conseguenza, anche quest'anno,  ci ritroviamo  a celebrare un 25 Aprile, che continua a dividere gli italiani. Con una differenza però. Anzi due.  Che i populisti, quelli veri (altro che Berlusconi), sono al potere.  E  pure all’opposizione.    


Carlo Gambescia