Ancora sul giornalismo post-aennino
Quattro sfumature di nero
Qualche giorno fa abbiamo pubblicato il "meta-menabò" del giornalismo post-aennino (*), per provare che il
lupo, pur perdendo il pelo (del potere), non ha perduto
il vizio (della camicia nera). Ciò però non significa che le capacità
mimetiche, acquisite nel ventennio della pacchia, (Tedeschi padre docet), stavolta quello berlusconiano, siano andate perdute. Anzi.
Pubblichiamo quattro coccodrilli,
scritti dalla stessa mano, piuttosto
brava, dove il fascismo acclarato del De
cuius, cambia tono in base alla linea editoriale della testata. Si può parlare, per essere alla moda, di quattro sfumature di nero: si passa dal nero-tartufo, dico non dico, dove la si butta sul “ribelle” (“il
Tempo.it”) al classico nero-orbace, duro e puro, quello del “Presente!” (“Barbadillo.it”); dall’elegante nero-oro accademizzante del “Fascista
senza Mussolini”, titolo di un libro che però, concettualmente, va contromano, rispetto al pensiero dell'articolista...(“Totalità.it”) al nero-blu
dalle sfumature conservatrici , dove, quando si dice il caso, sparisce, con abilità degna del mago Silvan, il termine fascista ("Destra.it"). Si potrebbe anche parlare di "meta-coccodrillo".
Nulla di personale, perché non
conosciamo l’estensore degli articoli, come del resto lo scomparso che, stando a quel che si legge, doveva essere, professionalmente, molto in gamba. Che la terra gli sia lieve.
Come
usano fare gli etnologi che indagano le tribù primitive, abbiamo raccolto manufatti (verbali) e studiato i rituali (post mortem, in tutti sensi) del giornalismo neofascista, altri ne verranno (in vista di un libro). Per l'antropologo non conta il singolo ma la subcultura collettiva del gruppo tribale analizzato: una destra che pareva aver conseguito, grazie al “culto del cargo”
berlusconiano, un certo grado di
civilizzazione liberal-democratica. E invece…
Carlo Gambescia
Nero-Tartufo (“il Tempo.it”)
IL RICORDO
Rubei, il ribelle scanzonato tra i
Campi Hobbit e il Jazz
Oggi alle 10 a Monteverde i funerali del
fondatore dell'Alexanderplatz
Secondo un
aneddoto molto diffuso a Roma, che deve essere qualcosa di più di un aneddoto
se non altro perché Giampiero Rubei me lo confermò personalmente più di una
volta, l'Alexanderplatz di via Ostia a Roma, il primo Jazz Club d'Italia, a cui
il suo nome è ormai indissolubilmente legato, nacque da un equivoco.
A metà
degli anni '80 Rubei - già segretario della sezione del MSI di Monteverde,
fondatore a fine anni '70, insieme a Generoso Simeone, dei famosi "Campi
Hobbit" in cui almeno due generazioni di militanti di destra avevano
provato a misurarsi davvero con la modernità e i suoi linguaggi, dalla musica
al fumetto, dalle radio libere all'ecologia - era ancora un esponente
autorevole del partito e fu a lui che il Segretario Nazionale, Giorgio
Almirante, chiese di dare vita a un circolo culturale nel centro della
Capitale. Peccato che Almirante avesse a modello il Circolo degli Scacchi e che
Giampiero decidesse invece di mostrargli un seminterrato, proponendogli di dare
vita a un Jazz Club, secondo una formula di successo all'estero, ma ancora
inapplicata in Italia. Inutile dire che Almirante disapprovò l'idea, ma a
quanto pare la cosa non solo non scoraggiò Rubei, ma anzi gli fu di incentivo.
D'altronde
cosa aspettarsi da un uomo che, senza per questo mai contraddire una limpida e
inossidabile coerenza e una precisa visione del mondo, è sempre stato prima di
tutto curioso, creativo, audace, senza pregiudizi e senza paraocchi, insomma in
una parola un uomo profondamente libero?
