mercoledì 13 novembre 2019

Il saggio di Cailin O’ Connor e James Owen Weatherall
Disinformati si nasce…


Esistono libri utili.  Perché consentono  al lettore,  che vuole capire quel che accade, di approfondire. Ovviamente richiedono un certo impegno, ma alla fine, chiuso e riposto il testo, si può provare l’ebrezza della conoscenza, o comunque di sapere qualcosa più degli altri.
Il volume di   Cailin O’ Connor e James Owen Weatherall, L’era della disinformazione. Come si diffondono le false credenze (Franco Angeli, pp. 275, euro 28,00), appartiene a questa rara specie.   Come del resto la collana in cui viene pubblicato: “Tracce. I nuovi passaggi  della contemporaneità”.  Collezione che offre interessanti titoli sulla “quarta rivoluzione industriale”, il “capitalismo senza capitale” “confini e immigrazione”.Complimenti all’editore.
Che cosa dicono O’Connor e Wheatherall (già noto per The Physics of Wall Street, 2014), professori di logica e filosofia della scienza  dell’Università della California”? Innanzitutto che l’uomo, scienziati compresi (perché tre capitoli su quattro sono dedicati  alle pratiche di “color che sanno”, è un animale che tende alla disinformazione. Si potrebbe dire, che disinformati si nasce. Le fake news  vengono da lontano e forse  nascono con l’uso sociale, assai antico, del mito, come strumento di legittimazione. E come ora vedremo di rassicurazione collettiva. 
Ecco il punto: per quale ragione tendenza alla disinformazione? Perché le cose si possono anche sapere, appropriandosi del loro contenuto di verità, ma per ragioni di conformismo sociale (o pressione sociale) quella stessa verità può  venire occultata.  Per  il semplice  motivo  di uniformarsi al mainstream:  di sentirsi rassicurati dal senso di appartenenza, a prescindere dai contenuti di verità dell'appartenenza. 
Sembra addirittura, come provano studi di psicologia sociale, a partire dal pioniere Solomon Asch, che l’uomo tenda alla disinformazione, per un’innata volontà di andare d’accordo con i suoi simili. Insomma, quel che unisce, poi divide.  In principio fu la cooperazione non il conflitto. O comunque, quest'ultimo, venne dopo,  O’Connor e Wheatherall quasi rovesciano  le famose tesi  di  Hobbes.
In sintesi, banalizzando:  non è vero ciò che è vero, ma è vero quel che piace, non a al singolo ma al gruppo di appartenenza.
Ovviamente, una predisposizione del genere, nell’epoca dei social e delle comunicazioni istantanea, si è trasformata, o comunque rischia di trasformarsi nella polarizzazione politica e sociale -.  altra interessante  tesi sostenuti dagli autori -  della lotta tra conformismi opposti, se si vuole delle stupidità sociali contrastanti. 

Lo scienziato, pur tra i limiti della logica di gruppo, può contare sulle evidenze scientifiche, che pure ci sono, ma l’uomo comune no, perché prigioniero della logica mass mediale della notizia curiosa, anche se falsa.  Di qui, le pesanti responsabilità dei decisori politici e mediatici in questa corsa verso le idiozie politico-sociali, corsa che ad esempio negli Stati Uniti ha  fatto vincere Trump, presentato dai social di destra, purtroppo seguiti a ruota dall’informazione tradizionale, come un vero americano, difensori dei sacri valori, in lotta contro una banda di pedofili e corrotti capeggiata da Hillary Clinton. Fantapolitica… Eppure.  
Rimedi?  O’Connor e Wheatherall (nella foto accanto), su questo fronte tentennano,  come del resto accade quando ci si confronta con il grado zero della socialità umana. 
Per un verso raccomandano  agli scienziati, di non rinunciare mai al valore delle evidenze, delle prove scientifiche,  respingendo qualsiasi pressione esterna ( ma anche interna: parti interessantissime del  libro sono dedicate, anche grazie all’aiuto di grafici, a schemi relazionali di trasmissione dell’informazione). 
Per l’altro verso, si chiede una regolamentazione dei social, severa ma non limitatrice della libertà di espressione. Crediamo però  che gli stessi autori,  nonostante il  vivacissimo pragmatismo, si rendano conto dello sforzo sisifico di conciliare libertà e  nuovi media. Come impedire  la polarizzazione (concetto tra l’altro sviluppato in sociologia, già negli anni Quaranta del Novecento da Pitirim Sorokin)  a colpi di  leggi limitative della libertà di espressione? 
Interessante, anche l’introduzione del concetto di  “democrazia volgare”, che ricorda quello di “democrazia emotiva”, coniato da Theodor Geiger, già negli anni Cinquanta del secolo scorso, al quale  O’Connor e Wheatherall affiancano quello di una democrazia qualitativa, capace di mediare  tra “democrazia volgare” e tecnocrazia.  Lasciamo però  la parola (conclusiva, anche nel libro) agli autori:

“Proporre una nostra forma  di governo, va ovviamente oltre gli scopi di questo libro. Ma ci teniamo a sottolineare che questa è la conclusione logica  delle idee che abbiamo discusso. E il primo passo di questo processo è abbandonare il concetto  del voto popolare  come modalità adeguata per pronunciare un  giudizio che richiede una conoscenza specialistica. La sfida è quella di  individuare nuovi meccanismi  per aggregare valori  che catturino gli ideali democratici, senza renderci ostaggi  dell’ ignoranza e della manipolazione” (p. 233, corsivo nel testo).

Geiger, di cui si veda “Democrazia senza dogmi” (Utet 1968, in Saggi sulla società industriale, a cura di P. Farneti)  ai suoi tempi, consigliò di contrastare la “democrazia emotiva”, populista  e demagogica, puntando sull’accettazione piena degli interessi, in primis, l'interesse dell' elettore a difendere il migliore dei mondi possibili: quello liberal-democratico, imperfetto, ma meno degli altri.  
O’Connor e Wheatherall, si muovono in fondo  nella  stessa direzione, sottolineando giustamente il ruolo dei  meccanismi, per “aggregare valori”.
I valori però, a differenza degli interessi, indicano ciò che vale, e quel che vale, implica giudizi di valore, quindi gerarchizzazione della realtà, di ciò che viene prima. 
Il punto è che su quel che viene prima non tutti sono d’accordo. Di qui conflitti, manipolazioni  e polarizzazioni. Sorokin, che pensava per millenni, riteneva che le polarizzazioni, segnassero inevitabilmente le epoche di crisi e di transizione verso nuovi ordini (si veda in particolare Man and Society in Calamity,  Dutton & Co.1942), età di ferro distinte dalla diffusione di  valori opposti a quelli difesi dagli ordini precedenti.  Insomma, trasformazione epocali.  Ma stiamo veramente vivendo in un’epoca  simile, in tutto e per tutto,  alla dissoluzione  dell'Impero Romano o all'autunno del Medioevo?  
Dalla riposta dipendono le soluzioni. Apocalittiche o meno.  Ma anche  il valore, pratico, se si vuole politico - quindi non solo conoscitivo -   di libri come quelli di Sorokin, Geiger, O’Connor e Wheatherall…  Siamo perciò, ripetiamo,  oltre il puro interesse di lettura.  Il che significa, sicuramente,  oltre queste brevi note.      
Carlo Gambescia