La crisi della sinistra
Botta e risposta tra Teodoro Klitsche de la Grange e Carlo Gambescia
Caro Carlo,
a distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di
parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava
cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia
destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente)
dell’amico/nemico.
A fronte di qualcuno che avverte la necessità di
un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), il che significa aver maturato la
convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri,
più incardinati nell’establishment, i
quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà
riemergere; c) che il di essa deperimento di questa sia il frutto della (più
abile) propaganda populista; d) e comunque è radicata e pertanto non tarderà a
manifestarsi di nuovo.
Il tutto spesso confondendo tra distinzione del
secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe.
Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La
nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha
semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più
scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte
l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che
“La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi
e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle
corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati
in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia
identificano come costante la lotta
di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi
sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è
se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista o meno tra “oppressi e oppressori” – domande
la cui risposta è “scontata” - ma se sopravviva quella tra borghesi e proletari
e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente,
o piuttosto non sia ormai neutralizzata e
depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e
protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.
È un tratto comune a tali ragionamenti della
sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da
quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la
“ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere
prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.
Qualche giorno fa ha suscitato un certo
dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre
impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza
populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica
per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se
una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito
il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più)
energicamente dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e
riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede
diminuzione di quelle e aumento di queste).
Più ancora la separazione delle élite (PD e non
solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni
da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto
capita dalla cultura “ufficiale”.
All’uopo, caro Carlo, credo sia interessante rileggere – tra i non tanti – un
libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre
quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni
al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il
deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dalla
classe dirigente dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di
sinistra).
Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra
come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di
neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali
rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo
ora, si può, in larga misura, constatare che le valutazioni lì fatte mostrano
una preveggenza di larga parte di quanto sarebbe successo, in Italia e
all’estero, nei successivi vent’anni.
In particolare l’attenzione dei suddetti autori
si era soffermata sui seguenti punti:
1) il progressivo distacco tra classi dirigenti
e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di
convinzioni, di modi di vita, di redditi).
2) In conseguenza la scarsa considerazione dei
governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher Lasch “La ribellione delle élite”.
3) E sempre di conseguenza la mera e calante
rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti
asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli
progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni
dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.
4) La difesa delle “particolarità” nazionali
rispetto alla globalizzazione.
5) La perdita di senso della distinzione
destra/sinistra o meglio Borghese/proletario
Di tutte, questa era la previsione più
facile: una volta imploso il comunismo e
L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano
cercare contributi altrettanto
preveggenti nei politici e
intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la
loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi
tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al
potere) paragonato a Hitler a Videla, e Te
deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso
disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiano.
Di analisi come quelle testè ricordate, e che
tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla lontana, l’Impero di Negri – Hardt (peraltro anch’essi
pensatori non proprio ortodossi).
A questo punto occorre prendere atto della
scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in
particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria
culturale - di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche
mese fa, uno degli autori di quel libro – e di tanti altri sul tema – Alain
de Benoist, è stato attaccato – e con
esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università,
perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto
ideologicamente di destra. Ma dato che De Benoist da trent’anni va ripetendo
proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti,,
sarebbe il caso, per i suoi contestatori, che lo andassero ad ascoltare, dato
che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto, e sicuramente non hanno
capito.
Discriminare ideologicamente, quando le analisi
eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna
Prassede che, come scrive Manzoni, aveva
poche idee ma a quelle era – come agli amici – incrollabilmente affezionata.
E più ancora, che se politici ed intellos
non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro
che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le
spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La
prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, il
marxismo e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è
il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e la storia. L’altra, che
quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono
dovuti allo strumento ma all’operatore. Il che conforta la necessità di
cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.
Perché, caro Carlo, al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping
che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia
da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al
colore, invece che alla capacità di cacciare i topi.
E i risultati, purtroppo per la nazione, si
vedono.
