Ma è vero che quanto è più alto il numero delle persone istruite e
agiate tanto più una società è pacifica?
Fra
i tanti luoghi comuni oggi predominanti, c’è quello cripto-socialista, che dà per scontata l’esistenza di un nesso causale tra livelli di povertà e istruzione da una parte, e uso della violenza dall’altra. Per farla breve: quanto più è alto
il numero delle persone istruite e agiate tanto
più una società è pacifica.
Per
fare un esempio, ieri i media hanno improvvisamente “scoperto” che i macellai di Dacca erano istruiti e di buona famiglia. Come è possibile si sono chiesti, tirando Marx (in salsa liberal) per la giacchetta? Naturalmente, per far quadrare i conti ideologici, si è addebitata la strage, altrettanto frettolosamente, all’oscurantismo
religioso, liquidato come analfabetismo spirituale di ritorno. Il che però ha un sottotesto preciso: l’idea che la
religione sia un fattore negativo in rotta con l’idea di una società di pacifici ceti medi riflessivi, per esprimere modernamente un vecchio
cavallo di battaglia (concettuale) dell’illuminismo giacobino e anticlericale.
Un mistero sociologico, o quasi...
Ora, a parte che, come mostrano ricerche e studi (Sorokin e Bouthoul), il secolo XX, il secolo meno religioso e più istruito e democratico dell’intera storia umana, si è finora rivelato il secolo più violento dall’invenzione dell’arco e delle frecce. Detto per inciso - quasi una banalità - Hitler non era credente. Per non parlare dell’ateo confesso Stalin e di certi santoni liberal dei nostri tempi, salmodianti adoratori della laicissima divinità progresso. Ma si sa evocare le folle impoverite e tumultuanti che assaltano il Palazzo d'Inverno, fa tanto Rivoluzione d'Ottobre... Ci si sente dal lato giusto della storia, perché si celebra il popolo...
A parte questo fatto, dicevamo, resta una specie di mistero sociologico ( o quasi, come vedremo) individuare le radici della violenza, soprattutto se in formato magnum,
ossia di violenza tesa a distruggere fisicamente il nemico. Di sicuro, la violenza non ha alcun nesso preciso con
il livello culturale ed economico delle persone, al massimo può essere una concausa, storicamente condizionata. Perciò, sarebbe ora di finirla con le stupide concessioni liberal agli orfani del marxismo. Probabilmente, invece, in ultima istanza, la violenza non rinvia al lato materialistico delle cose, ma a quello delle emozioni e dei sentimenti. Parliamo dell'invidia sociale, sentimento insinuante e non sempre percettibile (almeno all'inizio), e in particolare al suo lato emulativo-negativo. Ci spieghiamo meglio.
Pensiamo a quel senso di impotenza e frustrazione nei riguardi del cambiamento sociale, che sfocia nel risentimento individuale e collettivo. Scomponiamolo: a) invidia per un presente che non è nostro; b) nostalgia per un passato a rischio; c) risentimento verso un futuro incombente. Insomma, il cambiamento viene visto, dal portatore (anche “sano” culturalmente ed economicamente, di qui l'interclassismo che ha sorpreso i media), come crescente e pericoloso mutamento del proprio orizzonte vitale. Diciamo che alla radice dell'emulazione in quanto tale, c'è una volontà di potenza sociale in formazione, neutralmente affettiva, che se ben canalizzata, dentro le istituzioni, si trasforma in buona invidia positiva che rinvia alla competizione-emulazione economica; se invece va contro le istituzioni, degenera in cattiva invidia negativa, l'ambiente si surriscalda, la competizione-emulazione si tramuta in conflitto e il conflitto in guerra (Schoeck).
Ovviamente, nel caso del fenomeno jihadista, il futuro incombente rinvia alla modernità. Inoltre i processi di emulazione negativa sono moltiplicati, quanto agli esiti, dall'uso del Web. Effetto moltiplicatore che vale per tutti i processi, anche per l' emulazione positiva. Detto per inciso: la tecnica è sempre neutrale, quindi inutile prendersela con la Rete: il medium offre possibilità, sta all'uomo sfruttarle, quanto al messaggio, nel bene come nel male.
