I giudici di Roma cambiano idea
Mafia che va,
mafia che viene...
mafia che viene...
Contrordine
(un tempo si sarebbe detto) compagni. "Mafia Capitale" vive e lotta insieme a noi. Torna a vincere (si noti il termine)
il teorema del Procuratore capo Pignatone sui rapporti - a dire il vero mai provati
concretamente - tra mafia
siciliana, mondo di mezzo e varia umanità politico-criminale romana.
Cosa dire?
Intanto si può notare che, solo
in una società aperta ma non liberale, qualsiasi sentenza rischia la strumentalizzazione
politico-mediatica. Nel caso di "Mafia
Capitale", insieme a Pignatone tornano a
cantare vittoria Cinque Stelle e la
congrega di quel romanzo criminale, che da Portella della Ginestra, via Pci e azionismo muckraker, giunge fino alle gesta di Carminati e
Buzzi. Per la serie continuiamo a farci
del male, in particolare alle istituzioni, preparando la strada al
castigamatti… Ovviamente nel tentativo,
così dicono, di salvare lo stato di diritto. Pura etica dei principi, però al servizio dei mezzi. Politici.
Dicevamo
società aperta ma non liberale. Il
lettore non sobbalzi sulla sedia. Ma come i due
termini non sono sinonimi? In realtà, una società può essere aperta, come
quella americana (compri, vendi, fai
quello che vuoi), e al tempo stesso
liberale, perché sono per primi i giornalisti, magistrati e politici a esercitare responsabilmente i propri
diritti. Pura etica dei mezzi, al servizio dei principi. Ecco il vero stato di diritto. Che significa rispetto di procedure legali e codici deontologici, realmente interiorizzati. Ovviamente con delle eccezioni. Da ultimo
Trump e il suo misterioso e schizoide pianeta verde. Lo stesso discorso del giornalismo responsabile, o quasi, si può estendere a quello britannico. Chiamale se vuoi, tradizioni di libertà.
In
sintesi, essere liberali in una società aperta, significa esercitare il diritto
di informazione in modo responsabile. Si chiama autodisciplina: significa
capire che il “teorema” è una cosa, l' “informazione” su un
politico che ruba un’altra. Tradotto:
giustizia non è sinonimo di giustizialismo. In
Italia, la distinzione, se mai c’è stata, è sparita da un pezzo. Sicché tutti
accusano tutti di mafia, quasi un mestiere (Sciascia, cosa
notissima, parlò di "professionisti dell’antimafia"). E, cosa
più grave ancora, fino al punto che
nessuno crede più nelle istituzioni preposte a combattere il fenomeno.
Semplificando: se tutti sono mafiosi, nessuno è mafioso e viceversa… Con tanti cari saluti allo stato di diritto.
Si
dirà che, con il nostro dire, stiamo
sminuendo lo “sforzo eroico” di un pugno, di politici, di magistrati e
poliziotti, che da anni lotta, eccetera, eccetera. A parte, che dietro questa accusa si nasconde il vecchio argomento retorico della mozione degli affetti, qui va considerato un fatto che tanto normale non è. Quale? Che al solo avanzare dubbi sulla macchina
giudiziario-mediatica si rischia la
scomunica e la rubricazione a mafiosi di complemento.
Non
sappiamo ciò che realmente sia accaduto a Roma: ma
sembra poco o punto liberale iscriversi a una delle due tifoserie. Da una
parte quelli del “romanzo criminale”, dall’altra
quelli che ancora difendono il
romanzo dell’ex giovane povero Silvio Berlusconi, perseguitato dai
magistrati. A dire il vero, persecuzione
ci fu, ma il Cavaliere, nulla si fece mancare. Neppure lo stalliere. Ma questa è un’altra storia.
Il
vero punto allora qual è? Che continuano a volare palle di letame,
gli schizzi sporcano tutti, l’aria
si è fatta irrespirabile. Rischiamo il castigamatti. E così, buonanotte ai
suonatori: addio società aperta, e pure
liberale.
Carlo Gambescia