giovedì 23 aprile 2015

Il libro della settimana: António Bento (a cura di), Razão de estado e democracia, Edições Almedina  , pp. 316. 

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Dal punto di vista strettamente sociologico la Ragione di Stato può essere definita in due modi: o come strumento al servizio di un potere burocratico, monopolizzante l'uso della forza legittima, comunque coercitivo (Max Weber); o come copertura "tecnica", in particolari circostanze, di un potere nudo, anch’esso coercitivo, esercitato da pochi (o da uno solo), senza il preventivo consenso democratico sui singoli atti (Harold D. Lasswell). Nei due casi ci si riferisce a un potere capace di espandersi in modo illimitato, perché  in grado  di auto-riprodursi e quindi agli antipodi di quello teorizzato dalle liberal-democrazie contemporanee come potere  destinato a scomparire,  se ci si passa l’espressione, per "auto-castrazione", e quindi condannato a non avere "eredi".  In realtà, tutti i regimi politici, inclusi quelli liberal-democratici, sono costretti a fare i conti, in ambito sociologico, con le regolarità della politica, ossia  con quei fenomeni politici che si ripetono nel tempo, assumendo forza propria. Altro che autocastrazione del potere... Si pensi solo alla regolarità “sviluppo e decadenza del potere” e, di conseguenza, ai mezzi non sempre moralmente e democraticamente leciti  - sui  quali da sempre discutono   i "tecnici" della Ragion di Stato - messi in atto   dai governanti per favorire lo sviluppo e impedire la decadenza politica in quanto tali. E perciò a prescindere dai valori, più o meno giusti, istituzionalmente incarnati ( liberali, cristiani, socialisti, comunisti, eccetera).
Insomma, il potere, non  sempre è ammaestrabile "tecnicamente",  perché , per dirla con Carl Schmitt,   assume «oggettiva autonomia rispetto al potente» (Carl Schmitt, Dialogo sul potere, Adelphi 2012, p. 22): sociologicamente parlando, la “Ragione di Stato”,  è sempre il prolungamento ( certo anche "tecnico")  di un potere che difende se stesso. E in che modo? Razionalizzando, attraverso "derivazioni" (in senso paretiano), le “Ragioni” della sua stessa esistenza, “Ragioni” che, pur muovendo dai governati, idealizzano le “Ragioni” dei governanti, finendo spesso per andare, quanto agli esiti, oltre gli uni e gli altri. Infatti, non sempre si può, né idealmente ( con i buoni propositi) né tecnicamente ( con i mezzi più adatti),  arrestare la decadenza o favorire lo sviluppo politico nel senso desiderato. Per dirla, nuovamente con Pareto, la Ragione di Stato, al di là delle raffinatezze ideali, tecniche e istituzionali,  in cui si possa incarnare ,  indica sociologicamente  una sola cosa: la “persistenza” di quel potente “residuo” che gli uomini chiamano potere. Con il quale, ripetiamo, le liberal-democrazie non possono non fare conti. Ma - ecco la domanda delle domande - è possibile un incontro tra Ragione di Stato e democrazia?
All’ affascinante interrogativo è dedicata l’ottima raccolta curata da António Bento, Razão de estado e democracia (Edições Almedina). Si tratta di un progetto di ricerca realizzato nell’ambito dell’Instituto de Filosofia Prática,  centro  finanziato dalla Fundação para Ciência e a Tecnologia, dell’Universidade da Beira Interior (Covilhã, Portogallo). Il volume, che si muove nell’ambito delle filosofia politica e della storia delle idee, riunendo insigni specialisti, non solo portoghesi ma di rilievo europeo, fornisce alcuni punti fermi di interesse sociologico, e proprio nel senso più sopra anticipato.  Di qui, la necessità di queste note.
Dopo l’eccellente e sintetica Introdução di António Bento, nella Prima parte (“Idade Moderna”) vengono discusse alcune fondamentali scoperte e aporie, maturate, per l’appunto, in età moderna, intorno alla Ragione di Stato. E probabilmente, proprio per sbarazzare il campo da una visione della politica, sociologicamente ingenua, perché fondata sul dover essere (ideale) e non sull’essere (reale) sociologico delle cose umane.
