giovedì 6 giugno 2019

Alessandro Campi a Prima Pagina di  Rai Radio 3
Caso Noa: del buon uso (individualista)  della bioetica  (olista)

Alessandro  Campi, dopo Machiavelli, ha scoperto la bioetica. Perché, da  commentatore  a Prima Pagina  di Rai Radio 3, da due giorni martella -  oggi per quasi quindici minuti -  su Noa, la diciassettenne  olandese, che anoressica e depressa, e non per lievi ragioni, ha  scelto il suicidio, con l'aiuto, pare, di genitori e medici.   
Campi però, come suo stile, per dirla alla romana, la  butta in caciara.  Privilegiando  i commenti  che gettano dubbi sulla libertà di scelta, non solo di Noa, che - scoperta dell’acqua calda -    non sarebbe mai assoluta.   Perciò  - e ti pareva... -  servirebbero lunghe riflessioni e  comunque  regole, meglio se restrittive, eccetera, eccetera. La nave di Campi veleggia verso il  porto delle nebbie bioetico.  
Il professore perugino  non esplicita,  lascia  intuire,  come un monsignore con il Principe di Machiavelli  in tasca.  In realtà, il suo  nemico  principale  è l’Illuminismo e la fiducia nella libertà umana.  Altrimenti detto:   il  diritto delle persone, limitato dalle cose quanto si voglia, ma comunque diritto di scegliere, “anche”  tra vita e morte.  
Del resto che cosa ci si può aspettare  da uno come  Campi che  sostiene che la nazione  è un  bisogno umano?   E che il fascismo italiano, tutto sommato,  fece delle cose buone, almeno fino a al 1938? 
Questo vale,  diciamo, per l'aspetto kantiano della questione.  Ma c'è dell'altro.  Campi dissimula, nascondendosi dietro la complessità della scelte umane. Certo, la complessità esiste.  Però non va esagerata. E soprattutto va inquadrata in un’antropologia sociale più vasta. Ci spieghiamo.  

Ogni scelta, proprio perché tale, è scelta dettata dagli eventi in cui sono immersi gli uomini.  Dunque ogni  scelta implica il rischio di una selezione personale degli eventi, che potrebbe essere quella sbagliata.  Ad esempio, Noa poteva essere curata, fisicamente e psicologicamente, quindi guarire, eccetera, eccetera. Di il qui il possibile errore,  suo,   della famiglia, delle istituzioni, della cultura che ne difende  la  scelta.
Ciò però  significa  - sempre  a proposito di complessità -  che   il vero problema, non è tanto la libertà di scelta, in sé,  quanto l’ accettazione del  rischio di morire (lo si chiami come si vuole, suicidio assistito, eutanasia, eccetera)  a causa di una selezione sbagliata degli eventi, da parte di chi decide di morire. 
Cosa vogliamo dire? Che il rischio  è complesso, e che la complessità è fonte di rischio. La  possibilità di  errore non è contro le cose, ma nelle cose. È parte integrante  della condizione umana. Pertanto  inutile tirare  in ballo la complessità quando si parla di libere scelte. Perché ci sarà sempre un margine di errore,  a prescindere.  Il rischio non si può espungere come un  refuso dalla vita individuale e sociale.     
Facciamo un altro passo avanti.  L’introduzione del concetto di rischio, inerente a ogni scelta umana,  rinvia  a due principali antropologie sociali: quella delle culture oliste  che lo rifiutano, anteponendo  la società all’individuo; quella delle culture  individualiste che lo accettano, anteponendo l’individuo alla società.

Secondo il  ragionamento olista  ogni rischio ha un risvolto sociale prevedibile, quindi l’individuo deve essere messo nelle condizioni “di fare le scelte giuste” per il bene della società. Ovviamente, l’individualismo, sostiene l’esatto contrario, nel senso, che il rischio, non potendo gli uomini prevederne gli effetti  di  ricaduta sociale,  resta a carico dell’ individuo. 
L’olismo rimanda al costruttivismo, e di rimbalzo alle concezioni politiche  che sostengono di sapere ciò che è bene per ogni singolo uomo dal punto di vista della diminuzione del rischio sociale. Per citare l'autoritaria pedagogia  giacobina,  l'uomo deve essere addirittura costretto a essere libero.
L’individualismo invece rinvia alla spontaneità della mano invisibile del sociale, perché asserisce che ciò che ogni singolo individuo ritiene come bene, resta tale,  e che di riflesso  non gli si può ordinare di essere libero. E per una semplice ragione: perché le conseguenze delle azioni sociali, dal punto di vista del rischio,  sono imprevedibili, nel bene come nel male.  Quindi non c'è un bene unico, uguale per tutti. Ognuno resta libero di perseguire la propria strada, assumendosi i rischi delle proprie scelte.
La superiorità della tesi individualista  è comprovata  da  tutta la storia moderna,  dove si mostra come  accettazione del rischio e   imprevedibilità degli effetti di ricaduta delle azioni individuali, siano alla base  del progresso e del benessere fino a oggi  conseguiti.
Va però sottolineato che nella pratica  olismo e costruttivismo tendono  a mescolarsi insieme, secondo dosaggi diversi, prodotti dall’intensità  o meno  delle reazioni olistiche: si va dal totalitarismo al welfarismo. Ciò  significa che l’individualismo puro, nonostante l’apporto dato al progresso umano,  ha vita difficile, perché c’è  sempre qualcuno che dichiara  di sapere ciò che sia bene per qualcun altro.  Di qui  i ciclici conflitti  tra olisti e individualisti sulla riduzione o amplificazione dei rischi inerenti alle scelte.

Come definire allora  la posizione di Campi?  Quella di un olista che gioca a fare il furbo gettando nelle acque argomentative, fino a inquinarle,  quantità industriali di complessità.  Evidentemente le letture ultima ora di Machiavelli sono servite a qualcosa. 
Del resto - scommettiamo -  un posticino alla Pontificia Accademia delle  Scienze Sociali  o in qualche commissione bioetica  non dispiacerebbe a Campi.  Di qui  probabilmente  il  “buon  uso”  di  Prima Pagina.  Uso individualistico, per curricolo diciamo.  Non olista.   In fondo, un peccatuccio…   Cinque Ave Maria e passa la paura.  

Carlo Gambescia