Il libro della settimana: António Bento (a cura di), Razão de estado e democracia, Edições Almedina , pp.
316.
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Dal
punto di vista strettamente sociologico la Ragione di Stato può essere definita in due
modi: o come strumento al servizio di un potere burocratico, monopolizzante
l'uso della forza legittima, comunque coercitivo (Max Weber); o come
copertura "tecnica", in particolari circostanze, di un potere nudo,
anch’esso coercitivo, esercitato da pochi (o da uno solo), senza il preventivo
consenso democratico sui singoli atti (Harold D. Lasswell). Nei due casi ci si
riferisce a un potere capace di espandersi in modo illimitato, perché in
grado di auto-riprodursi e quindi agli antipodi di quello teorizzato
dalle liberal-democrazie contemporanee come potere destinato a
scomparire, se ci si passa l’espressione, per
"auto-castrazione", e quindi condannato a non avere
"eredi". In realtà, tutti i regimi politici,
inclusi quelli liberal-democratici, sono costretti a fare i conti, in
ambito sociologico, con le regolarità della politica, ossia con quei
fenomeni politici che si ripetono nel tempo, assumendo forza propria. Altro che
autocastrazione del potere... Si pensi solo alla regolarità “sviluppo e
decadenza del potere” e, di conseguenza, ai mezzi non sempre moralmente e
democraticamente leciti - sui quali da
sempre discutono i "tecnici" della Ragion di Stato -
messi in atto dai governanti per favorire lo sviluppo e impedire la
decadenza politica in quanto tali. E perciò a prescindere dai valori, più
o meno giusti, istituzionalmente incarnati ( liberali, cristiani, socialisti,
comunisti, eccetera).
Insomma,
il potere, non sempre è ammaestrabile
"tecnicamente", perché , per dirla con Carl
Schmitt, assume «oggettiva autonomia rispetto al potente» (Carl
Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi 2012, p. 22): sociologicamente parlando,
la “Ragione di Stato”, è sempre il prolungamento ( certo
anche "tecnico") di un potere che difende se stesso.
E in che modo? Razionalizzando, attraverso "derivazioni" (in senso
paretiano), le “Ragioni” della sua stessa esistenza, “Ragioni” che, pur
muovendo dai governati, idealizzano le “Ragioni” dei governanti, finendo spesso
per andare, quanto agli esiti, oltre gli uni e gli altri. Infatti, non sempre
si può, né idealmente ( con i buoni propositi) né tecnicamente ( con i
mezzi più adatti), arrestare la decadenza o favorire lo sviluppo politico
nel senso desiderato. Per dirla, nuovamente con Pareto, la Ragione di
Stato, al di là delle raffinatezze ideali, tecniche e istituzionali, in
cui si possa incarnare , indica sociologicamente una sola
cosa: la “persistenza” di quel potente “residuo” che gli uomini chiamano
potere. Con il quale, ripetiamo, le liberal-democrazie non possono non fare
conti. Ma - ecco la domanda delle domande - è possibile un incontro tra Ragione
di Stato e democrazia?
All’
affascinante interrogativo è dedicata l’ottima raccolta curata da António
Bento, Razão de estado e democracia (Edições Almedina). Si tratta di un
progetto di ricerca realizzato nell’ambito dell’Instituto de Filosofia
Prática, centro finanziato dalla Fundação para Ciência e a
Tecnologia, dell’Universidade da Beira Interior (Covilhã, Portogallo). Il
volume, che si muove nell’ambito delle filosofia politica e della storia delle
idee, riunendo insigni specialisti, non solo portoghesi ma di rilievo europeo,
fornisce alcuni punti fermi di interesse sociologico, e proprio nel senso più
sopra anticipato. Di qui, la necessità di queste note.
Dopo
l’eccellente e sintetica Introdução di António Bento, nella Prima parte (“Idade
Moderna”) vengono discusse alcune fondamentali scoperte e aporie, maturate, per
l’appunto, in età moderna, intorno alla Ragione di Stato. E probabilmente,
proprio per sbarazzare il campo da una visione della politica, sociologicamente
ingenua, perché fondata sul dover essere (ideale) e non sull’essere (reale)
sociologico delle cose umane.