Pensiamo a quel senso di impotenza e frustrazione nei riguardi del cambiamento sociale, che sfocia nel risentimento individuale e collettivo. Scomponiamolo: a) invidia per un presente che non è nostro; b) nostalgia per un passato a rischio; c) risentimento verso un futuro incombente. Insomma, il cambiamento viene visto, dal portatore (anche “sano” culturalmente ed economicamente, di qui l'interclassismo che ha sorpreso i media), come crescente e pericoloso mutamento del proprio orizzonte vitale. Diciamo che alla radice dell'emulazione in quanto tale, c'è una volontà di potenza sociale in formazione, neutralmente affettiva, che se ben canalizzata, dentro le istituzioni, si trasforma in buona invidia positiva che rinvia alla competizione-emulazione economica; se invece va contro le istituzioni, degenera in cattiva invidia negativa, l'ambiente si surriscalda, la competizione-emulazione si tramuta in conflitto e il conflitto in guerra (Schoeck).
Ovviamente, nel caso del fenomeno jihadista, il futuro incombente rinvia alla modernità. Inoltre i processi di emulazione negativa sono moltiplicati, quanto agli esiti, dall'uso del Web. Effetto moltiplicatore che vale per tutti i processi, anche per l' emulazione positiva. Detto per inciso: la tecnica è sempre neutrale, quindi inutile prendersela con la Rete: il medium offre possibilità, sta all'uomo sfruttarle, quanto al messaggio, nel bene come nel male.
Il prezzo della civiltà
Può sembrare paradossale, ma le società meno violente, sono quelle stagnanti, dove le parole cultura, istruzione, mobilità sociale (nel senso occidentale del termine) sono sconosciute. Il che ovviamente non significa, che se tornassimo all’Età della Pietra, ci trasformeremmo subito in agnellini. Diciamo che, in quel contesto, sarebbero comunque commessi atti di violenza, legati, però, al ciclo stagionale della ricerca del cibo e alle capacità di procurarsene. La guerra vera e propria ( a livello di eserciti organizzati, eccetera) appare con la nascita della società sedentaria, contraddistinta dallo sviluppo di un surplus economico-culturale, di cui impadronirsi, e demografico, da impiegare per scopi produttivi e bellici (Bouthoul, Gumplowicz, Oppenheimer e la scuola del conflitto sociale).
Sembra
paradossale, ma quanto più la civiltà (Toynbee e Huntington, per il concetto) si sviluppa, raffina, si estende ad altri popoli, in qualche misura si "mobilizza", tanto più
cresce il fenomeno sociale dell'invidia, che inevitabilmente, si ciba della inevitabile divisione sul campo in vincitori e vinti. Di qui, lo svilupparsi negli sconfitti del desiderio di rigiocare la partita. Il che non sempre è possibile, dal momento che la civiltà impone istituzioni, procedure,
forme, tempi, barriere. Di qui però, il senso di impotenza. Sicché, l'invidia diventa risentimento, il risentimento odio, e l'odio violenza. Se si unisce
ciò al fatto, che in ogni società - si tratta di una costante sociale - esiste una percentuale fissa di “leoni” e/o rivoluzionari, ribelli, scontenti, "mattoidi" (Lombroso), devianti pronti a tutto, quale effetto - altra costante sociale - dell'imperfetta redistribuzione sociale di status e ruoli (Sorokin), ecco spiegata la questione dell’inestirpabilità
della violenza, almeno dal punto di
vista, per usare un parolone, psico-socio-antropologico (Elias, Gehlen, Toynbee).
Farmaco e/o veleno
Certo, la violenza si può circoscrivere e contenere: la civiltà fornisce strumenti istituzionali, spesso molto raffinati. Del resto, per usare un linguaggio impressionistico, la civiltà racchiude in sé una potente sostanza vitalizzante: l'invidia, che al tempo stesso può essere farmaco ( aspirazioni di status, capaci di favorire una sana competizione economica) o veleno (feroci risentimenti capaci di generare conflitti ideologici e guerre disastrose). Senza dimenticare che talvolta, nelle grandi crisi storiche, l'invidia può essere farmaco e veleno insieme. Si potrebbe dire, per esemplificare, scontentando gli storici, che le modernizzazioni riuscite rimandano all'invidia-farmaco, quelle non riuscite o a metà, rinviano all'invidia-veleno. Per contro, la "Guerra civile europea", novecentesca, fu un esempio di farmaco e veleno al tempo stesso: vinse la modernizzazione liberale su quella totalitaria, ma a caro prezzo per tutti. E ne stiamo ancora pagando le conseguenze. A questo punto, inutile ripetere che il risentimento dell'universo jihadista rinvia all'invidia-veleno.
