“Roma città aperta”, una lettura non
conformista
Grande film, piccoli uomini
“Roma
città aperta” è un capolavoro. Lo affermo da spettatore, ancora emozionato. Lunedì mattina, appena sveglio, sono rimasto
incollato davanti alle immagini in bianco e nero di una Roma sfigurata dalla
paura. E così ho rivisto il film di Rossellini per l’ennesima
volta. E con immenso piacere.
Al
grande fascino del film corrisponde però altrettanta ambiguità ideologica.
Senza nulla togliere all’eroismo, storicamente provato con altri nomi ovviamente, di Don Pietro (Aldo Fabrizi) e alla abnegazione dell’ingegnere Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero), il primo fucilato, il secondo, come tanti resistenti, torturato a morte dai
nazisti, il film di Rossellini
conferisce ai comunisti un lasciapassare politico che non meritavano. E non meritano. Assolutamente.
Il
che non significa attenuare le responsabilità degli aguzzini nazifascisti: la "sora Pina" di Anna Magnani che cade sotto i colpi di mitra degli sgherri
tedeschi, solo perché vuole difendere l’uomo che ama, resterà
per sempre nell’immaginario collettivo degli italiani, come monito. Le stesse, implacabili, inquadrature
dei rastrellamenti, che non potevano e non possono non restare scolpite nella mente degli spettatori (basta interrogarne a caso qualcuno), spiegano tante cose di oggi: ad esempio la ritrosia,
che tutti proviamo, verso l’impiego di
mezzi repressivi che possano solo lontanamente
ricordare quelli ordinati da Hitler e
dai suoi scherani. Ma questa è un’ altra storia… Torno
sul punto. Il maggiore Bergman (Harry Feist), si rivolge a Manfredi, militante comunista, ormai in punto
di morte dopo aver subito orribili torture, ricordandogli che i comunisti non
lottano semplicemente per la libertà ma per imporre in Italia il proprio
ordine politico.
Il
che era vero, come provano gli
storici. Però mettere in bocca a un feroce ufficiale nazista una tesi del
genere significava privarla di qualsiasi valore politico: depotenziare
qualsiasi differenza politica tra regimi liberal-democratici e dittature
comuniste nel nome di una presuntiva fedeltà antifascista decisa, imposta e difesa dai sovietici fino alla caduta del regime nel 1991. Insomma, Rossellini e i suoi sceneggiatori (tra i quali
non mancava Fellini), in quell’inverno
del 1945, usando il classico argumentum ad hominem, conferivamo dignità culturale e popolarità a una vulgata politica, di parte, che avrebbe trasformato
sistematicamente ogni anticomunista, anche democratico, in fascista. E, al tempo stesso, come dire, rilasciavano una patente democratica a un partito, quello comunista, che democratico non era…
Argomentazione,
a dire il vero ciellenista, poi dell’arco
costituzionale antifascista, usata politicamente da Togliatti contro De Gasperi e
successori; da Berlinguer contro Craxi; dalla “mite” sinistra post-comunista contro
Berlusconi. E ora potrebbe toccare a Renzi.
Esagero?
In fondo, si parla solo di un film. Di una
grande pellicola dietro la quale però continuano a nascondersi piccoli uomini. Sapete
su quale rete televisiva l’ho rivisto? La
terza rete della tv di stato. Trasmesso il
giorno della Festa della Liberazione. Quando
si dice il caso.
Festa
di tutti, ma a quanto pare, non degli anticomunisti.
Carlo Gambescia
I comunisti son sempre stati furbi nel trasmettere messaggi, attraverso l'arte pittorica (Picasso), cinematografica, letteraria e musicale. La scuola poi è stata la palestra per reclutare militanti, acculturare le masse secondo l'ideologia. Del resto il senso di colpa di chi comunista non era, ha fatto il loro gioco.
RispondiEliminaOggi, dopo il crollo del Muro di berlino, i compagnucci si son rifatti il trucco, ma sotto sotto il volto rimane lo stesso: quello di chi ha abbracciato una visione del mondo sconfitta dalla realtà e dalla verità, ma che comunque gli consente di stare al potere.
Concordo con te, Carlo, il film è un capolavoro. Fabrizi dà il meglio di sé come grande interprete e la Magnani è magicamente possente.
Grazie Angelo! Ricambio il commento con un abbraccio! :-)
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