Nazionalizzare l’Ilva
Ci risiamo
La
lezione dell’economia è molto semplice:
un’impresa se non è competitiva chiude. Quando il rapporto tra costi e
ricavi intacca progressivamente i profitti perché i beni
prodotti restano invenduti, o si licenzia, tagliando sui
costi, o si fallisce. L’operaio
licenziato troverà un altro lavoro, l’imprenditore fallito sarà indicato
come esempio negativo. Le imprese
competitive si riorienteranno produttivamente facendo crescere il Pil. Di qui, nuovi posti di lavoro, altre opportunità per imprenditori e
lavoratori, e così via.
Detto
altrimenti, il prezzo dell’acciaio prodotto dall’Ilva non è competitivo, quindi o si licenziano i
dipendenti per tagliare i costi, o si chiudono
i battenti. Altrimenti, si rischia di distruggere
il circuito virtuoso di cui sopra.
In
Italia invece, questa mattina, si parla addirittura di nazionalizzazione. Il che significa puntare sulla produzione in perdita di acciaio. Però, come si legge, i posti di lavoro saranno salvi…
Spesso
si sente ripetere che l’economia non è tutto, che prima vengono le persone, che il profitto si mangia
gli uomini, che gli imprenditori hanno una missione sociale da assolvere. Su
questo ultimo punto, tra l’altro, si è costruito l'epico romanzo ambientalista sull’Ilva. Che, a prescindere dalla sua veridicità o meno, finora è servito solo per gettare palate di merda (pardon) sull’economia privata, facendo finta
di non sapere che in Italia dietro la storia dell’industria dell’acciaio c'è il pubblico, dal momento che nel settore la
parte del leone l'ha sempre giocata lo stato.
Lo stesso stato al quale oggi viene attribuito potere salvifico. E per inciso, con il consenso dei sindacati. "Quelli" dalla parte dei lavoratori...
In
realtà, le imprese devono realizzare profitti: in primis devono assolvere una missione economica. Se un’impresa
produce in perdita non potrà - ammesso e
non concesso - portare a termine nessuna
missione sociale.
Sotto
questo aspetto la nazionalizzazione
antepone la missione sociale a quella economica, ribaltando la lezione
dell’economia.
Certo,
si può sostenere che la pace sociale
viene prima di ogni cosa, e che
quindi (semplificando il concetto) si
deve assolutamente evitare che un
operaio licenziato si possa trasformare in rivoluzionario. Però
produrre in perdita non fa bene alle casse dello stato e
soprattutto alle tasche dei
contribuenti. Che, a loro volta, potrebbero (sempre semplificando) insorgere e
invocare, soprattutto i borghesi piccoli piccoli (che non sono pochi), il solito Uomo della Provvidenza che taglierà le tasse e aumenterà le pensioni.
Certo,
si può sempre puntare sull’inflazione, stampando moneta, condannata però a perdere di valore ancora prima di essere stampata, perché vittima di scelte sistemiche antieconomiche incapaci di captare capitali di investimento.
Certo, è vero che una moneta debole può aiutare le esportazioni, ma di sicuro non le importazioni. Per non parlare dei risparmi
in titoli e rendite nazionali a rischio
carta straccia, o peggio ancora di un denaro dal potere d’acquisto a dir poco
volatile (per inciso, viva l'euro che, per ora, impedisce tutto questo).
Certo, si può sempre fare guerra, ultima risorsa del
nazionalismo economico, cercando di appropriarsi delle risorse del nemico. Gli ultimi a giocarsi questa carta furono Hitler e Mussolini. Quando si dice il caso...
Insomma,
la parola nazionalizzazione evoca scenari
nefasti. Le esperienze storiche dei fascismi, dei comunismi, dei
peronismi, tutti regimi sociali "dalla parte del popolo", evidentemente non hanno insegnato nulla.
Carlo Gambescia