“Memorie di un
rinnegato”
Mughini e Accame:
neorealisti delle idee
Non
crediamo che nell’Italia populista l’ultimo libro di Giampiero Mughini,
Memorie di un rinnegato (Bompiani), farà molto rumore. Piuttosto, ne saranno date
interpretazioni di comodo, politicamente di comodo. Come del resto già sta accadendo, dietro il sipario sdrucito di un mezza cultura ammuffita che si affanna a
litigare sul nuovo fascismo vincente e sul nuovo antifascismo perdente o quasi. Due etichette
appiccicate in fretta su scatoloni vuoti che maleodorano di cantina.
Mughini,
prima che intellettuale, per larga parte della sua vita, ha rappresentato se stesso come personaggio
mediatico. Recitando benino e scrivendo molto meglio, spogliandosi” ogni volta
in sull’uscio” e mettendo “ i panni
reali e curiali” di Machiavelli. Altro, quattro gerundi, non consentono di dire...
Mughini,
all’inizio degli anni Ottanta del secolo
scorso, aprì alla destra, quella
neofascista, aprì televisivamente con un’inchiesta che fece, quella sì, rumore
vero. Perché tratteggiava in chiave neorealistica fascisti presi dalla strada: una generazione non di bruti
ma ricca di ragazzi che
leggevano, studiavano, si confrontavano, eccetera.
Paisà postcamicia nera.
Perché
Mughini “sdoganò”? Probabilmente, da
testimone del mattatoio ideologico degli Anni di Piombo, si augurava
che annusandosi i ladri di
biciclette ideologiche, a destra e
sinistra, iniziassero a conoscersi
meglio per fare della necessità (cognitiva) virtù (liberale).
Diciamo
che la mission mughiniana fu di tipo
socio-etnologico: da osservatore partecipante, come si legge nei manuali. Una versione italiana della riscoperta di una cultura della povertà, ma solo in fatto
di idee politiche, come nel celebre saggio di Oscar Lewis: lo studioso statunitense, una specie di Rossellini-De Sica dell’antropologia, che studiò con giusto rispetto la povertà, per andare oltre la povertà. Tradotto: studiare il neofascismo per andare oltre il fascismo.
Il
che spiega l’ amicizia neorealista di
Mughini, nata proprio allora, con Giano
Accame, altro intellettuale, in partibus
infidelium. Al quale la destra stava
stretta: stessa curiosità, stessa
cultura storica, stessa carica antropologica,
stessa retorica della transigenza.
Sarebbe interessante, qualora esistesse,
leggere il carteggio tra i due registi neorealisti delle idee, come ci piace definirli.
Del
resto anche Giano Accame, quasi per grazia ricevuta, poté concedere finalmente la parola ai fascisti, quelli morti, e importanti. Dedicando una serie televisiva alle grande
intelligenze scomode del Novecento, scomode perché non avevano rifiutato la carne, la morte e diavolo del fascismo.
Dietro la sottile regia, in senso simbolico, di Mughini e Accame
c’era e c’è un’antropologia
probabilmente liberale. O comunque di accettazione
dei valori della società
aperta. Forse più sofferta in Accame,
che comunque non era meno consapevole di
Mughini del vicolo cieco totalitario, nascosto dietro le opzioni ideologiche
assolute, di tipo fascista o comunista.
Il
dialogo, aperto da Mughini e ripreso da Accame, rinviava dunque al recupero di
un comune sentire liberale, aperto alla
democrazia rappresentativa e al mercato:
più progressista, per Mughini, più
conservatore, di destra sociale, per
Accame, ma senza esagerazioni: al punto di consigliare agli sciagurati fratellastri in camicia nera di guardarsi bene dal “ tirare il collo alla gallina dalle uova
d’oro capitalista”. Capitalismo, con juicio. Ecco la ricetta di Accame.
Siamo
quindi ben lontani dall’idea dell’alleanza schizoide tra destra e sinistra contro il godzilla mondialista, di cui oggi -
scherzi della storia - il
governo giallo-verde rappresenta la realizzazione
in chiave populista, una specie di versione HBO dei Protocolli dei Savi di Sion... O se si preferisce, il governo giallo-verde, per ora, sta al fascismo come un film di Totò a uno di
Visconti. E di conseguenza è molto criticato da fascisti e comunisti
duri e puri. Quelli dell'occhiuto cineforum. I primi, sempre in attesa della nuova ondata,
quella buona, con gli occhi lucidi alla Blasetti di “Vecchia Guardia”. I secondi al grido di un antifascismo da non vogliamo i colonnelli. Tarda commedia
all’italiana.
Mughini
e Accame rimandano invece a Rossellini e De Sica. Grande cinema.
Carlo Gambescia