Dicevamo la violenza si può circoscrivere. Certo. Ma la si può anche ripudiare? No. Al contrario, più si rifiuta di comprenderne le vere cause, più la violenza bussa alla porta. Più la si ignora, più riaffiora e colpisce, espandendosi. Certo, non è facile separare il farmaco dal veleno. L'intera storia umana si svolge lungo le linee aggrovigliate della competizione, del conflitto, della guerra. La stessa cooperazione tra gli esseri umani è sempre rivolta contro qualcuno o qualcosa. Sicché, i pacifisti, in particolare, oggi possono far leva sul senso di colpa ("Scagli la prima pietra eccetera"), consigliando mellifluamente di porgere l'altra guancia. E in attesa di cosa? Che il nemico capisca e "corregga" se stesso, secondo i dettami di un approccio psico-culturale e terapeutico alla politica estera, basato sull'alleanza tra medico (noi) e paziente (il nemico)?
Che fare?
Ora, le nostre élites politiche sono consapevoli di questi complessi meccanismi sociologici? E del pericolo che tutti corriamo? Parrebbe di no. Se la civiltà è sempre a rischio, per preservarla dalla distruzione, non si può infilare la testa nella sabbia da perfetti struzzi pacifisti, sperando nella vittoria dell' alleanza terapeutica, permanente e universale contro la guerra. Che fare allora? Ricorrere, soprattutto nei casi estremi (come sta accadendo), ad altra violenza, di intensità superiore a quella del nemico. Solo così si vince. Non c'è altra strada.
Talvolta si parla della “forza”, quella legalitaria, di chi sia costretto a difendersi, contro la violenza, illegale dell’aggressore (la cosiddetta "guerra giusta"). Ma si tratta di filosofemi a sfondo moralistico evocati dai vincitori: la violenza è violenza. Pertanto, se necessario, si deve andare addirittura oltre la Legge del Taglione. Principio, che come l'amico Carlo Pompei ben sa, ci riporta al Codice di Hammurabi, prima testimonianza di civiltà, arcaica, ma sedentaria, che dovette confrontarsi con la questione dell’ordine sociale, della violenza e della guerra. E qual è la lezione? Schiacciare il nemico prima che schiacci noi. E tutto ciò, per permettere agli uomini e alle donne del nostro Occidente di continuare a invidiarsi, sanamente, a vicenda. E perciò a competere liberamente, facendosi il minor male possibile. Un certo filosofo parlò di socialità-asociale. Ed è ciò per cui è bello vivere e lottare. E se necessario, morire.
Carlo
Gambescia
Carlo, un Nume ha guidato la tua penna digitale. Non posso che condividere, perfino le virgole, quanto tu hai scritto e concepito. Oso, consentimi, di avvicinare le tue tesi al senso tradizionale della Vita. Come spirito, almeno. Perché i governi sono formati da ignoranti e arroganti figurelle? Perché le èlite hanno fallito? Il potere di dominare è più forte del potere di mettere ordine nel caos? Perché l'Europa è imbelle? La cultura (Scelba parlava di "culturame") nominalistica, individualistica, riduzionista di ogni senso religioso alto, che imperversa nel mondo, quanto incide sullo stato delle cose? Ritenere "follia" ogni stragismo è una forma di paura, un metodo per non combattere il male con le armi?
RispondiEliminaGrazie, Carlo, per la tua intelligenza e passione che metti per leggere la realtà.
Caro Angelo, "personalmente" sono contrario al culto della "personalità", la mia... Grazie, comunque. Anche perché, pur non essendo d'accordo su tante cose, ti leggo volentieri. Che ci unisca, "quell'intelligenza e passione", credo comune, cui tu accenni, nella chiusa? Ripeto, troppo generosamente :-)
RispondiElimina