Crisi europea, come uscirne?
Le tre lezioni di Tocqueville
Anche Tocqueville non è più letto come un tempo. Raymond Aron lo incluse a sorpresa una cinquantina di anni fa in una storia della sociologia, divisa per “tappe”. E Tocqueville, era dopo Marx e prima di Weber (1). Tuttavia, al
pensiero sociologico del 1968 (e del post-1968) non è mai piaciuto: troppo
liberale, troppo aristocratico.
Oggi, almeno per quel che ci consta, gli studenti di sociologia
e di scienze della comunicazione neppure ne ricordano il nome. Inoltre, la politica, Francia a parte (forse), è troppo concentrata su come vezzeggiare il popolo: la demagogia
e il conformismo populista la fanno da padroni. In una parola, per molti opinionisti e
studiosi Tocqueville non è un pensatore
attuale.
Quale può essere allora il suo
lascito? Come per Guizot e
Constant, Tocqueville è un
liberale triste, un realista che conosce, e descrive con grande lucidità
i tragici pericoli del conformismo di massa e del perfido legame tra assistenza
sociale e asservimento dell’individuo.
Tocqueville sottolinea, forse per primo, il vincolo perverso tra accentramento statale e welfare: un cappio al quale egli vede profeticamente appesa la democrazia europea. Assai
pregnanti restano le sue critiche
al carattere socialista della rivoluzione del 1848 e a ogni forma di pubblico
assistenzialismo. A suo dire pericolosissimo, soprattutto in una società
“amministrativa” e “democratica”, dove tutti, già allora, usavano tendere la mano verso lo stato. E lo stato, a sua volta, come un nuovo dio in terra rimetteva i peccati in cambio dell’anima.
Un' analisi di grande preveggenza, come del resto si può evincere dalla raccolta di testi sul pauperismo, di cui esiste un’eccellente
edizione italiana (2). E questa è la sua prima lezione.
Come togliersi il cappio dal collo? Come promuovere la libertà? Qui il
liberalismo di Tocqueville da triste si fa addirittura
tragico.
Come fare, osserverà ne La democrazia
in America (1835-1840), se le tendenze stesse
del nostro tempo remano contro la libertà?
«I
nostri contemporanei sono continuamente travagliati da due passioni
contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare
liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno, né dell’alto di questi istinti
contrari, cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immagino un potere
unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini, combinano
centralizzazione e sovranità popolare. Questo dà loro un po’ di sollievo. Si consolano del fatto di
essere sotto tutela, pensando che essi stessi hanno scelto i loro tutori.
Ciascuno sopporta di essere tenuto al laccio, perché vede che non è un uomo o
un classe a tenerne in mano il capo, ma il popolo stesso. In un sistema del
genere i cittadini escono per un momento dalla dipendenza, per disegnare il
loro padrone, e poi vi rientrano.» (3).
Esiste forse migliore definizione
del concetto di individualismo protetto? No. E questa è la seconda lezione di Tocqueville.
Ma c’è dell’altro, molto prima
della tanto celebrata Scuola di
Francoforte, Tocqueville, coglie l’essenza dell’ industria culturale
nella società di massa. Il passo merita
di essere citato per esteso.
«Capitolo
Quattordicesimo. L’INDUSTRIA CULTURALE. La democrazia non solo fa penetrare il
gusto delle lettere nelle classi industriali, introduce anche una certa
mentalità industriale in seno alla letteratura. Nelle aristocrazie, i lettori
sono difficili e poco numerosi; nelle
democrazie è meno faticoso riuscire a piacere ad essi e il loro numero è
enorme. Il che significa che, nelle aristocrazie, non si può sperare di riuscire,
se non a prezzo di immensi sforzi, e che questi sforzi si possono, se possono
procurare molta gloria, non possono però mai
fruttare molto denaro; presso le nazioni democratiche invece uno
scrittore può lusingarsi d’ottenere con
poca fatica una mediocre fama e una grande fortuna. Non è necessario per questo
che lo si ammiri, basta che incontri il favore del pubblico.
La
massa sempre crescente dei lettori e il bisogno continuo che hanno del nuovo,
assicurano lo smercio di un libro che magari non è da essi stimato.
In
tempi di democrazia, il pubblico si comporta spesso con gli autori come fanno
generalmente i Re coi loro cortigiano: li
arricchiscono e li disprezzano. Di che cosa hanno bisogno di più le
anime venali che nascono nelle corti o che sono degne di vivervi?
Le
letterature democratiche forniscono sempre di questi autori che non vedono
nelle lettere che un’industria e, per un grande scrittore che è dato
incontrarvi, si contano a migliaia gli spacciatori.» (4).
E questa è la terza lezione.
Tocqueville ci può aiutare a uscire dalla crisi europea? Sì e no. Il populismo, non è che la continuazione con
altri mezzi, più moderni (a cominciare
dai Social), del conformismo democraticista
da lui così ben individuato. Pertanto
Tocqueville fornisce uno schema interpretativo ancora oggi valido. Però al
tempo stesso sottolinea, enunciandone le ragioni strutturali, quanto sia
difficile nell’età della democrazia di massa, sottrarsi alla tirannia della sovranità
popolare, e per giunta, assumendo il duro dovere di non rinnegare le conquiste del liberalismo moderno.
Tocqueville - come Guizot e
Constant - pone l’accento su un
liberalismo aristocratico e scomodo, perché inviso alle masse, supinamente in cerca di padroni. Sicché, chiunque oggi ponga la questione politica si sente subito rispondere: sì all’individualismo, ma assistito; sì alla
libertà di pensiero, ma solo per le idee che incontrano il favore del popolo. E così via.
Come giustamente osserva Tocqueville, «i cittadini escono per un momento dalla
dipendenza, per designare il loro padrone, e poi vi rientrano». Pertanto la grande questione di fondo non è come reintrodurre elementi di
liberalismo in una società di massa. Ma qual è allora?
La crisi europea, e italiana, imporrebbe
un netto cambio di paradigma, dal democraticismo a liberalismo. Ma come opporsi alle
tendenze strutturali individuate da Tocqueville? Due possibilità.
Intervenire, per imporre il mutamento di paradigma, senza tanti complimenti, rischiando la ribellione delle masse, oppure, attendere che il ciclo politico democraticista faccia il suo corso, con il rischio però che il tracollo populista rafforzi le élite illiberali. Insomma, il pericolo, in caso inazione, è quello di finire nelle mani dei nemici del liberalismo come della democrazia.
Intervenire, per imporre il mutamento di paradigma, senza tanti complimenti, rischiando la ribellione delle masse, oppure, attendere che il ciclo politico democraticista faccia il suo corso, con il rischio però che il tracollo populista rafforzi le élite illiberali. Insomma, il pericolo, in caso inazione, è quello di finire nelle mani dei nemici del liberalismo come della democrazia.
Come si può capire, la strada è comunque in salita, stretta e tortuosa. Eppure, per dirla con un grandissimo poeta
tedesco , «dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
Carlo Gambescia
(1)
Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 1972, pp.
207-280, 543-580.
(2)
Alexis de Tocqueville (1805-1859), Il pauperismo,
a cura di Mario Tesini, Edizioni Lavoro,
Roma 1998.
(3) Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, in Id. Scritti politici, a cura di Nicola Matteucci, Utet, Torino 1981,
vol. II, p. 813.
(4)
Ibid., p. 549.