Rui
Bertrand Romão (Considerações sobre a razão de Estado e a conservaçao do
estado, pp. 13-23), spiega molto bene, perché autoconservazione
del potere e conservazione dello stato, non
sempre collimino, soprattutto quando prevalgono gli
interessi particolari. Di conseguenza, in società frammentate e divise come le
nostre, anche il potere burocratico finisce per essere considerato un potere
tra gli altri. E di riflesso, la conservazione dello stato non può non
risentirne. Un tema che ricorre anche nel saggio di Diogo Pires Aurélio
(Antinomias da razão de estado, pp. 25-50), dove si mostra con eleganza
concettuale come la Ragione di Stato sia stata necessariamente
divisa, fin dal suo esordio cinquecentesco, tra bisogno di segretezza, come
mezzo, e bene pubblico, come fine: due realtà rivelatesi nel tempo sempre più
antitetiche. Probabilmente un ritorno al politico, in senso puro - come vivere
politicamente - potrebbe facilitare la ricomposizione tra i due momenti.
E questa sembra essere la tesi racchiusa nel corposo testo di Thierry Ménissier
(Inactualidade de Maquiavel? Regresso ao “maquiavelismo”, pp. 51-99).
Interessante
anche il saggio di Luís Salgado de Matos (Cristo mestre de Maquiavel: A Razão
de Estado nas palavras de Cristo no evangelho de S. Mateus , pp. 101-108),
soprattutto per l’approccio molto particolare che ricorda quello di Giuseppe
Prezzolini (Cristo e/o Machiavelli, Rusconi 1971). Il quale, in realtà
suggeriva un via mediana tra Cristo e Machiavelli mentre Salgado de Matos pone
l’accento sul lato machiavelliano dell’insegnamento di Gesù. Il che però non ne
diminuisce, il non comune, interesse interpretativo.
Non
meno validi i tre scritti conclusivi della Prima parte: António Bento
(Máximas de Estado, segredos de Estado, golpes de Estado e razão de Estado em Gabriel Naudé , (pp.
109-148); Montserrat Herrero (Neutralizaçao da consciência e razão de Estado
nas origens da filosofia política liberal , pp. 149-176); Martim de Albuquerque
( Razão de Estado e segredo «versus» democracia e publicidade? , pp. 177-198).
Bento tratteggia in modo magistrale la figura di Gabriel Naudé: il più
importante teorico della politica pura, dopo Machiavelli: una
politica modernamente intesa, senza veli etici o abbellimenti morali. Nel
cui pensiero il potere, schmittianamente, va oltre gli uomini e non sempre si
lascia addomesticare. Ed è questo forse il suo più importante segreto trasmesso
ai posteri, oltra ai raffinati consigli agli uomini
politici di ogni tempo, su come gestire
"tecnicamente" la
Ragione di
Stato. La Herrero ,
partendo da Hobbes e Locke, coglie invece il primitivo dissidio, interno alla
gnoseologia liberale, tra ragione pubblica e ragione privata, tra bisogno di
protezione e bisogno di libertà: mai sanato da uno stato liberale solo
apparentemente neutrale; di qui, la difficoltà di edificare una ragion di stato
liberale capace di incarnare, non solo formalmente, consenso morale e decisione
politica. Martim de Albuquerque, sottolinea invece come segreto e trasparenza
siano sempre frutto, anche nelle democrazie, di un equilibrio storico, legato
quindi agli uomini e agli eventi contingenti, e perciò non sempre perseguibile:
un equilibrio tra difesa della democrazia e uso di mezzi che non possono essere
( o almeno non sempre) democratici e «trasparenti». Una tragedia.
