giovedì 2 agosto 2018

Scambi di idee 
Dove va il capitalismo?
 di Giovanni Balsamo e Carlo Gambescia



Pubblichiamo con  piacere queste note  di Giovanni Balsamo,  scrittore di gialli  e acuto osservatore -  così ci si  sembra -    di quel pianeta misterioso che si chiama Fb, dove i nostri destini digitali si sono incrociati, pronube (per metterla sul forbito)  la densa  intervista di Fabio Macaluso  al pirotecnico Ruggero D’Alessandro. Dopo di che  il discorso, tra me e Balsamo,  è inevitabilmente scivolato  sull'economia e  sul capitalismo.
Dunque,  galeotta  fu l’entretien (per dirla con Carletto Dapporto) dell'amico  Macaluso, nonché  il mio consiglio, sempre  a Balsamo,  di leggere il libro di Wapshott su Keynes e Hayek. Prontamente messo in atto.  
Lascio dunque la parola a Giovanni Balsamo.  Parola, per dirla tutta,  che, come quella di Ruggero D'Alessandro,  non poteva  finire sepolta  tra le  pieghe digitali di Fb.  Per poi replicare a mia volta.
C.G.      


Carlo Gambescia,   buongiorno,

ho letto con estremo interesse il saggio di Wapshott sul duello tra Keynes e Hayek. Prima di procedere con le altre letture mi premeva spiegare meglio il mio pensiero, espresso certamente troppo sinteticamente in precedenza.
Come le dicevo all’università ho ricevuto una formazione keynesiana, che in buona parte mantengo, a motivo del mio interesse per la macroeconomia, integralmente basata sul moltiplicatore keynesiano e sui suoi sviluppi successivi, anche se ormai utilizzo quanto appreso solo per cercare di comprendere come funziona il mondo. 
Per il resto la vita mi ha portato o, meglio, sono io che ho portato la mia vita in ambiti distanti dallo studio accademico dei fenomeni economici. In ogni caso le confermo che come Keynes il mio animo è comunque liberale, anche se molto triste. Comprendo che la notazione non è priva di conseguenze, implicando la possibilità o meno di influenzare positivamente i cicli economici e di pervenire a un’azione efficace di redistribuzione della ricchezza. 
Resto, comunque, convinto che l’innovazione apportata da Keynes resti la più importante del ventesimo secolo, molto più delle teorie dei monetaristi di Friedman e della sua scuola di Chicago. In ogni caso la contrapposizione tra il laissez faire, la gestione esclusivamente monetaria dei cicli economici e l’intervento pubblico in economia rappresentano, oggi, ormai solo terreno per dispute accademiche. Non esiste, infatti, alcuna possibilità di verificare “in vitro” l’una o l’altra teoria, perché le politiche economiche messe in atto dai singoli governi sono il risultato della parziale applicazione di tutte e tre queste teorie. Anzi, a dire il vero oggi gli Stati Uniti hanno ripescato anche l’approccio colbertiano e dei mercantilisti del diciassettesimo secolo con l’applicazione di dazi che, com’è tristemente noto, nel lungo periodo produrranno il ben conosciuto fenomeno dell’inflazione importata. Ma come sempre ai politici interessa il breve, anzi il brevissimo periodo. Un fulgido esempio di quanto affermo lo troviamo nel periodo della cosiddetta reaganomics, ovvero quella politica di riduzione della pressione fiscale e di controllo monetario introdotta da Reagan negli anni ottanta. La grande contraddizione si trova nell’immenso budget federale utilizzato per la spesa militare che, in ogni caso, rappresenta l’investimento pubblico in economia postulato da Keynes e alla base del suo moltiplicatore degli investimenti pubblici, determinando quello che è stato definito come lo stato militare–assistenziale. 
Sul punto questa volta sono io che mi permetto di suggerirle il volume La crisi fiscale dello Stato di James o’Connor. Non ne condivido le conclusioni ma l’analisi di tale fenomeno è completa. La conclusione di queste mie brevissime note è che non sapremo mai se nel lungo periodo un’economia lasciata in balia di se stessa raggiunga la piena occupazione, come sostengono i teorici del laissez faire, se e quanto la gestione monetaria riesca a influire sui prezzi e, per caduta, sugli investimenti e sullo sviluppo e se, infine, l’applicazione del modello keynesiano riuscirebbe a contenere le fluttuazioni cicliche dell’economia. 
