giovedì 27 giugno 2019

Intellettuali e alterità
Il popolo ama la cultura?


Domande
Le élite colte sono diverse  dal resto del popolo?  La gente comune ama la cultura? La conoscenza è virtù?  Chi è colto è anche buono, moralmente buono?   La cultura ci fa diventare più tolleranti?
Come si può vedere la questione dell’alterità dell’intellettuale, ossia   della sua  diversità rispetto alla gente comune  è questione non da poco.
Spesso molti intellettuali fanno dell’alterità una bandiera rispetto ad altri intellettuali ( intra-alterità), nonché  nei riguardi  della  della gente comune (extra-alterità). 
Ora  se la conoscenza è virtù, e la virtù rimanda alla  bontà morale, cioè  al  vedere nell’altro un essere buono  uguale a noi,   come conciliare alterità  e uguaglianza nella bontà?

Alterità
Il punto è che l’alterità, come rivendicazione della diversità morale  fa a pugni con l’uguaglianza morale.  Più si rivendica la propria diversità o alterità  più inevitabilmente si introducono principi gerarchico-conoscitivi. Nel senso  - ci spieghiamo -   che giudicare significa stabilire delle gerarchie e perciò delle scale di diversità.  Ciò significa che la conoscenza è gerarchia, il contrario dell’uguaglianza morale, quale disvelamento cognitivo   della bontà   racchiusa  nell’altro.   Quindi la conoscenza, proprio perché  giudizio,  non può trasformarsi in  virtù morale, perché negherebbe se stessa.   
Ma neppure la virtù è conoscenza.   Si prenda la figura moderna dell’intellettuale gramsciano, organico a un progetto politico di tipo pedagogico.  L’organicità  è il contrario della libertà intellettuale. Pertanto  rivendicare l’alterità intellettuale, significa respingere qualsiasi logica organicista della dipendenza da un progetto politico-pedagogico come tale.

La lezione della sociologia
Però,  in realtà,  la sociologia insegna che non esiste alterità allo stato puro. L’ uomo  vive  immerso in una rete di rapporti, di conoscenze e  scambi,  sicché   esiste   una logica oggettiva  dell’organicità sociale,    legata  a un capitale sociale di cognizioni e relazioni che, piaccia o meno, ognuno di noi acquisisce e usa.   Ciò significa che  la rivendicazione dell’alterità assoluta implicherebbe  la fuoriuscita dalla società.  Il che, di fatto,  è impossibile.  Per fare un esempio banale,  per scrivere un tempo servivano carta  e penna, oggi occorre il personal computer, il che significa che esiste quanto meno una dipendenza da alcuni veicoli sociali.  Dipendenza che aumenta  scalarmente in base  alla necessità di veicolare  il proprio pensiero, veicolazione che distingue l’attività  intellettuale. Chi scrive deve essere letto. E per essere letti si deve appartenere al  mondo sociale.   Non si  è mai soli, anche se  l'idealizzazione della solitudine può  fare parte dei piaceri narcisistici di alcuni scrittori. Eccezione che conferma la regola.  

Il conflitto culturale
Esiste anche, come detto, una alterità (extra-alterità) alle  mode culturali.  Ma, attenzione, in termini di densità  del capitale relazionale e sociale, l’alterità alle mode non è che l’adesione a  un’altra forma di moda che rinvia a valori non ancora di moda. Non è che  una forma di socializzazione  con altri mezzi. 
Molti intellettuali,  si riempiono la bocca del  loro essere contro, sempre contro. Alcuni intellettuali, invece scelgono la strada del disimpegno morale. Altri ancora sposano la difesa dei più alti valori di giustizia, bellezza, bontà, verità.  I primi  sposano le cause più diverse e contraddittorie, i secondi si considerano al di là del bene e del male. I terzi  si fanno giudici dei più alti valori, dividendosi sulle interpretazioni. Il risultato è il conflitto intellettuale  di tutti contro tutti: ribelli, disimpegnati e chierici   

