Scambi di idee
Dove va il capitalismo?
di Giovanni Balsamo e Carlo Gambescia
Pubblichiamo con piacere queste note di Giovanni Balsamo, scrittore di gialli e acuto osservatore - così ci si sembra - di quel pianeta misterioso che si chiama Fb, dove i nostri destini
digitali si sono incrociati, pronube (per metterla sul forbito) la densa intervista di Fabio Macaluso al pirotecnico Ruggero D’Alessandro. Dopo di che il discorso, tra me e Balsamo, è inevitabilmente scivolato sull'economia e sul capitalismo.
Dunque, galeotta fu l’entretien (per dirla con Carletto
Dapporto) dell'amico Macaluso, nonché il mio
consiglio, sempre a Balsamo, di leggere il libro di Wapshott su Keynes e Hayek.
Prontamente messo in atto.
Lascio dunque la
parola a Giovanni Balsamo. Parola, per dirla tutta, che, come quella di Ruggero D'Alessandro, non poteva finire sepolta tra le pieghe digitali di Fb. Per poi replicare a mia volta.
C.G.
Carlo Gambescia, buongiorno,
ho letto con estremo interesse il saggio
di Wapshott sul duello tra Keynes e Hayek. Prima di procedere con le altre
letture mi premeva spiegare meglio il mio pensiero, espresso certamente troppo
sinteticamente in precedenza.
Come le dicevo all’università ho ricevuto una formazione keynesiana, che in buona parte mantengo, a motivo del mio interesse per la macroeconomia, integralmente basata sul moltiplicatore keynesiano e sui suoi sviluppi successivi, anche se ormai utilizzo quanto appreso solo per cercare di comprendere come funziona il mondo.
Come le dicevo all’università ho ricevuto una formazione keynesiana, che in buona parte mantengo, a motivo del mio interesse per la macroeconomia, integralmente basata sul moltiplicatore keynesiano e sui suoi sviluppi successivi, anche se ormai utilizzo quanto appreso solo per cercare di comprendere come funziona il mondo.
Per il resto la vita mi ha
portato o, meglio, sono io che ho portato la mia vita in ambiti distanti dallo
studio accademico dei fenomeni economici. In ogni caso le confermo che come
Keynes il mio animo è comunque liberale, anche se molto triste. Comprendo che
la notazione non è priva di conseguenze, implicando la possibilità o meno di
influenzare positivamente i cicli economici e di pervenire a un’azione efficace
di redistribuzione della ricchezza.
Resto, comunque, convinto che l’innovazione
apportata da Keynes resti la più importante del ventesimo secolo, molto più
delle teorie dei monetaristi di Friedman e della sua scuola di Chicago. In ogni
caso la contrapposizione tra il laissez faire, la gestione esclusivamente
monetaria dei cicli economici e l’intervento pubblico in economia
rappresentano, oggi, ormai solo terreno per dispute accademiche. Non esiste,
infatti, alcuna possibilità di verificare “in vitro” l’una o l’altra teoria,
perché le politiche economiche messe in atto dai singoli governi sono il
risultato della parziale applicazione di tutte e tre queste teorie. Anzi, a
dire il vero oggi gli Stati Uniti hanno ripescato anche l’approccio colbertiano
e dei mercantilisti del diciassettesimo secolo con l’applicazione di dazi che,
com’è tristemente noto, nel lungo periodo produrranno il ben conosciuto
fenomeno dell’inflazione importata. Ma come sempre ai politici interessa il
breve, anzi il brevissimo periodo. Un fulgido esempio di quanto affermo lo
troviamo nel periodo della cosiddetta reaganomics, ovvero quella politica di
riduzione della pressione fiscale e di controllo monetario introdotta da Reagan
negli anni ottanta. La grande contraddizione si trova nell’immenso budget
federale utilizzato per la spesa militare che, in ogni caso, rappresenta
l’investimento pubblico in economia postulato da Keynes e alla base del suo moltiplicatore
degli investimenti pubblici, determinando quello che è stato definito come lo
stato militare–assistenziale.
Sul punto questa volta sono io che mi permetto di
suggerirle il volume La crisi fiscale dello Stato di James o’Connor. Non ne
condivido le conclusioni ma l’analisi di tale fenomeno è completa. La
conclusione di queste mie brevissime note è che non sapremo mai se nel lungo
periodo un’economia lasciata in balia di se stessa raggiunga la piena
occupazione, come sostengono i teorici del laissez faire, se e quanto la
gestione monetaria riesca a influire sui prezzi e, per caduta, sugli
investimenti e sullo sviluppo e se, infine, l’applicazione del modello
keynesiano riuscirebbe a contenere le fluttuazioni cicliche dell’economia.