Giampiero
non era un esperto di Jazz nel 1984, ma con passione, determinazione,
entusiasmo ha saputo diventarlo; ha saputo fare dell'Alexanderplatz un locale
celebre in Italia e nel mondo, da cui sono passati tutti - senza eccezione - i
grandi talenti del Jazz nazionale, da Di Battista a Bollani, da Roberto Gatto a
Enrico Pieranunzi e molte stelle del Jazz internazionale, come Michael Brecker,
Chick Corea, "Chet" Baker. Anzi, come da un albero rigoglioso,
dall'Alexanderplatz sono germogliate negli anni manifestazioni diventate
altrettante pietre miliari, a cominciare dal Festival Jazz di Villa
Celimontana, autentica icona dell'Estate Romana e che è all'origine della viva
amicizia che fino all'ultimo lo ha legato a Gianni Borgna, un uomo da cui lo
separavano totalmente le idee politiche, ma in cui ha sempre riconosciuto uno
spirito affine. Senza dimenticare naturalmente il Festival Jazz di Montalcino o
la splendida avventura - che ebbi la fortuna di condividere - di portare una
vera e propria squadra di grandi interpreti italiani del Jazz a suonare in
alcuni dei più famosi Jazz Club di New York.
Con Rubei
(i funerali si terranno oggi alle 10
in Piazza Rosolino Pilo), Roma e l'Italia hanno perso un
grande organizzatore e imprenditore culturale, un uomo stimato ovunque, ma
anche una persona esemplare nel senso letterale del termine, cioè da prendere
ad esempio. Un ribelle sorridente e scanzonato, ironico e autoironico e nello
stesso tempo un uomo capace di restare per tutta la vita fedele a se stesso,
alla propria storia, a tutti i propri amici.
Quanti, in
coscienza, possono dire lo stesso di sé stessi?
Alex
Voglino
Giampiero Rubei il cuore grande di un
ribelle con il sorriso che sdoganò il jazz a destra
Superò
gli ostracismi e inventò a Roma il celebre Alexander Platz. Poi creò gli
incontri estivi di villa Celimontana
Se ne è andato Giampiero Rubei. Se ne è
andato all’improvviso, lasciandoci – lasciandomi – a bocca aperta e con il
cuore a pezzi.
E’ davvero un pezzo di storia che se ne va
(e un pezzo di me stesso, anche se questo è un fatto privato e giustamente non
interessa agli altri).
Un pezzo di storia di Roma, prima di
tutto, sia per chi lo ricorda fra gli scaffali pieni di libri di via degli
Scipioni, dove mi convinse 40 anni fa a comperare il libro di Dumezìl sulla
tripartizione funzionale dei popoli Indoeuropei, sia per la straordinaria
avventura – culturale e imprenditoriale – dell’Alexander Platz e del Festival
di Villa Celimontana che ne fu naturale spin off, diventando un appuntamento
storico dell’Estate Romana.
Ricordo ancora come fosse ieri le
appassionate discussioni al primo Campo Hobbit, nel ’77, dove io e Marzio
Tremaglia (che rispetto a loro eravamo ragazzini) ragionavamo di tradizione e
modernità, di valori fondanti e di strategie politiche con lui e Rutilio
Sermonti.
Poi ci siamo persi di vista per parecchio
tempo, fino a quando – proprio insieme a Marzio Tremaglia, che era diventato
nel frattempo assessore alla Cultura della Regione Lombardia – comincai nel ’95
a occuparmi, dalla parte della Pubblica Amministrazione, di politiche
culturali.