Nella
Seconda parte (“Idade contemporânea”), si studia il mondo contemporaneo; il
discorso si fa meno storico-teoretico e più sociologico. Jerónimo Molina (
Introduções à Razão de Estado , pp. 201-220), propone una
intrigante rilettura del pensiero di Giuseppe Ferrari, autore di una
celebre e oggi dimenticata, purtroppo proprio in Italia,
Histoire de la raison d’État. La tagliente attenzione di Molina si volge
principalmente alle regolarità della politica, alcune delle quali, come quella
del ciclo politico e quindi delle differenti «Ragioni di Stato», già
formulate in Ferrari. Insomma, regolarità come scelta politologica: parti
integrante e necessarie di qualsiasi teoria realistica della politica,
quale studio, per dirla con Freund, altro autore caro a Molina, del «politico».
Segue
il sottile scritto di Juan Manuel Forte ( Coup d’État e razão de Estado: A
sombra de Naudé no costitucionalismo liberal, (pp. 221-242), dove si evidenzia
quanto scrivevamo all’inizio di queste note: come in tutti i regimi, incluso
quello liberale, la “Ragione” di Stato, messa a fuoco da Naudé, non sia altro
che il prolungamento di un'azione-reazione del potere che difende se
stesso, razionalizzando, attraverso "derivazioni" in senso paretiano,
le “Ragioni” della sua stessa esistenza. Un meccanismo di azione-reazione che
va oltre le “Ragioni” storicamente invocate, che di volta in volta possono
essere le più differenti, incluse quelle delle libertà liberali: si tratta di
un meccanismo, scoperto e anticipato da Naudé. Di qui,
probabilmente, la sua ombra incombente.
Si
tratta di un argomento che ritorna, benché declinato secondo modalità differenti,
anche nei saggi di Alessandro Arienzo (Razão de Estado costitucional e
democracia de emergenza: os percursos da conservaçao contemporãnea , pp.
243-272) e di Gianfranco Borrelli (Razão de Estado, Gouvernamentalité,
governance: Percursos da Razão política ocidental na época moderna e
contemporânea). pp. 273-297). Arienzo fornisce un eccellente e
appassionato quadro della Ragione di Stato come strumento conservativo dei
contemporanei valori liberali, senza peraltro dimenticare la criticità
della realtà politica ed economica, criticità che oggi
sembra contraddistinguere il difficile cammino del mondo
Occidentale. Borrelli, si sofferma. con pari intensità evocativa e analoga
intelligenza degli eventi, sui modelli di governance mondiale e sulle difficoltà,
conseguenti al forte e diseguale progresso tecnologico ed economico, di
conciliare democrazia e mantenimento dello status quo, attraverso il ricorso,
da parte dell’Occidente a una Ragione di Stato più tecno-economica che
politica.
Il
libro si chiude con il denso saggio di Jaime Nogue
Pinto (Democracia e Razão de Estado , pp. 299-313). Il quale, rispondendo in
qualche misura alla domanda fondamentale posta nell’ Introduçao da António
Bento (è possibile conciliare Ragione di Stato e democrazia?), asserisce -
malinconicamente, ci pare - che il politico, come regolarità, è più
forte delle istituzioni storiche e di ogni etica dei principi. Soprattutto in
politica estera. E che perciò come mostra l’esperienza Usa, in particolare
dopo l’11 Settembre, anche il popolo più democratico del mondo, come dicono di
se stessi gli americani, fin dal tempo di Tocqueville, non si è tirato
indietro e ha accettato le durissime leggi antiterrorismo e le campagne
militari all’estero: primum vivere, deinde philosophari… Come dire, rivedendo e
aggiornando l’antico adagio: Prima difendersi, poi discettare sull’ottimo
governo… Prima difendersi dal "nemico": altra regolarità.
Pertanto la risposta racchiusa in Razão de estado e democracia è sì. Anche se -
ecco l’amara ma lucida postilla à la Naudé - il libro, di cui suggeriamo una
pronta traduzione in lingua italiana, spiega, e molto bene, che deve essere la
democrazia liberale a piegarsi al politico. E non viceversa. Anche perché, se
ci si trastulla giocando con i balocchi concettuali pacifisti,la Verità (del Politico) si vendica sempre. E in
che modo? Ad esempio, come è accaduto, con la
distruzione, frutto di un improvviso atto di guerra,
delle Torri Gemelle.
Carlo Gambescia
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