Quello che sappiamo con certezza è che il modello marxiano di economia pianificata non funziona, né teoricamente (per lo scoglio insormontabile della incoerenza sulla determinazione dei prezzi), né nell’esperienza umana per le tragedie che ci ha portato, paragonabili solo a quelle degli altri totalitarismi. Sul punto mi sia consentito un brevissimo richiamo agli accordi di Bretton Woods, che sono stati considerati un successo ascrivibile a Keynes e la materializzazione delle sue teorie. Anche il quel caso, infatti, la teoria non venne recepita fino in fondo, quando si trattò di definire l’attività delle banche sovranazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Nella visione dell’economista di Cambridge, infatti, l’IMF doveva azionare il moltiplicatore degli investimenti a livello globale. Tale azione fu invece depotenziata, oserei dire annullata, dalla previsione del rimborso dei prestiti operati dalla banca da parte dei Paesi beneficiari.
Ciò detto, per agganciare quanto affermato con il mio pensiero sul futuro dell’economia di mercato e, di conseguenza, di noi esseri umani, devo effettuare una rapida digressione sul concetto di libertà. L’essere umano, per sua struttura, non può essere veramente libero. La libertà assoluta si potrebbe sperimentare solo nella più assoluta solitudine, in un’esistenza monadica, prendendo a prestito il concetto di Leibnitz, estendendolo all’essere umano come unità. Ma tale libertà sarebbe una condanna all’infelicità. Basti pensare ad Adamo nell’Eden e a quanto si annoiava. In ogni forma di società l’essere umano deve cedere porzioni della sua libertà in quello che i sociologi chiamano il contratto sociale, nel quale a fronte di tali cessioni di libertà si ottengono sinallagmaticamente le coperture dei propri bisogni, secondo, prendiamo a prestito la scala di Maslow, una gerarchia degli stessi. 
I problemi li registriamo nella misurazione dell’efficienza di tale contratto per i singoli individui, e sulla rilevazione statistica di quanta libertà viene ceduta a fronte di un ritorno che definiremo eufemisticamente “scarso”. L’economia di mercato, per dirla con Gordon Gekko (mi si scusi la citazione cinematografica), si basa sull’avidità, e l’avidità conduce allo sviluppo economico a scapito della libertà dell’individuo. In altri termini l’uomo sembra avere sviluppato un sistema che permette quello che viene comunemente chiamato “benessere” a scapito della libertà e, concetto ancor più indefinito, della felicità dell’individuo. 
Non entro qui nel merito del protocapitalismo e del colonialismo, pena la definitiva perdita di senso di queste brevi righe, ma resta ferma la critica alla distribuzione della ricchezza su scala planetaria. Gli economisti hanno ricercato per decenni la cosiddetta “terza via”, quella doveva risolvere il contrasto tra l’economia pianificata e il mercato, senza tuttavia trovarla, perché probabilmente non esiste. Ciò condanna l’essere umano a vivere nella terra desolata del capitalismo e dell’economia di mercato. Questa economia dell’avidità, tuttavia, ha avviato un sistematico e dissennato sfruttamento delle risorse scarse del pianeta. Inoltre, come affermavo nel mio precedente post, l’economia di mercato, per sopravvivere e tendere alla piena occupazione, deve produrre sviluppo, altrimenti entra in quella fase chiamata stagnazione (e noi che eravamo vivi nell’epoca dei due shock petroliferi sappiamo che significa). In altri termini l’economia di mercato necessita di quella spirale evolutiva necessaria a evitare la stagnazione e, successivamente, la deflazione. 
Questo mi porta a interrogarmi sull’esito finale di tale evoluzione. Non concordo sulla tesi di Joseph Schumpeter sulla eutanasia del capitalismo, tesi in fondo escatologica ma che contrasta con l’essenza stessa dell’uomo, considerandolo in fondo migliore di quanto non sia in realtà. Io vedo la locomotiva lanciata a tutta velocità verso l’infinito e oltre, con la seria prospettiva di finire i binari e non trovare niente sotto. Lei mi dirà che sono troppo pessimista, ma l’analisi dell’andamento dello sfruttamento delle risorse naturali, la tematiche ambientali, la proliferazione degli uomini sulla terra mi inducono al pessimismo. Le sono, comunque, grato per il confronto, terreno nel quale riesco sempre a trovare quella soddisfazione che è divenuta risorsa assai scarsa.
Provvederò nei prossimi giorni a leggere il suo saggio, che dagli estratti che ho trovato in rete mi sembra assai interessante, tornando da lei per un ulteriore confronto. Ahimè io scrivo libri gialli, anche se al loro interno un pizzico di riflessioni sull’economia, ben mascherate, si trovano sempre.

