giovedì 4 aprile 2019

La protesta anti-nomadi di  Tor Bella Monaca
 I frutti velenosi dello Stato Provvidenza




Tor Bella Monaca vive e lotta  nell’immaginario dei sociologi.  Soprattutto di quei colleghi idealisti che sognano la società perfetta e dell’abbondanza, grazie alla magnifica opera redistributiva dello “Stato Provvidenza”. 
In realtà, sembra che le cose non stiano proprio così.  La mano pubblica funziona a breve, ma non nel lungo periodo. Come del resto  provano le proteste anti-nomadi di questi giorni.       

Partiamo, intanto, da un’indagine della Cgil del 2011, abbastanza approfondita, sulla composizione sociale del quartiere: diritti di proprietà,   redditi,   livelli di istruzione, abbandono scolastico, eccetera, eccetera. Indagine  che si  rivela di  una certa  utilità,  per capire il perché dell’onda lunga razzista di questi giorni (*). 
Qualche dato.
Quartiere, di edilizia  intensiva,  costruito nel 1981-1983, 28 mila abitanti, i due terzi degli edifici sono di proprietà pubblica,  dunque in affitto, bassa l’età media dei residenti, alti tassi  di natalità, forte presenza di residenti “diversamente abili” e di etnie straniere,  alto tasso di abbandono scolastico
I redditi per l’80 per cento dei residenti sono  inferiori ai duemila euro mensili, parliamo di  famiglie monoreddito composte  nel 50 per cento dei casi da più di tre persone.  I canoni di affitto, trattandosi, per la maggior parte  di edilizia pubblica, sono però bassi.  Interessante, perché positivo,  il giudizio dei residenti sul quartiere:

Sembra importante sottolineare quanto emerge dalle opinioni chieste sugli aspetti abitativi e del quartiere. Gli abitanti infatti, pur manifestando l'esigenza di un miglioramento su alcune condizioni, dichiarano di essere mediamente abbastanza soddisfatti sia per ciò che riguarda la casa che abitano, sia per il quartiere in cui vivono [...].  In conseguenza, circa la qualità percepita, quasi il 60% degli intervistato dichiarano che non cambierebbero né casa né quartiere, un altro 25% mostra un livello di soddisfazione minore, desiderando dei miglioramenti. Solo una quota pari a meno del 10% se potesse andrebbe via.

Diamo per scontato che negli ultimi anni la situazione sia peggiorata.  Con un crollo del gradimento, eccetera,  eccetera.  Detto questo però,  il vero punto è che, stante la composizione sociale ed economica del quartiere,  non ci troviamo  dinanzi  a borghesi impauriti che temono di perdere status, secondo la  narrazione corrente  del populismo di destra e sinistra.  Ma davanti a un proletariato assistito,  (l’alto tasso di disabili, dichiarati,  tra l’altro, potrebbe dirla lunga sulla percezione a pioggia  di indennità sociali), caucasoide,  dall’età  media non molto elevata, quindi con tendenze irriflessive. Un universo sociale che, ecco il punto,  non vuole dividere i tassi di soddisfazione, mediocri che siano (dal punto di vista dei ceti medi), con nessuno, soprattutto con gli  stranieri.

Il che spiega, la protesta, e in particolare il valore simbolico di  quel  calpestare il pane che doveva essere consumato dai settantasette rom trasferiti dal Comune di Roma nel locale centro di accoglienza (**).  
Per spiegarsi:  un sottoproletariato affamato  non spreca  il pane, lo raccoglie e  porta a casa, per  sfamare  i propri cari.  Chi sia  “sfiancato” da  una  vita grama, non  ha tempo né forza per protestare. 
Pertanto siamo davanti, all’ennesimo fallimento dello  “Stato Provvidenza”: un dispositivo socio-economico  che favorisce  solo  l’ egoismo collettivo, mettendosi  al servizio di individualisti protetti che, ripetiamo,   non vogliono  dividere con altri quel poco o tanto che possiedono grazie all'intervento salvifico dei poteri pubblici.  
Naturalmente, sullo scontento, specula, in nome di uno “Stato Provvidenza”, ma solo per gli italiani, la destra razzista. Ponendo così le basi, per il suo futuro fallimento, anche in caso di vittoria. 
Perché fallimento?  Più crescono le provvidenze sociali, più cresce l’egoismo dei percettori, più aumenta l’ingovernabilità dell’intero sistema assistenziale,  sensibilissimo, dal punto di vista degli utilizzatori finali, alle  diminuzioni o sospensioni dei servizi sociali. Insomma, l'assistenzialismo,  provoca  una dipendenza,  prima che economica,  psicosociale.   
L’assistito è un cattivo cittadino, perché il suo senso civico, dunque anche lo spirito di tolleranza  verso i diversi, se e quando cresce,  finisce per dipendere  dalla quantità di assistenza ricevuta. Il che è già un approccio a dir poco limitativo basato su un do ut des puramente meccanicistico che favorisce solo i riflessi  carnivori degli individui.  Ci si aspetta, in modo superficiale, che  il tasso di civismo aumenti o diminuisca  in base ai flussi delle risorse assistenziali godute. Se ci si perdona la caduta di stile, il civismo viene venduto un tanto al chilo. Tuttavia, una cosa è certa, che  non potendo, l’assistenzialismo,  per ragioni obiettive di risorse economiche, aumentare all’infinito,  i conflitti redistributivi risultano comunque inevitabili.
In realtà, a differenza di quel che ritiene in particolare il populismo di sinistra,  tra assistenzialismo e tolleranza, come prova l’esperienza di Tor Bella Monaca, non c’è alcuna correlazione positiva. Insomma,  affitti bassi, indennità sociali, istruzione di base,  non fanno diventare più buoni i cittadini. Ma solo più egoisti.    
Almeno allo stato dei fatti.   
Carlo Gambescia