Dopo il disastro di Genova
Si fa presto a dire concessione…
Nonostante esista in materia abbondante letteratura
scientifica, molti osservatori sembrano non rendersi conto
che l’idea di nazionalizzare la rete autostradale, tornando indietro
- attenzione - non dal regime di laissez faire, ma di concessione (un pasticcio, come vedremo), è roba da paese sottosviluppato.
In
principio era l’Anas, poi, sull’onda delle liberalizzazioni, quindi di aperture
parziali e minoritarie ai privati in termini di diritto amministrativo non
civile, decollate faticosamente negli anni Novanta del secolo scorso, si introdusse il sistema delle concessioni, che, sociologicamente parlando, è una via di
mezzo. Tradotto: né completamente privato, ne completamente pubblico. Dal punto
di vista della teoria del Simon sul comportamento amministrativo, siamo davanti a un specie di centauro
politico-economico, metà stato, metà mercato.
Parliamo di un sistema storicamente concepito, quello delle concessioni, per impedire,
l’ingresso di società straniere, o comunque per tenerle sotto stretto controllo. Però chi sa, non abbocca. Come ad esempio, le imprese anglo-americane, che non da oggi (quindi anche per tradizioni
economiche e giuridiche differenti) scorgono
nel sistema delle concessioni - che
secondo gli storici del diritto risale al centralismo napoleonico (Louise-Antoine Macarel, ne fu, dopo la caduta, il dottrinario per eccellenza) - una forma non
gradita di controllo politico dell’economia. Una concessione, di per sé, è sempre revocabile. Di conseguenza, i loro cavalli si rifiutano di
bere.
Al
sociologo, al di là dei nomi e degli argomenti da Dagospia economica, che tanto
appassionano in questi giorni i media, interessa una sola cosa: gli effetti di ricaduta sociale sul sistema
economico della forma relazionale concessione.
Esistono
studi sociologici (da ultimo si veda, la sintesi che ne fa Crouch, in Postdemocrazia) che provano come l’area grigia
pubblico-privato sia la principale causa dei fenomeni di corruzione e concussione.
Che, attenzione, tendono a crescere in
modo direttamente proporzionale all’aumento
della presenza dello stato nell’economia.
Ciò
significa che lo strumento della concessione,
dal punto di vista dei ruoli sociali ( chi valuta le credenziali, chi investe?
chi reinveste? chi controlla? ), rinvia a una confusione costitutiva, che non
dipende dalla pubblicità dei contratti, dalla loro forma, dall’autorità
di controllo, ma da uno stato, concedente, che continua a comportarsi verso il concessionario
come un dio assente, ma capriccioso e geloso.
Addirittura,
a proposito di Autostrade, abbiamo letto che il contratto di concessione stabiliva, quote precise di reinvestimento degli utili. Ora, gli utili a
bilancio, come sa chi si occupa di queste cose, sono quanto di più
aleatorio esista in natura contabile-economica. Ma come, si dirà, basta fare la differenza tra costi e ricavi?
Sì, durante gli esami all’università.
Ovviamente
esistono i revisori, le clausole di
controllo, eccetera ma resta difficile stabilire il valore effettivo degli utili, perché i mercati sono mobili e gli uomini
immobili nei loro riflessi carnivori. Il
che non significa, attenzione, che i bilanci siano inutili.
Il
punto vero della questione è che il concedente, lo stato, ragiona in termini di merito e legittimità (di
diritto amministrativo, insomma), mentre il
concessionario, dipendendo dal mercato, in termini in economici. Di qui, gli inevitabili aggiustamenti, anche a livello contrattuale e
post-contrattuale, talvolta non legali, o
sul filo della legge, soprattutto nella pratica. E
per quale ragione? Per mettere comunque insieme il diavolo (il mercato) e
l’acquasanta (il diritto amministrativo). Sicché, il concedente, è contento perché comanda, o almeno così ritiene, mentre il concessionario, si ritaglia qualche utile, ma sempre con la valigia pronta. Separati in casa.
La
sociologia insegna che esiste un’ area del diritto definita discrezionale. Ora,
nel diritto amministrativo - si parla, confondendo le due cose, anche di diritto pubblico dell’economia - la discrezionalità, soprattutto
nei contratti di diritto amministrativo e nel successivo portarli a effetto, è molto elastica. Dove c’è lo stato, c’è la politica, e dove c’è
la politica domina la discrezionalità,
il che spiega la natura particolarmente discrezionale del diritto amministrativo
che è branca del diritto pubblico, e di
conseguenza, come direbbero i giuristi spagnoli, diritto “politico”. Legittimità e merito, sì, ma con juicio.
Pertanto,
ripetiamo il problema, non è la pubblicità
dei contratti di concessione, o l’utopica idea, presente in molti giuristi, di pervenire al contratto così trasparente al punto di essere perfetto, bensì la natura equivoca (nel senso del variamente interpretabile) dell’istituto
giuridico della concessione amministrativa: politicamente, fuori dai principi dell’economia di mercato, ma
sociologicamente dentro i pericolosi meccanismi della corruzione e della
concussione.
Altra
cosa sarebbe la privatizzazione della rete autostradale italiana. Ma questa è
un’altra storia.
Carlo Gambescia