Rui Bertrand Romão (Considerações sobre a razão de Estado e a conservaçao do estado, pp. 13-23),  spiega molto  bene, perché autoconservazione del potere e conservazione dello stato,  non sempre  collimino,  soprattutto quando prevalgono gli interessi particolari. Di conseguenza, in società frammentate e divise come le nostre, anche il potere burocratico finisce per essere considerato un potere tra gli altri. E di riflesso, la conservazione dello stato non può non risentirne. Un tema che ricorre anche nel saggio di Diogo Pires Aurélio (Antinomias da razão de estado, pp. 25-50), dove si mostra con eleganza concettuale  come la Ragione di Stato sia stata necessariamente divisa, fin dal suo esordio cinquecentesco, tra bisogno di segretezza, come mezzo, e bene pubblico, come fine: due realtà rivelatesi nel tempo sempre più antitetiche. Probabilmente un ritorno al politico, in senso puro -  come  vivere politicamente -  potrebbe facilitare la ricomposizione tra i due momenti. E questa sembra essere la tesi racchiusa nel corposo testo di Thierry Ménissier (Inactualidade de Maquiavel? Regresso ao “maquiavelismo”, pp. 51-99).
Interessante anche il saggio di Luís Salgado de Matos (Cristo mestre de Maquiavel: A Razão de Estado nas palavras de Cristo no evangelho de S. Mateus , pp. 101-108), soprattutto per l’approccio molto particolare che ricorda quello di Giuseppe Prezzolini (Cristo e/o Machiavelli, Rusconi 1971). Il quale, in realtà suggeriva un via mediana tra Cristo e Machiavelli mentre Salgado de Matos pone l’accento sul lato machiavelliano dell’insegnamento di Gesù. Il che però non ne diminuisce, il non comune, interesse interpretativo.
Non meno validi i tre scritti conclusivi della Prima parte: António Bento (Máximas de Estado, segredos de Estado, golpes de Estado e razão de Estado em Gabriel Naudé, (pp. 109-148); Montserrat Herrero (Neutralizaçao da consciência e razão de Estado nas origens da filosofia política liberal , pp. 149-176); Martim de Albuquerque ( Razão de Estado e segredo «versus» democracia e publicidade? , pp. 177-198). Bento tratteggia in modo magistrale la figura di Gabriel Naudé: il più importante teorico della politica pura, dopo Machiavelli: una politica modernamente intesa, senza veli etici o abbellimenti morali. Nel cui pensiero il potere, schmittianamente, va oltre gli uomini e non sempre si lascia addomesticare. Ed è questo forse il suo più importante segreto trasmesso ai posteri, oltra ai raffinati consigli agli uomini politici di ogni  tempo, su come  gestire "tecnicamente" la Ragione di Stato.  La Herrero, partendo da Hobbes e Locke, coglie invece il primitivo dissidio, interno alla gnoseologia liberale, tra ragione pubblica e ragione privata, tra bisogno di protezione e bisogno di libertà: mai sanato da uno stato liberale solo apparentemente neutrale; di qui, la difficoltà di edificare una ragion di stato liberale capace di incarnare, non solo formalmente, consenso morale e decisione politica. Martim de Albuquerque, sottolinea invece come segreto e trasparenza siano sempre frutto, anche nelle democrazie, di un equilibrio storico, legato quindi agli uomini e agli eventi contingenti, e perciò non sempre perseguibile: un equilibrio tra difesa della democrazia e uso di mezzi che non possono essere ( o almeno non sempre) democratici e «trasparenti». Una tragedia.