Quello che sappiamo con certezza è che il modello marxiano di economia
pianificata non funziona, né teoricamente (per lo scoglio insormontabile della
incoerenza sulla determinazione dei prezzi), né nell’esperienza umana per le
tragedie che ci ha portato, paragonabili solo a quelle degli altri
totalitarismi. Sul punto mi sia consentito un brevissimo richiamo agli accordi
di Bretton Woods, che sono stati considerati un successo ascrivibile a Keynes e
la materializzazione delle sue teorie. Anche il quel caso, infatti, la teoria
non venne recepita fino in fondo, quando si trattò di definire l’attività delle
banche sovranazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale. Nella visione dell’economista di Cambridge, infatti, l’IMF
doveva azionare il moltiplicatore degli investimenti a livello globale. Tale
azione fu invece depotenziata, oserei dire annullata, dalla previsione del
rimborso dei prestiti operati dalla banca da parte dei Paesi beneficiari.
Ciò detto, per agganciare quanto affermato con il mio pensiero sul
futuro dell’economia di mercato e, di conseguenza, di noi esseri umani, devo
effettuare una rapida digressione sul concetto di libertà. L’essere umano, per
sua struttura, non può essere veramente
libero. La libertà assoluta si potrebbe sperimentare solo nella più assoluta
solitudine, in un’esistenza monadica, prendendo a prestito il concetto di
Leibnitz, estendendolo all’essere umano come unità. Ma tale libertà sarebbe una
condanna all’infelicità. Basti pensare ad Adamo nell’Eden e a quanto si annoiava.
In ogni forma di società l’essere umano deve cedere porzioni della sua libertà
in quello che i sociologi chiamano il contratto sociale, nel quale a fronte di
tali cessioni di libertà si ottengono sinallagmaticamente le coperture dei
propri bisogni, secondo, prendiamo a prestito la scala di Maslow, una
gerarchia degli stessi.
I problemi li registriamo nella misurazione
dell’efficienza di tale contratto per i singoli individui, e sulla rilevazione
statistica di quanta libertà viene ceduta a fronte di un ritorno che definiremo
eufemisticamente “scarso”. L’economia di mercato, per dirla con Gordon Gekko
(mi si scusi la citazione cinematografica), si basa sull’avidità, e l’avidità
conduce allo sviluppo economico a scapito della libertà dell’individuo. In
altri termini l’uomo sembra avere sviluppato un sistema che permette quello che
viene comunemente chiamato “benessere” a scapito della libertà e, concetto
ancor più indefinito, della felicità dell’individuo.
Non entro qui nel merito
del protocapitalismo e del colonialismo, pena la definitiva perdita di senso di
queste brevi righe, ma resta ferma la critica alla distribuzione della
ricchezza su scala planetaria. Gli economisti hanno ricercato per decenni la
cosiddetta “terza via”, quella doveva risolvere il contrasto tra l’economia
pianificata e il mercato, senza tuttavia trovarla, perché probabilmente non
esiste. Ciò condanna l’essere umano a vivere nella terra desolata del
capitalismo e dell’economia di mercato. Questa economia dell’avidità, tuttavia,
ha avviato un sistematico e dissennato sfruttamento delle risorse scarse del
pianeta. Inoltre, come affermavo nel mio precedente post, l’economia di
mercato, per sopravvivere e tendere alla piena occupazione, deve produrre
sviluppo, altrimenti entra in quella fase chiamata stagnazione (e noi che
eravamo vivi nell’epoca dei due shock petroliferi sappiamo che significa). In
altri termini l’economia di mercato necessita di quella spirale evolutiva
necessaria a evitare la stagnazione e, successivamente, la deflazione.
Questo
mi porta a interrogarmi sull’esito finale di tale evoluzione. Non concordo
sulla tesi di Joseph Schumpeter sulla eutanasia del capitalismo, tesi in fondo
escatologica ma che contrasta con l’essenza stessa dell’uomo, considerandolo in
fondo migliore di quanto non sia in realtà. Io vedo la locomotiva lanciata a
tutta velocità verso l’infinito e oltre, con la seria prospettiva di finire i
binari e non trovare niente sotto. Lei mi dirà che sono troppo pessimista, ma
l’analisi dell’andamento dello sfruttamento delle risorse naturali, la
tematiche ambientali, la proliferazione degli uomini sulla terra mi inducono al
pessimismo. Le sono, comunque, grato per il confronto, terreno nel quale riesco
sempre a trovare quella soddisfazione che è divenuta risorsa assai scarsa.
Provvederò nei prossimi giorni a leggere il suo saggio, che dagli estratti che
ho trovato in rete mi sembra assai interessante, tornando da lei per un
ulteriore confronto. Ahimè io scrivo libri gialli, anche se al loro interno un
pizzico di riflessioni sull’economia, ben mascherate, si trovano sempre.
Giovanni Balsamo
***
Buongiorno a lei, Giovanni Balsamo,
se tutti gli scrittori di
gialli, e pure qualche ministro del governo attuale, disponessero delle sue
competenze economiche, saremmo a cavallo.
