Il tentativo di golpe in Turchia e il ruolo dei militari in Occidente
Ci salveranno i pretoriani?
Il
golpe in Turchia è fallito. Peccato. Non tutti infatti sanno che
l’esercito turco, sia sul piano costituzionale (ovviamente, fino alla sciagurata riforma di Erdoğan),
sia su quello politico e sociale rappresenta, anche simbolicamente, la
difesa della modernizzazione e laicizzazione della Turchia: i due
pilastri ideali di una tradizione rivoluzionaria che
risale a Mustafa Kemal Atatürk. Insomma, i generali
turchi (non tutti, naturalmente) continuano a guardare a Occidente,
mentre Erdoğan non si sa bene dove.
Come si usa dire, le cancellerie occidentali hanno
condannato il tentativo golpe, con tedeschi e americani in prima fila. Probabilmente, se fosse riuscito,
l’atteggiamento sarebbe stato diverso
(soprattutto degli statunitensi). O comunque avremmo avuto una fase di attesa
diplomatica. Benché, oggi, - e questo è il punto debole delle
democrazie occidentali, da sottolineare - nel mondo occidentale i pretoriani non siano proprio ben visti. In
Occidente, esiste una
preferenza per la pace e per la contrattazione politica a ogni costo, inaugurata, per ovvie ragioni, durante la
Guerra Fredda e consolidatasi, senza alcuna vera necessità, dopo la
caduta dell’Unione Sovietica. Alla forza, come regolatrice degli interessi, per dirla con Kissinger, si preferisce un approccio terapeutico-culturale fondato sulle buone intenzioni proprie e del nemico.Ridicolo.
Si tratta di una scelta che ha penalizzato, al di là della
qualità e quantità delle dotazioni, le forze armate, relegandole nell’ angolo. Per giunta, ogni volta che i militari conquistavano il potere, in questo o quel paese, l’Occidente storceva il naso, anche a
costo di prescindere dai
propri interessi (nel senso
di un golpe filo-occidentale). Un atteggiamento - non privo di accordi sottobanco, sempre negati ufficialmente - che rinvia esemplarmente a quello tenuto dall’Occidente negli ultimi anni del regime
franchista e verso la dittatura di Pinochet, addirittura demonizzata, nonché di altri
generali e colonnelli sparsi qui e là nel mondo.
Così sul piano esterno.
Su quello interno, sempre in Occidente, i pretoriani, per parafrasare Samuel Finer, autore di un
classico studio sul ruolo dei militari in politica, sono ormai reputati alla stregua di modestissimi vigili urbani, chiamati di tanto in tanto a
regolare qualche improvviso ingorgo. Se si potesse tracciare il grafico
dell’onore militare - e del conseguente status
sociale delle forze armate nella
società occidentale - il
risultato sarebbe una curva a campana, che dopo aver toccato il picco nel 1945 scende in
modo inarrestabile fino a toccare l’asse delle ascisse, per un valore pari a
zero.
Come ogni fenomeno sociale, soggetto a numerose variabili esterne, anche le istituzioni militari,
quanto a importanza e ruolo, hanno un andamento ciclico. Di regola, quando
l’orizzonte della politica sta per trasformarsi in polemico, le azioni dei militari ricominciano a
salire. Benché - fattore non secondario - il punto di partenza non sia mai
lo stesso, perché correlato al livello di
inclinazione verso il basso della curva discendente. In Occidente, di questi
tempi, i militari stanno risalendo alcune posizioni. Ma il grado di demoralizzazione (e
conseguente sfiducia sociale) raggiunto
in precedenza - si pensi
all’Italia, ad esempio - è talmente basso, da mettere in dubbio la qualità stessa
dell’intervento. Dal
momento che la questione militare non
può non risentire della sua
parziale riduzione a pura
questione di ammodernamento tecnologico (e in Italia, a dire il vero, neppure questo, perché la modernizzazione è mancata).
Detto altrimenti: professionalismo
a gogò, frutto di una vulgata economico-democraticista, e pacifismo socialistoide diffuso
collettivamente a piene mani, hanno totalmente debellicizzato
la popolazione e minato il morale delle stesse forze armate, le quali ormai ragionano e si comportano come una forza di
polizia municipale.
Chi scrive, non è assolutamente un militarista. Ama la pace, ma sicuramente non è un pacifista. I Romani dicevano si vis pacem, para
bellum. Monito importantissimo, ma completamente dimenticato dalle democrazie occidentali,
soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, in nome di una irrealistica visione
della politica internazionale. Certo,
siamo intervenuti qui e là, in particolare gli Stati Uniti, ma, come si dice, tirati per i
capelli e con il desiderio di tornare subito casa e dimenticare tutto.
Ora però la situazione sta precipitando. E inevitabilmente si tornerà a chiedere aiuto ai pretoriani. Riusciranno a
salvarci?
Carlo Gambescia
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