domenica 7 aprile 2019

Crisi europea, come uscirne?
Le tre lezioni di Tocqueville


Anche Tocqueville non è più  letto come un tempo. Raymond Aron lo  incluse a sorpresa  una cinquantina di anni fa   in una  storia della sociologia, divisa per “tappe”. E Tocqueville, era  dopo Marx e prima di Weber (1). Tuttavia, al pensiero sociologico del 1968 (e del post-1968) non è mai piaciuto: troppo liberale,  troppo aristocratico.  
Oggi, almeno per quel che ci consta, gli studenti di sociologia e di scienze della comunicazione neppure ne ricordano il nome. Inoltre,  la politica,  Francia a parte (forse),  è troppo concentrata  su come vezzeggiare il popolo:  la demagogia  e il conformismo populista la fanno da padroni.  In una parola, per molti opinionisti e studiosi  Tocqueville non è un pensatore attuale. 
Quale può essere allora il suo lascito?  Come per Guizot e Constant,  Tocqueville  è un  liberale triste, un realista che conosce, e descrive con grande lucidità i tragici pericoli del conformismo di massa e del perfido legame tra assistenza sociale e asservimento  dell’individuo.  
Tocqueville  sottolinea, forse per primo, il   vincolo perverso  tra accentramento statale e welfare:  un cappio al quale egli  vede  profeticamente appesa la democrazia europea.  Assai  pregnanti restano  le sue critiche al carattere socialista della rivoluzione del 1848 e a ogni forma di pubblico assistenzialismo. A suo dire pericolosissimo,  soprattutto in una società  “amministrativa” e “democratica”,  dove tutti,  già allora, usavano  tendere la mano verso lo stato. E  lo stato, a sua volta,  come un nuovo dio in terra  rimetteva i peccati in cambio dell’anima.   Un' analisi  di  grande preveggenza,  come del resto si può evincere  dalla raccolta di testi  sul pauperismo, di cui esiste un’eccellente edizione italiana (2). E questa è la sua prima lezione.
Come togliersi il cappio dal collo?   Come promuovere la libertà?  Qui il liberalismo di  Tocqueville da triste si fa addirittura tragico.
Come fare,  osserverà ne  La democrazia in America (1835-1840), se le tendenze  stesse del nostro  tempo  remano contro la libertà?

 «I nostri contemporanei sono continuamente travagliati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno, né dell’alto di questi istinti contrari, cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immagino un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini, combinano centralizzazione e sovranità popolare. Questo dà loro  un po’ di sollievo. Si consolano del fatto di essere sotto tutela, pensando che essi stessi hanno scelto i loro tutori. Ciascuno sopporta di essere tenuto al laccio, perché vede che non è un uomo o un classe a tenerne in mano il capo, ma il popolo stesso. In un sistema del genere i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per disegnare il loro padrone, e poi vi rientrano.» (3).

Esiste forse migliore definizione del concetto di individualismo protetto? No.  E questa è la seconda lezione di Tocqueville.
Ma c’è dell’altro, molto prima della tanto celebrata Scuola di Francoforte,  Tocqueville,  coglie l’essenza dell’ industria culturale nella società di  massa. Il passo merita di essere citato per esteso. 

«Capitolo Quattordicesimo. L’INDUSTRIA CULTURALE. La democrazia non solo fa penetrare il gusto delle lettere nelle classi industriali, introduce anche una certa mentalità industriale in seno alla letteratura. Nelle aristocrazie, i lettori sono difficili e poco numerosi; nelle  democrazie è meno faticoso riuscire a piacere ad essi e il loro numero è enorme. Il che significa che, nelle aristocrazie, non si può sperare di riuscire, se non a prezzo di immensi sforzi, e che questi sforzi si possono, se possono procurare molta gloria, non possono però mai  fruttare molto denaro; presso le nazioni democratiche invece uno scrittore può lusingarsi  d’ottenere con poca fatica una mediocre fama e una grande fortuna. Non è necessario per questo che lo si ammiri, basta che incontri il favore del pubblico.
La massa sempre crescente dei lettori e il bisogno continuo che hanno del nuovo, assicurano lo smercio di un libro che magari non è da essi stimato.
In tempi di democrazia, il pubblico si comporta spesso con gli autori come fanno generalmente i Re coi loro cortigiano: li  arricchiscono e li disprezzano. Di che cosa hanno bisogno di più le anime venali che nascono nelle corti o che sono degne di vivervi?
Le letterature democratiche forniscono sempre di questi autori che non vedono nelle lettere che un’industria e, per un grande scrittore che è dato incontrarvi, si contano a migliaia gli spacciatori.» (4).

E questa è la terza lezione.
Tocqueville ci può aiutare  a uscire dalla crisi europea? Sì e no.  Il populismo, non è che la continuazione con altri mezzi, più  moderni (a cominciare dai Social), del conformismo democraticista  da lui così ben  individuato.  Pertanto Tocqueville fornisce uno schema interpretativo ancora oggi valido. Però al tempo stesso sottolinea, enunciandone le ragioni strutturali,  quanto sia difficile nell’età della democrazia di massa,  sottrarsi alla tirannia della sovranità popolare,  e per giunta, assumendo il duro  dovere di  non  rinnegare  le conquiste del liberalismo moderno.
Tocqueville -  come Guizot e  Constant -  pone l’accento su un liberalismo aristocratico e  scomodo,  perché  inviso alle masse, supinamente   in cerca di padroni. Sicché, chiunque oggi  ponga la questione politica  si sente subito rispondere:  sì all’individualismo, ma assistito; sì alla libertà di pensiero, ma solo per le idee che incontrano il favore del popolo.  E così via.  
Come  giustamente osserva Tocqueville,  «i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per designare il loro padrone, e poi vi rientrano».  Pertanto la grande questione di fondo non è come reintrodurre elementi di  liberalismo in una società di massa. Ma qual è allora?  
La crisi europea, e italiana, imporrebbe un netto cambio di paradigma, dal democraticismo a liberalismo. Ma come opporsi alle tendenze strutturali individuate da Tocqueville?  Due possibilità.
Intervenire,  per imporre il mutamento di paradigma, senza tanti complimenti, rischiando la ribellione  delle masse,  oppure,  attendere che il ciclo politico democraticista  faccia il suo corso, con il rischio però che il tracollo populista rafforzi le élite illiberali. Insomma, il pericolo, in caso inazione,  è quello di finire nelle mani dei nemici del liberalismo come della democrazia. 
Come si può capire, la strada è comunque  in salita, stretta e tortuosa. Eppure, per dirla con un grandissimo poeta tedesco , «dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva».

Carlo Gambescia

(1) Raymond Aron,  Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 1972,  pp. 207-280, 543-580.  
(2) Alexis de Tocqueville (1805-1859), Il pauperismo, a cura di Mario Tesini,  Edizioni Lavoro, Roma 1998.  
(3)  Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, in Id. Scritti politici, a cura di Nicola Matteucci, Utet, Torino 1981, vol. II, p.  813.
(4) Ibid., p. 549.