Mi creda non è una captatio avvocatesca. In larga parte condivido
le sue osservazioni. Tra l’altro ho letto, a suo tempo, con
occhio liberale, il testo di James O’Connor (poi passato all’ecologismo
socialista senza frontiere), quindi non
posso non essere d’accordo sui dubbi che lei solleva sulle conclusioni di quel libro. Però fu un lavoro importante, originale, perché la crisi fiscale dello stato, vive e
lotta insieme a noi. Interessanti anche i
riferimenti alla scala dei bisogni
di Maslow, già collaboratore di Sorokin, nei suoi studi sull’altruismo creativo come fattore di trasformazione
sociale. Insomma, il suo, è un parterre
intellettuale di tutto rispetto. Mi inchino.
Ciò che manca (non è una
critica) nel suo pur notevole intervento, caro Balsamo, è una visione
istituzionale della società di mercato
come prolungamento di una società aperta, storicamente frutto non di un disegno programmato
(costruttivista, se preferisce), quindi di una mano visibile, ma di milioni di
micro-disegni individuali, dunque di una mano invisibile: uomini e donne che non avevano (e hanno) alcuna idea, individualmente,
di che cosa stavano (e stanno) creando. Liberamente
inseguivano (e inseguono) le loro passioni, i loro interessi, le loro fantasie. Questo, credo, sia il segreto della società di mercato: "lasciar fare, lasciar
passare". Il grado zero, per usare
un vecchio termine di Roland Barthes,
però dell’economia. Insomma, non servono manuali
di mille pagine. O comunque, ripeto, arrivano dopo.
Cosa voglio dire? Che, come quando all'improvviso ci si trova davanti a un paesaggio mozzafiato, la teoria generale del capitalismo, nasce nel momento in cui si scopre che si è davanti a una istituzione che, pur con le sue imperfezioni, mostra, e plasticamente, di
funzionare meglio di altre. Di qui, la scienza economica, come scienza di un magnifico panorama oceanico. Che sotto sotto, anche Marx ammirava. Quindi il
conflitto Keynes-Hayek viene dopo la passeggiata sulle rive all'Oceano, non
prima. O meglio, non poteva non venire dopo. Ed è conflitto più sulla
redistribuzione che sulla produzione. Il
capitalismo, come concetto, lo si scopre dopo, come ciliegina sulla torta di una storia di successo, se mi passa l'espressione non particolarmente erudita.
La macchina può incepparsi? Autodistruggersi? Divorare tutte le risorse del pianeta? Non ho la sfera di cristallo. So pure che nessuna istituzione è immortale. Come non si può negare che la società di mercato, proprio perché di successo, si sia fatta una montagna di nemici, invidiosi, pronti persino a vendere l’anima al diavolo (anche ecologista), pur di togliere di mezzo Paperon de' Paperoni.
La macchina può incepparsi? Autodistruggersi? Divorare tutte le risorse del pianeta? Non ho la sfera di cristallo. So pure che nessuna istituzione è immortale. Come non si può negare che la società di mercato, proprio perché di successo, si sia fatta una montagna di nemici, invidiosi, pronti persino a vendere l’anima al diavolo (anche ecologista), pur di togliere di mezzo Paperon de' Paperoni.
Così come non nego che esista una questione redistributiva. E questo è
il lato triste della storia, al quale come potrà scoprire, leggendo il mio
libro, gli stessi liberali rispondono,
proponendo soluzioni molto diverse, spesso in contrasto tra di loro. Semplificando, il conflitto, più generale, è tra coloro che ritengono gli alti e bassi del ciclo come fisiologici, puntando sui differenziali di sviluppo tra le due fasi, e dunque tra i fattori economici, e i sostenitori di un ciclo unico, considerato come altrettanto fisiologico, di continua crescita di tutti di fattori economici. I primi ritengono, possibile, la composizione spontanea degli interessi, anche in fase redistributiva (an-archici, micro-archici), i secondi credono nella composizione artificiale (mediante "artifici" politico-economici), imponendo l'intervento dello stato (macro-archici). Credo, invece occorra, un liberalismo archico (politico), dunque triste, malinconicamente realista, perché consapevole dei limiti del mercato (nella fase redistributiva), come dello stato (nella fase produttiva). Se preferisce, un liberalismo sospeso tra Hayek e Keynes. Con un occhio, come avrà capito, ad alcune interessanti intuizioni di John Stuart Mill (come la distinzione tra produzione e redistribuzione, questione tra l'altro poi approfondita da Alfred Marshall).
Perché il vero punto della questione è che prima di ripartirla, bisogna produrre la ricchezza. Compito che la società
di mercato finora ha ben assolto. Perché il principio non è
cambiato: inseguire le proprie passioni,
i propri interessi, le proprie fantasie. Liberalmente. Di qui, la forza primordiale del "lasciar fare, lasciar passare".
O se si preferisce, l’irrinunciabile e tonificante grado zero dell’economia.
Cosa, come lei giustamente nota,
che i pianificatori sovietici non hanno mai capito.
Grazie ancora della sua attenzione.
Carlo Gambescia