Intellettuali e alterità
Il popolo ama la cultura?
Domande
Le
élite colte sono diverse dal resto del
popolo? La gente comune ama la cultura? La conoscenza è virtù? Chi è colto è anche buono, moralmente
buono? La cultura ci fa diventare più
tolleranti?
Come
si può vedere la questione dell’alterità dell’intellettuale, ossia della sua
diversità rispetto alla gente comune
è questione non da poco.
Spesso
molti intellettuali fanno dell’alterità una bandiera rispetto ad altri
intellettuali ( intra-alterità), nonché nei riguardi
della della gente comune (extra-alterità).
Ora se la conoscenza è virtù, e la virtù rimanda alla bontà morale, cioè al vedere nell’altro un essere buono uguale a noi, come conciliare alterità e uguaglianza nella bontà?
Alterità
Il
punto è che l’alterità, come rivendicazione della diversità morale fa a pugni
con l’uguaglianza morale. Più si
rivendica la propria diversità o alterità più inevitabilmente si introducono principi
gerarchico-conoscitivi. Nel senso - ci spieghiamo - che giudicare significa stabilire delle
gerarchie e perciò delle scale di diversità. Ciò significa che la conoscenza è gerarchia, il contrario
dell’uguaglianza morale, quale disvelamento cognitivo della bontà racchiusa nell’altro. Quindi la
conoscenza, proprio perché giudizio, non può trasformarsi in virtù morale, perché negherebbe se stessa.
Ma
neppure la virtù è conoscenza. Si prenda la figura moderna dell’intellettuale
gramsciano, organico a un progetto politico di tipo pedagogico. L’organicità è il contrario della libertà intellettuale.
Pertanto rivendicare l’alterità
intellettuale, significa respingere qualsiasi logica organicista della
dipendenza da un progetto politico-pedagogico come tale.
La
lezione della sociologia
Però, in realtà, la sociologia insegna che
non esiste alterità allo stato puro. L’ uomo vive immerso in una rete di rapporti, di conoscenze e scambi, sicché esiste una logica oggettiva dell’organicità sociale, legata a un capitale sociale di cognizioni e
relazioni che, piaccia o meno, ognuno di noi acquisisce e usa. Ciò significa che la rivendicazione dell’alterità assoluta
implicherebbe la fuoriuscita dalla
società. Il che, di fatto, è
impossibile. Per fare un esempio banale,
per scrivere un tempo servivano carta e
penna, oggi occorre il personal computer, il che significa che esiste quanto
meno una dipendenza da alcuni veicoli sociali. Dipendenza che aumenta scalarmente in base alla necessità di
veicolare il proprio pensiero, veicolazione che distingue l’attività intellettuale. Chi scrive deve essere letto. E per essere letti si deve appartenere al mondo sociale. Non si
è mai soli, anche se l'idealizzazione della solitudine può fare parte dei piaceri narcisistici di alcuni scrittori. Eccezione che conferma la regola.
Il
conflitto culturale
Esiste
anche, come detto, una alterità (extra-alterità) alle mode culturali. Ma, attenzione, in termini di densità del capitale relazionale e sociale, l’alterità alle mode non è che l’adesione a un’altra forma di moda che rinvia a valori non
ancora di moda. Non è che una forma di socializzazione con altri mezzi.
Molti
intellettuali, si riempiono la bocca
del loro essere contro, sempre contro. Alcuni intellettuali, invece scelgono la strada del disimpegno morale. Altri ancora sposano la
difesa dei più alti valori di giustizia, bellezza, bontà, verità. I primi sposano le cause più diverse e
contraddittorie, i secondi si considerano al di là del bene e del male. I
terzi si fanno giudici dei più alti
valori, dividendosi sulle interpretazioni. Il risultato è il conflitto
intellettuale di tutti contro tutti: ribelli, disimpegnati e chierici
Effetti
Quali
possono essere gli effetti di questa
guerra culturale sulla gente comune? La
cultura viene vissuta dalla gente comune come qualcosa di noioso, verboso e conflittuale. Di qui la crescente distanza tra le élite
culturali, chiuse nei propri riti
sociali di guerra, e il resto della gente,
tesa a occuparsi di altre guerre legate alla ricerca della moneta sonante della sicurezza sociale.