Fu l’inizio di una straordinaria avventura
quasi quotidiana e durata oltre 15 anni, intensificatasi anzi a partire dal
2002, quando passai alla Regione Lazio e con Giampiero ci inventavamo una cosa
al giorno: Celimontana on the road, i concerti jazz sulle isole, Buon Anno
Jazz, Jazz&Books e chi più ne ha più ne metta. Una straordinaria avventura
e – suprattutto – una avventura irripetibile e non solo perché Giampiero non
c’è più, ma perché tutto un mondo a cui aveva dato così tanto (in termini di
energia, di passione, di intelligenza, di coraggio fisico e intellettuale, di
esempio) gli è naufragato intorno in questi ultimi anni, mettendo miseramente
fine a una stagione che i pochi uomini come lui avevano reso eroica, ma che
tanti altri hanno invece vanificato e condannato a una fine miserabile.
Chissà se Giampiero continuerà a guardare
ogni tanto alle nostre cose terrene o se questo trapasso – per noi così
tremendamente precoce – lo ha invece preservato da ulteriori e ancora più
grandi delusioni.
Conoscendolo continuerà ad arrabbiarsi, ma
senza mollare mai, anche nella sua nuova forma di esistenza.
Giampiero Rubei, presente! Mi manchi già
da morire.
Alex Voglino
Nero-oro ("Totalità.it")
Giampiero Rubei il cuore grande di un ribelle con il sorriso che sdoganò il jazz a destra
Superò gli ostracismi e inventò a Roma il celebre Alexander Platz. Poi creò gli incontri estivi di villa Celimontana
Come ben sanno quelli che gli sono stati davvero amici, Giampiero
Rubei amava raccontare un aneddoto (che poi aneddoto non è, ma pura tradizione
orale) circa la nascita dell’Alexander Platz (il mitico locale jazz
di via Ostia a Roma, da cui sono passati tutti i grandi del jazz italiano
degli ultimi trent’anni, da Di Battista a Gatto, da Danilo Rea a
Enrico Pieranunzi e molti grandi di quello internazionale,
da Chet Baker a Chick Corea e Michael Petrucciani).
L’allora Segretario del MSI, Giorgio
Almirante, aveva chiesto a Giampiero - che era un autorevole esponente del
partito nella Capitale – di organizzare un circolo culturale nel cuore della
città e Rubei era saltato fuori con lo scantinato di via Ostia e l’idea di
creare il primo jazz club d’Italia, mutuando una fortunata formula
anglosassone.
Almirante inorridì, spiegando a Rubei che
quello che aveva in mente lui era una sorta di Circolo degli Scacchi e non
certo un locale fumoso ed equivoco in cui si facesse musica afroamericana.
Rubei – che era Rubei – se ne fregò
altamente e perseguì per conto proprio quella intuizione, destinata a
dimostrarsi per decenni un’idea vincente, sia tramite il successo indiscusso
del locale, oggi noto a livello internazionale, sia attraverso
fortunatissimi spin off quali il Festival Jazz di Villa
Celimontana - diventato un’icona dell’Estate Romana – e il Jazz Festival di
Montalcino.
Ho voluto ricordare questo aneddoto, tanto
caro a Giampiero, perché secondo me racconta in modo esemplare l’uomo Rubei: un
ribelle geniale, un uomo profondamente libero, un uomo di cultura e di azione
nello stesso tempo, secondo un modello antropologico che dal secondo dopoguerra
in avanti in Italia non si è più visto.
Un uomo soprattutto – e ci tengo in
maniera particolare a sottolinearlo – che a differenza di tanti altri ha saputo
dimostrarsi imprenditore, organizzatore culturale e di spettacolo,
interlocutore di artisti e intellettuali, uomo d’avanguardia, senza mai tradire
se stesso, la propria storia, il proprio passato che – per Giampiero – è stato
sempre identico al presente.
Per affermarsi e perseguire il suo
trentennale successo personale, Giampiero Rubei non ha avuto bisogno di
smarrirsi in labirinti intellettuali e onanismi accademici, sputando nel piatto
in cui per tanto tempo aveva mangiato; non ha dovuto avventurarsi in improbabili Imrama fra
verdi, forcaioli, nuovi e vecchi marxisti; non ha dovuto fare ostentazione di
qualunquismo come qualche resistibile spacciatore di canzonette.