Giovanni Balsamo

***

Buongiorno  a lei,  Giovanni Balsamo, 

se tutti gli scrittori di gialli, e pure qualche ministro del governo attuale, disponessero delle sue competenze economiche,  saremmo a cavallo.
Mi creda non è una captatio avvocatesca. In larga parte condivido le sue osservazioni.  Tra l’altro  ho letto, a suo tempo,  con  occhio liberale, il testo di James O’Connor (poi passato all’ecologismo socialista senza frontiere),  quindi non posso non essere d’accordo sui dubbi  che  lei solleva sulle conclusioni di quel libro.  Però fu un lavoro importante, originale,  perché la crisi fiscale dello stato, vive e lotta insieme a noi.  Interessanti anche i  riferimenti alla scala dei bisogni  di Maslow, già collaboratore di Sorokin, nei suoi studi sull’altruismo creativo come fattore di trasformazione sociale.  Insomma, il suo, è un parterre intellettuale di tutto rispetto.  Mi inchino. 
Ciò  che manca (non è una critica) nel suo pur notevole intervento, caro Balsamo, è una visione istituzionale  della società  di mercato  come prolungamento di una società aperta, storicamente  frutto non di un disegno programmato (costruttivista,  se preferisce),  quindi di una mano visibile, ma di milioni di micro-disegni individuali, dunque di una  mano invisibile:   uomini e donne  che non avevano (e hanno) alcuna idea, individualmente, di che  cosa stavano (e stanno) creando. Liberamente inseguivano (e inseguono) le loro  passioni, i loro interessi, le loro fantasie. Questo, credo,  sia il segreto della società di mercato: "lasciar fare, lasciar passare".   Il grado zero, per usare un  vecchio termine di Roland Barthes, però  dell’economia. Insomma,  non servono manuali di mille pagine.  O comunque, ripeto, arrivano dopo.
Cosa voglio dire? Che, come quando all'improvviso ci si trova davanti a un paesaggio mozzafiato,  la teoria generale del capitalismo,   nasce nel momento in cui si scopre  che si è davanti  a una istituzione che, pur con le sue imperfezioni, mostra, e plasticamente, di funzionare meglio di altre. Di qui, la scienza economica, come scienza di un magnifico panorama oceanico. Che sotto sotto, anche Marx ammirava.  Quindi il conflitto  Keynes-Hayek viene dopo la passeggiata sulle rive all'Oceano,  non prima. O meglio, non poteva non venire dopo.  Ed è conflitto più sulla redistribuzione che  sulla produzione. Il capitalismo, come concetto,   lo si scopre dopo, come ciliegina sulla torta di  una storia di successo, se mi passa l'espressione non particolarmente erudita.
La macchina può incepparsi?  Autodistruggersi?  Divorare tutte le risorse  del  pianeta?   Non ho la sfera di cristallo.   So pure che nessuna istituzione è immortale.  Come non si può negare che la società di mercato, proprio perché di successo, si sia  fatta una montagna di  nemici, invidiosi,  pronti persino  a vendere l’anima al diavolo (anche ecologista),  pur di togliere di mezzo  Paperon de' Paperoni.  
Così come non nego che esista una questione redistributiva.  E questo è il lato triste della storia, al quale come potrà scoprire, leggendo il mio libro, gli stessi liberali rispondono,  proponendo soluzioni molto diverse, spesso in contrasto tra di loro.  Semplificando, il conflitto, più generale,  è tra  coloro che  ritengono gli alti e bassi del ciclo come fisiologici, puntando sui differenziali di sviluppo tra le due fasi, e dunque tra i fattori economici, e i sostenitori di un ciclo unico, considerato come altrettanto fisiologico, di continua crescita di tutti di fattori economici. I primi ritengono, possibile, la composizione spontanea degli interessi, anche in fase redistributiva (an-archici, micro-archici), i secondi  credono nella composizione artificiale (mediante "artifici" politico-economici),  imponendo l'intervento dello stato (macro-archici).  Credo, invece occorra, un liberalismo archico (politico), dunque  triste, malinconicamente realista, perché consapevole dei limiti del mercato (nella fase redistributiva), come dello stato (nella fase produttiva). Se preferisce, un liberalismo sospeso tra Hayek e Keynes. Con un occhio,  come avrà capito,  ad alcune interessanti intuizioni di John Stuart Mill (come la distinzione tra produzione e redistribuzione, questione  tra l'altro poi  approfondita da  Alfred Marshall).     
Perché il vero punto della questione è che  prima di ripartirla,  bisogna produrre la ricchezza. Compito che la società di mercato finora ha ben assolto. Perché il principio non è cambiato: inseguire le proprie passioni, i propri interessi, le proprie fantasie. Liberalmente. Di qui, la forza  primordiale del "lasciar fare, lasciar passare".  O se si preferisce,  l’irrinunciabile e tonificante grado zero  dell’economia.  Cosa, come lei giustamente nota,  che i pianificatori sovietici non hanno mai capito.     
Grazie ancora della sua attenzione.

Carlo Gambescia