Nella Seconda parte (“Idade contemporânea”), si studia il mondo contemporaneo; il discorso si fa meno storico-teoretico e più sociologico. Jerónimo Molina ( Introduções à Razão de Estado , pp. 201-220), propone   una intrigante  rilettura del pensiero di Giuseppe Ferrari, autore di una celebre e oggi dimenticata,  purtroppo proprio  in Italia, Histoire de la raison d’État. La tagliente attenzione di Molina  si volge principalmente alle regolarità della politica, alcune delle quali, come quella del ciclo politico e quindi delle differenti «Ragioni di Stato»,  già formulate in Ferrari. Insomma, regolarità come scelta politologica:  parti integrante e necessarie  di qualsiasi teoria realistica della politica, quale studio, per dirla con Freund, altro autore caro a Molina, del «politico».
Segue il sottile scritto di Juan Manuel Forte ( Coup d’État e razão de Estado: A sombra de Naudé no costitucionalismo liberal, (pp. 221-242), dove si evidenzia quanto scrivevamo all’inizio di queste note: come in tutti i regimi, incluso quello liberale, la “Ragione” di Stato, messa a fuoco da Naudé, non sia altro  che il prolungamento di un'azione-reazione del potere che difende se stesso, razionalizzando, attraverso "derivazioni" in senso paretiano, le “Ragioni” della sua stessa esistenza. Un meccanismo di azione-reazione che va oltre le “Ragioni” storicamente invocate, che di volta in volta possono essere le più differenti, incluse quelle delle libertà liberali: si tratta di un meccanismo, scoperto e anticipato da Naudé. Di qui, probabilmente, la sua ombra incombente.
Si tratta di un argomento che ritorna, benché declinato secondo modalità differenti, anche nei saggi di Alessandro Arienzo (Razão de Estado costitucional e democracia de emergenza: os percursos da conservaçao contemporãnea , pp. 243-272) e di Gianfranco Borrelli (Razão de Estado, Gouvernamentalité, governance: Percursos da Razão política ocidental na época moderna e contemporânea). pp. 273-297). Arienzo fornisce un eccellente e appassionato quadro della Ragione di Stato come strumento conservativo dei contemporanei valori liberali, senza peraltro dimenticare  la criticità della  realtà  politica ed economica, criticità che oggi sembra contraddistinguere il difficile  cammino  del mondo Occidentale. Borrelli, si sofferma. con pari intensità evocativa e analoga  intelligenza degli eventi, sui modelli di governance mondiale e sulle difficoltà, conseguenti al forte e diseguale progresso tecnologico ed economico, di conciliare democrazia e mantenimento dello status quo, attraverso il ricorso, da parte dell’Occidente a una Ragione di Stato più tecno-economica che politica.
Il libro  si chiude con  il denso  saggio di Jaime Nogue Pinto (Democracia e Razão de Estado , pp. 299-313). Il quale, rispondendo in qualche misura alla domanda fondamentale posta nell’ Introduçao da António Bento (è possibile conciliare Ragione di Stato e democrazia?), asserisce - malinconicamente, ci pare -   che il politico, come regolarità, è più forte delle istituzioni storiche e di ogni etica dei principi. Soprattutto in politica estera. E che perciò come mostra l’esperienza Usa, in particolare dopo l’11 Settembre, anche il popolo più democratico del mondo, come dicono di se stessi gli americani, fin dal tempo di Tocqueville, non si è tirato indietro e ha accettato le durissime leggi antiterrorismo e le campagne militari all’estero: primum vivere, deinde philosophari… Come dire, rivedendo e aggiornando l’antico adagio: Prima difendersi, poi discettare sull’ottimo governo…  Prima difendersi dal "nemico": altra regolarità. Pertanto la risposta racchiusa in Razão de estado e democracia è sì. Anche se - ecco l’amara ma lucida postilla à la Naudé - il libro, di cui suggeriamo una pronta traduzione in lingua italiana, spiega, e molto bene, che deve essere la democrazia liberale a piegarsi al politico. E non viceversa. Anche perché, se ci si trastulla giocando con  i balocchi concettuali pacifisti,la Verità (del Politico) si vendica sempre. E in che modo? Ad esempio,  come è accaduto, con la distruzione,   frutto di un improvviso atto di guerra,  delle Torri Gemelle.

Carlo Gambescia

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