No, Giampiero Rubei è sempre serenamente,
limpidamente, inequivocabilmente rimasto un “fascista senza Mussolini” (per
mutuare il fortunato titolo di un libro di Giuseppe Parlato), anzi un
fascista malgrado Mussolini: uno di quelli che avevano capito
per tempo e da tempo che c’è più fascismo in “Carta da Visita” di
Ezra Pound che in tutti i discorsi e gli scritti del Duce; più
viatico rivoluzionario nel “Processo alla Borghesia” di Sulis e Berto
Ricci che nell’intero “Capitale” di Marx.
E questa consapevolezza in Giampiero si è
sempre trasformata non solo in una straordinaria carica vitale, ma anche in
quella capacità di ironia e di autoironia che ne ha fatto un uomo “esemplare”
proprio nel senso in cui Eliade usava questo aggettivo a proposito
del Sacro.
Il mondo con e senza Giampiero Rubei non è
lo stesso.
L’ho capito davvero solo giovedì, quando
la notizia della sua morte mi ha fulminato al telefono.
Che stupido sono.
Chissà se il cuore grande di Giampiero mi
perdonerà ancora una volta
Alex Voglino
Nero-blu ("Destra.it")
Giampiero, il cuore grande di un ribelle con il
sorriso
Come ben sanno quelli che gli sono stati davvero amici,
Giampiero Rubei amava raccontare un aneddoto (che poi aneddoto non è, ma pura
tradizione orale) circa la nascita dell’Alexander Platz (il mitico locale jazz
di via Ostia a Roma, da cui sono passati tutti i grandi del jazz italiano degli
ultimi trent’anni, da Di Battista a Gatto, da Danilo Rea a Enrico Pieranunzi e
molti grandi di quello internazionale, da Chet Baker a Chick Corea e Michael
Petrucciani).
L’allora Segretario del MSI, Giorgio Almirante, aveva
chiesto a Giampiero – che era un autorevole esponente del partito nella
Capitale – di organizzare un circolo culturale nel cuore della città e Rubei
era saltato fuori con lo scantinato di via Ostia e l’idea di creare il primo
jazz club d’Italia, mutuando una fortunata formula anglosassone.
Almirante inorridì, spiegando a Rubei che quello che aveva
in mente lui era una sorta di Circolo degli Scacchi e non certo un locale
fumoso ed equivoco in cui si facesse musica afroamericana.
Rubei – che
era Rubei – se ne fregò altamente e perseguì per conto proprio quella
intuizione, destinata a dimostrarsi per decenni un’idea vincente, sia tramite
il successo indiscusso del locale, oggi noto a livello internazionale, sia
attraverso fortunatissimi spin off quali
il Festival Jazz di Villa Celimontana – diventato un’icona dell’Estate Romana –
e il Jazz Festival di Montalcino.
Ho voluto ricordare questo aneddoto, tanto caro a
Giampiero, perché secondo me racconta in modo esemplare l’uomo Rubei: un
ribelle geniale, un uomo profondamente libero, un uomo di cultura e di azione
nello stesso tempo, secondo un modello antropologico che dal secondo dopoguerra
in avanti in Italia non si è più visto.
Un uomo soprattutto – e ci tengo in maniera particolare a
sottolinearlo – che a differenza di tanti altri ha saputo dimostrarsi
imprenditore, organizzatore culturale e di spettacolo, interlocutore di artisti
e intellettuali, uomo d’avanguardia, senza mai tradire se stesso, la propria
storia, il proprio passato che – per Giampiero – è stato sempre identico al
presente.
Per
affermarsi e perseguire il suo trentennale successo personale, Giampiero Rubei
non ha avuto bisogno di smarrirsi in labirinti intellettuali e onanismi
accademici, sputando nel piatto in cui per tanto tempo aveva mangiato; non ha
dovuto avventurarsi in improbabili Imrama fra
verdi, forcaioli, nuovi e vecchi marxisti; non ha dovuto fare ostentazione di
qualunquismo come qualche resistibile spacciatore di canzonette.
Alex
Voglino
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