venerdì 8 novembre 2019

Nazionalizzare l’Ilva
Ci risiamo


La lezione dell’economia è molto semplice:  un’impresa se non è competitiva chiude. Quando il rapporto tra costi e ricavi   intacca progressivamente  i profitti  perché i beni prodotti restano invenduti,  o si licenzia, tagliando sui costi, o si fallisce. L’operaio licenziato troverà un altro lavoro, l’imprenditore fallito sarà indicato come  esempio negativo. Le imprese competitive  si riorienteranno produttivamente  facendo crescere il Pil. Di qui, nuovi posti di lavoro, altre opportunità per imprenditori e lavoratori, e così via. 
Detto altrimenti, il prezzo dell’acciaio prodotto dall’Ilva  non è competitivo, quindi o si licenziano i dipendenti per tagliare  i costi, o si chiudono i  battenti.  Altrimenti, si rischia di  distruggere il circuito virtuoso di cui sopra.   
In Italia invece, questa mattina, si parla addirittura di nazionalizzazione.  Il che significa  puntare sulla produzione in perdita di  acciaio.  Però, come si legge, i posti di lavoro saranno salvi…
Spesso si sente ripetere che l’economia non è tutto, che prima  vengono le persone, che il profitto si mangia gli uomini, che gli imprenditori hanno una missione sociale da assolvere. Su questo ultimo punto, tra l’altro, si è costruito l'epico romanzo ambientalista  sull’Ilva. Che, a prescindere dalla sua veridicità o meno, finora  è servito solo per gettare  palate di merda (pardon) sull’economia privata, facendo finta di non sapere che in Italia dietro la storia dell’industria dell’acciaio c'è il pubblico, dal momento che nel settore  la parte del leone  l'ha  sempre giocata lo stato.  Lo stesso  stato  al quale oggi viene attribuito potere salvifico.  E per inciso, con il consenso dei sindacati. "Quelli"  dalla parte dei lavoratori...      
In realtà, le imprese devono realizzare profitti: in primis devono assolvere  una missione economica. Se un’impresa produce in perdita non potrà  - ammesso e non concesso -  portare a termine nessuna missione sociale.
Sotto questo aspetto  la nazionalizzazione antepone la missione sociale a quella economica,   ribaltando la  lezione  dell’economia.

Certo, si può sostenere  che la pace sociale viene prima di ogni cosa,  e che quindi   (semplificando il concetto) si deve assolutamente evitare che  un operaio licenziato si possa trasformare in rivoluzionario.  Però  produrre in perdita non fa bene alle casse dello stato e soprattutto  alle tasche dei contribuenti. Che, a loro volta, potrebbero (sempre semplificando) insorgere e invocare, soprattutto i borghesi piccoli piccoli (che non sono pochi),  il solito  Uomo della Provvidenza che taglierà le tasse e aumenterà le pensioni.
Certo, si può sempre puntare sull’inflazione, stampando moneta, condannata però a perdere di  valore ancora prima di essere stampata, perché vittima di  scelte sistemiche antieconomiche incapaci di captare capitali di investimento.  
Certo, è vero che una moneta debole può aiutare  le esportazioni, ma di sicuro non  le importazioni. Per non parlare dei risparmi in titoli e rendite nazionali  a rischio carta straccia,  o peggio ancora di un  denaro dal potere d’acquisto a dir poco volatile (per inciso, viva l'euro che, per ora, impedisce tutto questo).  
Certo, si può sempre  fare guerra, ultima risorsa del nazionalismo economico, cercando di appropriarsi delle risorse del nemico. Gli ultimi a giocarsi questa carta  furono Hitler e Mussolini. Quando si dice il caso...
Insomma, la parola nazionalizzazione evoca scenari  nefasti. Le esperienze storiche dei fascismi, dei comunismi, dei peronismi, tutti regimi sociali "dalla parte del popolo",  evidentemente non hanno insegnato nulla.

Carlo Gambescia