Effetti
Quali possono essere gli effetti  di questa guerra culturale  sulla gente comune? La cultura viene vissuta dalla gente comune come qualcosa di  noioso,  verboso e conflittuale.  Di qui la crescente distanza tra le élite culturali,  chiuse nei propri riti sociali di guerra,  e il resto della gente, tesa a occuparsi di altre guerre  legate alla ricerca della moneta sonante della sicurezza sociale.  
Ne consegue, la riduzione della cultura di base a pura informazione scolastica legata al perseguimento di un  titolo, di cui la società, per funzionare,  ha necessità, come del resto ne abbisognano   i singoli per perseguire uno status sociale.  Il succo del  nostro discorso è che la  gente comune vuole fuoriuscire  il prima possibile dal conflitto culturale, vuole insomma restarvi appena il tempo per conseguire un  titolo sociale, per poi  gettarsi  in conflitti esistenziali che ritiene più autentici, perché personalmente più  coinvolgenti  di quelli culturali, lontani  e astratti. Per poi magari, come negli ultimi anni,  divertirsi sui social, dove la guerra di tutti contro tutti si trasforma  in rilassante passatempo:  la prosecuzione, a livello di massa, del conflitto  con altri mezzi, che non richiedono studio o impegno.  Si pensi all'uso degli emoticon, il cui  simbolismo rinvia al raggelante grado zero della cultura.    

Risposte
Pertanto, per rispondere alle domandi iniziali: 1) le élite colte non possono che  essere diverse dal popolo; 2) la gente comune  non ama e  teme la cultura e dunque non vuole assolutamente elevarsi, se non per il conseguimento di titoli apportatori di valore sociale; 3) la conoscenza non è virtù, perché più che unire divide e gerarchizza; 4) chi è colto o  erudito  non è moralmente buono, altrimenti non favorirebbe la gaia scienza della guerra di tutti contro tutti, che è frutto della  gerarchizzazione cognitiva.  
Di conseguenza 5) quanto più il conflitto culturale è avvertito come tale tanto più sarà difficile conciliare  alterità e uguaglianza nella bontà. Sotto questo aspetto 6) perfino un valore come la tolleranza che dovrebbe  servire a  neutralizzare i conflitti, diventa una risorsa stessa del conflitto.  Quindi, non è del tutto vero  che la cultura ci fa diventare più tolleranti. Molto dipende, dai livelli di socializzazione del conflitto, e  dal buon uso della tolleranza e della bontà della causa dalla quale la cultura dipende. Ad esempio, la tolleranza verso un partito totalitario, che come sente parlare di cultura pone mano alla pistola,  è causa sicura di rovina delle libertà.

Conclusioni
Concludendo, più si valorizza l’alterità conflittuale più la società si trasforma in un teatro bellico, più si valorizza, l’organicità dell’intellettuale a un qualche progetto pedagogico, più la società si trasforma in un cimitero dell’idee. Più,  infine,  si valorizza il disimpegno,  come valore “alterizzante”, più la società diviene incomprensibile come un libro scritto in una lingua sconosciuta.
E questo è il punto in cui oggi ci troviamo.  Si rifletta su un fatto:  per quale ragione  è così in voga  tra gli intellettuali   la metafora della liquidità?   Perché  questo traslato,  affanna e consola al tempo stesso come il dio manzoniano.  Dal momento che  il suo uso massiccio  assolve  gli intellettuali dall'incapacità di leggere il gran libro della sociologia, di cui non conoscono più la lingua, facilitandone il disimpegno.  E proprio in nome  -  quando si dice il caso -    di una presunta  alterità dell'intellettuale  alla liquidità... A qualcosa di nebuloso  che non si sa bene  cosa sia.  A un metro privo di indicazioni numeriche...
Detto altrimenti, il concetto di liquidità rappresenta l' alibi perfetto  per   un narcisismo  che ormai costituisce  l'unica  unità di misura  dell'intellettuale "alterizzante".      

Carlo Gambescia                      

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