Ne
consegue, la riduzione della cultura di base a pura informazione scolastica
legata al perseguimento di un titolo, di cui la società, per funzionare, ha necessità, come del resto ne abbisognano i singoli per perseguire uno status sociale. Il succo del
nostro discorso è che la gente
comune vuole fuoriuscire il prima
possibile dal conflitto culturale, vuole insomma restarvi appena il tempo per
conseguire un titolo sociale, per poi gettarsi
in conflitti esistenziali che ritiene più autentici, perché personalmente più coinvolgenti di quelli culturali, lontani e astratti. Per poi magari, come negli ultimi anni, divertirsi sui social, dove la guerra di tutti contro tutti si trasforma in rilassante passatempo: la prosecuzione, a livello di massa, del conflitto con altri mezzi, che non richiedono studio o impegno. Si pensi all'uso degli emoticon, il cui simbolismo rinvia al raggelante grado zero della cultura.
Risposte
Pertanto,
per rispondere alle domandi iniziali: 1) le élite colte non possono che essere diverse dal popolo; 2) la gente comune non ama e
teme la cultura e dunque non vuole assolutamente elevarsi, se non per il
conseguimento di titoli apportatori di valore sociale; 3) la conoscenza non è
virtù, perché più che unire divide e gerarchizza; 4) chi è colto o erudito non è moralmente
buono, altrimenti non favorirebbe la gaia scienza della guerra di tutti contro tutti, che è frutto
della gerarchizzazione cognitiva.
Di
conseguenza 5) quanto più il conflitto culturale è avvertito come tale tanto
più sarà difficile conciliare alterità e
uguaglianza nella bontà. Sotto questo aspetto 6) perfino un valore come la tolleranza che
dovrebbe servire a neutralizzare i conflitti, diventa una risorsa
stessa del conflitto. Quindi, non è del
tutto vero che la cultura ci fa
diventare più tolleranti. Molto dipende, dai livelli di socializzazione del conflitto, e dal buon uso della tolleranza e della
bontà della causa dalla quale la cultura dipende. Ad esempio, la tolleranza verso un
partito totalitario, che come sente parlare di cultura pone mano alla pistola, è causa sicura di rovina delle libertà.
Conclusioni
Concludendo, più si valorizza l’alterità conflittuale più
la società si trasforma in un teatro bellico, più si valorizza, l’organicità
dell’intellettuale a un qualche progetto pedagogico, più la società si trasforma
in un cimitero dell’idee. Più, infine, si
valorizza il disimpegno, come valore “alterizzante”,
più la società diviene incomprensibile come un libro scritto in una lingua
sconosciuta.
E
questo è il punto in cui oggi ci troviamo. Si rifletta su un fatto: per quale ragione è così in voga tra gli intellettuali la metafora della liquidità? Perché questo traslato, affanna e consola al tempo stesso come il dio manzoniano. Dal momento che il suo uso massiccio assolve gli intellettuali dall'incapacità di leggere il gran libro della sociologia, di cui non conoscono più la lingua, facilitandone il disimpegno. E proprio in nome - quando si dice il caso - di una presunta alterità dell'intellettuale alla liquidità... A qualcosa di nebuloso che non si sa bene cosa sia. A un metro privo di indicazioni numeriche...
Detto altrimenti, il concetto di liquidità rappresenta l' alibi perfetto per un narcisismo che ormai costituisce l'unica unità di misura dell'intellettuale "alterizzante".
Detto altrimenti, il concetto di liquidità rappresenta l' alibi perfetto per un narcisismo che ormai costituisce l'unica unità di misura dell'intellettuale "alterizzante".
Carlo Gambescia
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