Il saggio di Cailin O’ Connor e James
Owen Weatherall
Disinformati si nasce…
Esistono
libri utili. Perché consentono al
lettore, che vuole capire quel che accade, di approfondire. Ovviamente richiedono un certo impegno, ma alla
fine, chiuso e riposto il testo, si può provare l’ebrezza della conoscenza, o
comunque di sapere qualcosa più degli altri.
Il volume di Cailin O’ Connor e James Owen Weatherall, L’era della disinformazione. Come si diffondono le false credenze (Franco Angeli, pp. 275, euro 28,00), appartiene a questa rara specie. Come del resto la collana in cui viene pubblicato: “Tracce. I nuovi passaggi della contemporaneità”. Collezione che offre interessanti titoli sulla “quarta rivoluzione industriale”, il “capitalismo senza capitale” “confini e immigrazione”.Complimenti all’editore.
Il volume di Cailin O’ Connor e James Owen Weatherall, L’era della disinformazione. Come si diffondono le false credenze (Franco Angeli, pp. 275, euro 28,00), appartiene a questa rara specie. Come del resto la collana in cui viene pubblicato: “Tracce. I nuovi passaggi della contemporaneità”. Collezione che offre interessanti titoli sulla “quarta rivoluzione industriale”, il “capitalismo senza capitale” “confini e immigrazione”.Complimenti all’editore.
Che
cosa dicono O’Connor e Wheatherall (già noto per The Physics of Wall Street, 2014), professori di logica e filosofia della
scienza dell’Università della
California”? Innanzitutto che l’uomo, scienziati compresi (perché tre capitoli
su quattro sono dedicati alle pratiche
di “color che sanno”, è un animale che tende alla disinformazione. Si potrebbe dire, che disinformati si nasce. Le fake
news vengono da lontano e forse nascono con
l’uso sociale, assai antico, del mito, come strumento di legittimazione. E come ora vedremo di rassicurazione collettiva.
Ecco il punto: per quale ragione tendenza alla disinformazione? Perché
le cose si possono anche sapere, appropriandosi del loro contenuto di verità,
ma per ragioni di conformismo sociale (o pressione sociale) quella stessa
verità può venire occultata. Per il semplice motivo di uniformarsi al
mainstream: di sentirsi rassicurati dal senso di appartenenza, a prescindere dai contenuti di verità dell'appartenenza.
Sembra addirittura, come
provano studi di psicologia sociale, a partire dal pioniere Solomon Asch, che l’uomo
tenda alla disinformazione, per un’innata volontà di andare d’accordo con i
suoi simili. Insomma, quel che unisce, poi divide. In principio fu la cooperazione non il conflitto. O comunque, quest'ultimo, venne dopo, O’Connor e Wheatherall quasi rovesciano le famose tesi di
Hobbes.
In
sintesi, banalizzando: non è vero ciò
che è vero, ma è vero quel che piace, non a al singolo ma al gruppo di appartenenza.
Ovviamente,
una predisposizione del genere, nell’epoca dei social e delle comunicazioni istantanea, si è trasformata, o comunque rischia di trasformarsi nella
polarizzazione politica e sociale -.
altra interessante tesi sostenuti
dagli autori - della lotta tra
conformismi opposti, se si vuole delle stupidità sociali contrastanti.
Lo scienziato, pur tra i limiti della logica di gruppo, può contare
sulle evidenze scientifiche, che pure ci sono, ma l’uomo comune no, perché
prigioniero della logica mass mediale della notizia curiosa, anche se
falsa. Di qui, le pesanti responsabilità
dei decisori politici e mediatici in questa corsa verso le idiozie
politico-sociali, corsa che ad
esempio negli Stati Uniti ha fatto vincere Trump, presentato dai social di
destra, purtroppo seguiti a ruota dall’informazione tradizionale, come un vero
americano, difensori dei sacri valori, in lotta contro una banda di pedofili e
corrotti capeggiata da Hillary Clinton. Fantapolitica… Eppure.
Rimedi? O’Connor e Wheatherall (nella foto accanto), su questo fronte
tentennano, come del resto accade quando
ci si confronta con il grado zero della socialità umana.
Per un verso
raccomandano agli scienziati, di non rinunciare
mai al valore delle evidenze, delle prove scientifiche, respingendo qualsiasi
pressione esterna ( ma anche interna: parti interessantissime del libro sono dedicate, anche grazie all’aiuto
di grafici, a schemi relazionali di trasmissione dell’informazione).
Per
l’altro verso, si chiede una regolamentazione dei social, severa ma non
limitatrice della libertà di espressione. Crediamo però che gli stessi autori, nonostante il vivacissimo pragmatismo, si
rendano conto dello sforzo sisifico di
conciliare libertà e nuovi media. Come
impedire la polarizzazione (concetto tra
l’altro sviluppato in sociologia, già negli anni Quaranta del Novecento da Pitirim
Sorokin) a colpi di leggi limitative della libertà di
espressione?
“Proporre una nostra forma di governo, va ovviamente oltre gli scopi di questo libro. Ma ci teniamo a sottolineare che questa è la conclusione logica delle idee che abbiamo discusso. E il primo passo di questo processo è abbandonare il concetto del voto popolare come modalità adeguata per pronunciare un giudizio che richiede una conoscenza specialistica. La sfida è quella di individuare nuovi meccanismi per aggregare valori che catturino gli ideali democratici, senza renderci ostaggi dell’ ignoranza e della manipolazione” (p. 233, corsivo nel testo).
Geiger,
di cui si veda “Democrazia senza dogmi” (Utet 1968, in Saggi sulla società industriale, a cura di P. Farneti) ai suoi tempi,
consigliò di contrastare la “democrazia emotiva”, populista e demagogica, puntando sull’accettazione
piena degli interessi, in primis, l'interesse dell' elettore a difendere il migliore dei mondi possibili: quello
liberal-democratico, imperfetto, ma meno degli altri.
O’Connor e Wheatherall, si muovono in
fondo nella stessa direzione,
sottolineando giustamente il ruolo dei meccanismi, per “aggregare valori”.
I valori però, a differenza degli interessi, indicano ciò che vale, e quel
che vale, implica giudizi di valore, quindi gerarchizzazione della realtà, di
ciò che viene prima.
Il punto è che su quel che viene prima non tutti sono d’accordo.
Di qui conflitti, manipolazioni e
polarizzazioni. Sorokin, che pensava per millenni, riteneva che le
polarizzazioni, segnassero inevitabilmente le epoche di crisi e di transizione
verso nuovi ordini (si veda in particolare Man
and Society in Calamity, Dutton & Co.1942), età di ferro distinte dalla diffusione di valori opposti a quelli difesi dagli
ordini precedenti. Insomma, trasformazione epocali. Ma stiamo veramente vivendo in un’epoca simile, in tutto e per tutto, alla dissoluzione dell'Impero Romano o all'autunno del Medioevo?
Dalla riposta dipendono le soluzioni. Apocalittiche o meno. Ma anche il valore, pratico, se si vuole politico - quindi non solo
conoscitivo - di libri come quelli di Sorokin, Geiger, O’Connor e Wheatherall… Siamo perciò, ripetiamo, oltre il puro interesse di lettura. Il che significa, sicuramente, oltre queste brevi note.
Carlo Gambescia