Un
caro saluto,
Teodoro Klitsche de la Grange
***
Caro Teodoro,
lungi da me l’idea di voler difendere la
sinistra, ma questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla
dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa
sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi.
Eppure tu sei, come me buon lettore, di Pareto.
Potranno mai cadere i due principali residui psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle
combinazioni e la persistenza degli
aggregati? Il primo rimanda alla
psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici. E Pareto, fornisce
esempi storici di un destra-sinistra, che va al di là delle etichette, ma
che esiste, anzi pre-esiste, in natura sociale e politica, risalendo fino agli antichi romani. Altro che Marx e Schmitt... Certo, le loro analisi sono interessanti, ci mancherebbe altro. Ma, ecco il punto, limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx):
da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra
borghesi e proletari (Marx). Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti. Schmitt e Marx al proprio pubblico.
Inoltre, le idee dell’inutilità della
sinistra e della destra e del cosiddetto conflitto élite vs popolo, non
è che risalgano al convegno di Perugia,
che anch’io ricordo bene (con l'editore, Antonio Pellicani, bella e dotta persona)... Ma, per dirla con Pareto, rimandano a una derivazione, o razionalizzazione ex post, inventata e usata dalle destre reazionarie,
bonapartiste, fasciste e populiste per andare contro la legittimazione liberale della democrazia rappresentativa
post-1789.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega, siamo davanti a una derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate dalla società di massa, ma sempre nei termini di pesanti offensive contro le élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché il populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega, siamo davanti a una derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate dalla società di massa, ma sempre nei termini di pesanti offensive contro le élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché il populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.
Non capisco, come un liberale del tuo valore, rilanci, contro la sinistra, le stesse critiche dei populisti e ancora prima dei fascisti. In Italia, il Centrosinistra (senza trattino...), sta pagando il prezzo per aver governato sette anni,
portando fuori il paese dalla crisi: i dati economici, fino a giugno, sono a lì
a confermarlo. Opera non indolore, ma
necessaria. E dunque meritoria. Facendo per giunta fronte, non sempre linearmente (lo ammetto), contro il populismo. A
differenza, caro Teodoro, di quella plutocrazia
demagogica, per dirla sempre con Pareto,
che invece nel Primo Dopoguerra, pur di restare al comando, si alleò con
Mussolini. Va detto che anche allora molti liberali non capirono la gravità del
momento. E il prezzo da pagare fu molto
salato.
Pertanto, se ora,
c’è una critica da fare alla sinistra è proprio quella di strizzare l’occhio
ai populisti. Scelta che implica, l’accettazione della tesi reazionaria, anche a sinistra, del superamento della
dicotomia destra-sinistra. Certo, non nego che il PD - o una parte del PD - sostenga di voler aprire un dialogo con le forze di sinistra interne a
Cinque Stelle, puntando su una specie di populismo al quadrato, appena temperato da un antifascismo di maniera contro Salvini, l’altro azionista di maggioranza.
In realtà, facendo così, la sinistra spiana la strada al populismo (come se già non bastasse il notevole lavorio della destra post-berlusconiana, perfino liberale...). Non la si apre di certo a una sinistra riformista, democratica, rispettosa delle istituzioni rappresentative, dell'economia di mercato e, cosa più importante dell'esistenza stessa del principio di alternanza (che secondo Sartori, e non solo, definisce la democrazia dei moderni). Si spiana la strada invece a quello che tu, incautamente, chiami "nuovo armamentario", che invece, come insegna Pareto, nuovo non è. E poi, perché gli italiani dovrebbero preferire la copia all’originale? Questo -
scusami - dovevi scrivere nel tuo articolo.
Quanto al colore del gatto, caro Teodoro, non
tutti i gatti sono uguali. Mussolini era un gattone, nero, che
dopo aver cacciato i topolini rossi, se la prese con quelli bianchi,
rosa, gialli, e via discorrendo. Il colore conta, eccome.
Ricambio il caro saluto.
Carlo Gambescia