Alessandro Campi a Prima Pagina di Rai Radio 3
Caso Noa: del buon uso (individualista) della bioetica (olista)
Alessandro
Campi, dopo Machiavelli, ha scoperto la
bioetica. Perché, da commentatore a Prima Pagina
di Rai Radio 3, da due giorni martella - oggi per quasi quindici minuti - su Noa, la diciassettenne olandese, che anoressica e depressa, e non per
lievi ragioni, ha scelto il suicidio,
con l'aiuto, pare, di genitori e medici.
Campi
però, come suo stile, per dirla alla romana, la butta in caciara. Privilegiando
i commenti che gettano dubbi
sulla libertà di scelta, non solo di Noa, che - scoperta dell’acqua calda
- non sarebbe mai assoluta. Perciò - e ti pareva... - servirebbero lunghe riflessioni e comunque regole, meglio se restrittive, eccetera,
eccetera. La nave di Campi veleggia verso il porto delle nebbie bioetico.
Il professore perugino non esplicita, lascia intuire, come un monsignore con il Principe di Machiavelli in
tasca. In realtà, il suo nemico
principale è l’Illuminismo e la fiducia
nella libertà umana. Altrimenti
detto: il diritto delle persone, limitato dalle cose
quanto si voglia, ma comunque diritto di scegliere, “anche” tra vita e morte.
Del
resto che cosa ci si può aspettare da
uno come Campi che sostiene che la nazione è un bisogno
umano? E che il fascismo italiano, tutto sommato, fece delle cose buone, almeno fino a al 1938?
Questo vale, diciamo, per l'aspetto kantiano della questione. Ma c'è dell'altro. Campi
dissimula, nascondendosi dietro la complessità della scelte umane. Certo, la
complessità esiste. Però non va
esagerata. E soprattutto va inquadrata in un’antropologia sociale più vasta. Ci
spieghiamo.
Ogni
scelta, proprio perché tale, è scelta dettata dagli eventi in cui sono immersi
gli uomini. Dunque ogni scelta implica il rischio di una selezione
personale degli eventi, che potrebbe essere quella sbagliata. Ad esempio, Noa poteva essere curata,
fisicamente e psicologicamente, quindi guarire, eccetera, eccetera. Di il qui
il possibile errore, suo, della famiglia, delle istituzioni, della
cultura che ne difende la scelta.
Ciò
però significa - sempre a proposito di complessità - che il vero problema, non è tanto la libertà di scelta,
in sé, quanto l’ accettazione del rischio di morire (lo si chiami come si
vuole, suicidio assistito, eutanasia, eccetera) a causa di una selezione
sbagliata degli eventi, da parte di chi decide di morire.
Cosa vogliamo dire?
Che il rischio è complesso, e che la
complessità è fonte di rischio. La
possibilità di errore non è
contro le cose, ma nelle cose. È parte integrante della condizione umana. Pertanto inutile
tirare in ballo la complessità quando si
parla di libere scelte. Perché ci sarà sempre un margine di errore, a prescindere.
Il rischio non si può espungere come un refuso dalla vita individuale e sociale.
Facciamo un altro passo avanti. L’introduzione
del concetto di rischio, inerente a ogni scelta umana, rinvia a due principali antropologie sociali: quella
delle culture oliste che lo rifiutano,
anteponendo la società all’individuo;
quella delle culture individualiste che
lo accettano, anteponendo l’individuo
alla società.
Secondo
il ragionamento olista ogni rischio ha un risvolto sociale
prevedibile, quindi l’individuo deve essere messo nelle condizioni “di fare le
scelte giuste” per il bene della società. Ovviamente, l’individualismo,
sostiene l’esatto contrario, nel senso, che il rischio, non potendo gli uomini
prevederne gli effetti di ricaduta sociale, resta a carico dell’ individuo.
L’olismo
rimanda al costruttivismo, e di rimbalzo alle concezioni politiche che sostengono di sapere ciò che è bene per
ogni singolo uomo dal punto di vista della diminuzione del rischio sociale. Per citare l'autoritaria pedagogia giacobina, l'uomo deve essere addirittura costretto a essere libero.
L’individualismo invece rinvia alla spontaneità della mano invisibile del sociale, perché asserisce che ciò che ogni singolo individuo ritiene come bene, resta tale, e che di riflesso non gli si può ordinare di essere libero. E per una semplice ragione: perché le conseguenze delle azioni sociali, dal punto di vista del rischio, sono imprevedibili, nel bene come nel male. Quindi non c'è un bene unico, uguale per tutti. Ognuno resta libero di perseguire la propria strada, assumendosi i rischi delle proprie scelte.
L’individualismo invece rinvia alla spontaneità della mano invisibile del sociale, perché asserisce che ciò che ogni singolo individuo ritiene come bene, resta tale, e che di riflesso non gli si può ordinare di essere libero. E per una semplice ragione: perché le conseguenze delle azioni sociali, dal punto di vista del rischio, sono imprevedibili, nel bene come nel male. Quindi non c'è un bene unico, uguale per tutti. Ognuno resta libero di perseguire la propria strada, assumendosi i rischi delle proprie scelte.
La superiorità della tesi individualista è comprovata da tutta la storia moderna, dove si mostra come accettazione del rischio e imprevedibilità
degli effetti di ricaduta delle azioni individuali, siano alla base del progresso e del benessere fino a oggi conseguiti.
Va
però sottolineato che nella pratica olismo
e costruttivismo tendono a mescolarsi
insieme, secondo dosaggi diversi, prodotti dall’intensità o meno delle reazioni olistiche: si va dal totalitarismo al welfarismo. Ciò significa che l’individualismo puro, nonostante l’apporto dato al progresso
umano, ha vita difficile, perché c’è sempre qualcuno che dichiara di sapere ciò che sia bene per qualcun
altro. Di qui i ciclici conflitti tra olisti e individualisti sulla riduzione o
amplificazione dei rischi inerenti alle scelte.
Come
definire allora la posizione di
Campi? Quella di un olista che gioca a
fare il furbo gettando nelle acque argomentative, fino a inquinarle, quantità industriali di complessità. Evidentemente le letture ultima ora di Machiavelli sono servite a qualcosa.
Del
resto - scommettiamo - un posticino alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali o in qualche commissione bioetica non dispiacerebbe a Campi. Di
qui probabilmente il
“buon uso” di
Prima Pagina. Uso
individualistico, per curricolo diciamo. Non olista. In fondo, un peccatuccio… Cinque
Ave Maria e passa la paura.
Carlo Gambescia